“NoCity” di Antonio Martone: paura e democrazia nell’età globale
Scrive Antonio Cecere, a conclusione della sua Introduzione: “Martone ha avuto il coraggio di guardare il lato oscuro della ECity e, indicandoci come prospera la NoCity, ci chiama a ripensare la nostra esistenza di cittadini del mondo.”
Il primo pensiero è: ci sentiamo cittadini del mondo, o aspiranti transfughi? Ci è ancora consentito di scegliere? Potremmo noi fuggire da questa città inospitale? Non credo, a meno che non abbiamo a disposizione l’Enterprise e un capitano sprezzante dei pericoli come il Capitano Kirk.
“L’etimologia della parola paura va ricondotto alla radice indoeuropea pat- che significa letteralmente percuotere e, in senso figurato, incutere timore, atterrire” – per cui forse si dice battere i denti dalla paura. Essa “accomuna gran parte del regno animale…” – una pur angosciante risorsa che ti permette di affrontare con più saggezza il mondo, purché essa non indebolisca la tua consapevolezza. Se dovessi scegliere la parola a cui mi sento più affezionato è consapevolezza, che cela (e protegge) un pensiero lento, ripetuto e depositato più volte sulla coscienza, che acquista il valore di dato di fatto su cui contare e su cui fondare la propria azione.
Saggezza e consapevolezza sono termini complementari, la prima conduce alla seconda e viceversa. Il mondo là fuori è ricco d’imprevisti. Quello che non è più del tutto ignoto ci può essere utile ma, al contempo, è foriero di pregiudizi. Saranno queste due ancelle a indicarci cosa utilizzare al fine di comprendere l’enigma del presente, nonostante la mistificazione che ci distrae sia dall’interno che dall’esterno.
“L’uomo è un animale senza artigli, privo di difese naturali e senza un mondo/ambiente fissato una volta per tutte” – che nasce inabile al cento per cento e bisognoso di accompagnamento. Da qui sorge la necessità di una coppia di genitori e, più tardi, di vari maestri di vita.
L’etologo Danilo Mainardi definiva l’uomo un animale culturale, capace di fabbricare utensili in grado di produrre altri utensili, pur partendo da un nulla esperienziale. Da qui nasce il bisogno di acculturazione, la quale ha il fine, a mio parere, di condurre a quelle due suddette facoltà che occorre proteggere e che non bisogna mai trascurare.
“Senza la paura, non si sarebbero elaborati gli innumerevoli strumenti – materiali e culturali – che gli esseri umani hanno prodotto nel corso dei millenni” – la storia è innanzitutto il processo che ha condotto la cultura umana dalla preistoria ai tempi nostri. È un antidoto alla paura, nonostante che, a causa della curiosità umana, essa possa ridestare antichi spettri o crearne di nuovi: come, per esempio, la “ECity” e la “NoCity”.
“… non vi è dubbio che la questione della sicurezza (che null’altro è se non la reazione tipicamente umana alla paura) sia di quelle fondamentali…” – rispetto all’effimera felicità, essa promette un ristoro a più lungo termine.
La tendenza umana a “‘immaginare’ mondi e realtà virtuali” – rende l’uomo più bisognoso di una confortevole sicurezza.
“Il rischio dell’aumento della tensione è un effetto collaterale di qualsiasi politica dominata dalla paura ed essa rischia in qualsiasi momento di crescere fino a raggiungere un punto di non ritorno” – con l’ambiente che lo circonda come necessario obbligato solidale delle sue disgrazie.
“Nulla vi è di più tipico, nella fase moderna della Storia occidentale, della guerra degli Stati sovrani fra di loro. Guerre scatenate per ragioni imperialistiche o per altri motivi, ma pur sempre guerre.”
La (in)naturale difesa per la comunità degli individui diventa pertanto lo Stato, che “offre sicurezza nel mentre richiede obbedienza. Il paradosso è che lo Stato contiene la paura diffondendola la paura” – come a dire: fra noi e loro dovete, vi costi quel che vi costa, necessariamente scegliere noi.
La modernità tende a dimenticare un’ovvietà: “l’uomo stesso, in quanto munito d’un corpo naturale, è a sua volta un ente naturale: cos’altro è l’uomo, infatti, se non natura, purissima natura, umana certo, ma pur sempre natura?” – un animale disgraziatamente culturale.
John Locke aveva visto nello Stato “un giudice in ultima istanza: istituito con compiti circoscritti e condizionato dal dovere di lasciare il più ampio spazio possibile alla tutela della proprietà…” – uno stato, pur liberale, richiede sempre una forma di sottomissione. Il sistema giudiziario ha come scopo principale quello di difendere i diritti, sancendo dei doveri e con la determinazione di una pena prevista per chi non sa li rispettare.
“… nascere in un ambiente di benessere culturale e materiale è cosa ben diversa dal venire al mondo in luoghi dove la vita è precaria, difficile e colma di disagi…” – che è quel che capita in gran parte del globo terrestre, dov’è enormemente maggiore il numero dei disagiati rispetto a quello dei privilegiati, detentori di privus ligium, a cui è permesso di condurre un’esistenza che pare posta al di là della legge naturale (ed economica), e che non rischiano di morire di fame quotidianamente.
“Dopo decenni di economia finanziaria, infatti, il rapporto capitale-lavoro è stato del tutto detronizzato dalla sfera pubblica.” – con il conseguente svilimento del lavoro svolto dal singolo individuo, per cui “il salario è diventato una variabile da aggiustare continuamente al ribasso mentre la caratteristica del lavoro, oltre a un aumento vistoso sul piano quantitativo, è divenuta quella della flessibilità e della delocalizzazione.” La conseguenza è che “gli individui saranno intesi soltanto in quanto produttori di merci…” – e loro, spesso compulsivi, consumatori.
“L’idea che il valore reale sia soltanto quello che si può sottoporre alla legge della domanda e dell’offerta è uno dei prodotti più efficaci, ma anche più socialmente distruttivi dell’ideologia capitalistica” – mi pare si possa definire una delle maggiori cause dell’ingiustizia e dell’inganno economico.
“… il fatto che ci siamo procurati delle protesi funzionali alla nostra vita perché dovrebbe stupirci? L’uomo non è forse l’animale virtualista per eccellenza?” – la sua natura culturale (ossimoro soltanto apparente) lo spinge ad andare oltre, a ex-agerare là dove la realtà non esiste ancora, se non formulando delle ipotesi, oppure simulandola.
En passant, leggendo le opere di vari studiosi della natura, ho acquisito la certezza che, se l’uomo è un ente naturale, anche la cultura è un vero e proprio fenomeno biologico.
“… utilizzare una piattaforma significa, anzi presuppone, l’acquisizione di un linguaggio astratto e codificato e di regole eteronome. Questi linguaggi, nel mentre estendono le possibilità del nostro corpo, da un altro punto di vista ne riducono le capacità espressive.” – questo capita con l’acquisizione di ogni nuovo linguaggio, che ti conduce a usare logaritmi verbali che hanno la caratteristica di apparire assoluti e che non favoriscono una spontanea evoluzione logica. Prendo per esempio l’espressione mass-media, che pur deriva dal latino, che pare codificare una serie di oggetti in modo definitivo, senza esprimere altro che il proprio significato di mezzi di comunicazione di massa, diventando alla fine un algoritmo che viene utilizzato in modo sintetico e restringente da un punto di vista logico.
“Si è costretti a entrare in una casa la cui struttura è stata fatta da altri” – che ospita, ma a cui bisogna rendere qualcosa di sé, una specie di affittanza esistenziale.
“La soggettività contemporanea vive all’interno di una modalità espressiva precisa: divenire essa stessa icona del mondo” – se il mondo ci crea angoscia, parendoci sconosciuto, cosa ci può essere di meglio che auto-convincerci che la nostra immagine sia quanto più possibile conosciuta e universale?
“Divenire un’icona e diffondersi illimitatamente sul web ‘calma’ dal vuoto interiore e dona, sia pure per un istante, una sensazione di eternità.” In un suo detto celebre Andy Warhol assicurava a ognuno un quarto d’ora di celebrità. Il web garantisce una durata molto maggiore, addirittura quotidiana. È possibile ripescare vecchi interventi, anzi, è lo stesso social che periodicamente ti ripropone di pubblicarne uno, datato magari di una decina di anni. Se non è l’eternità, poco ci manca.
Il selfie: “grazie alle App ne costruiamo una ideale ma non pensiamo che questa non ha alcuna concretezza.”
Il dibattito sui social: “la violenza verbale e l’assoluta intolleranza sono il segno certissimo che l’intento della comunicazione non è affatto il reale confronto dialettico, bensì la narcisistica conferma di un ego magari lontanissimo da quello frustrato che effettivamente viviamo nel nostro ruolo sociale.”
Conosco e voglio bene a una cagnolina che è solita ringhiare dal balcone, non appena un rumore o un abbaiare lontano la scuote dal suo torpore quotidiano. La stessa, immersa tra la folla reale, talvolta trema dalla paura. Questa è l’allegoria che mi sento di collegare alla figura del cosiddetto leone di Facebook, a volte timidissimo nella sua consuetudine esistenziale. Il fatto che passa più tempo sui social che in società indica una tendenza a una incomunicabilità che ha le sue radici nella fatale attrazione che la solitudine effettua sulla coscienza dell’uomo moderno.
“… la tecnica si sbarazza facilmente della memoria, riproducendo istanti automatici, sconnessi e astratti gli uni dagli altri, riproponendo davanti all’Io una sorta di eterno presente.” – la memoria stessa diventa un algoritmo periodicamente riproposto, in maniera automatica, dal social stesso, come se fosse una persona che ti dicesse: ti ricordi quella volta che tu…
“Viviamo in un tempo nel quale sono state obliterate – in maniera paradossale quanto efficace – sia la religione in quanto speranza, sia ciò che alla religione si opponeva, ossia il principio illuministico della ragione.” – anche questi due idealismi vengono ingurgitati dalla telematica solo per essere riversati subito dopo, quale espressione da consumare, come se fossero forme differenti del medesimo reality.
“Ci piace sentirci connessi: quanto è difficile ammettere che, tutti noi ormai, chi in una maniera chi in un’altra, siamo inesorabilmente sconnessi da noi stessi…” – dalla nostra unicità esistenziale.
La soggettività non è più “un prodotto dell’esperienza, bensì un portato di un apparato che ci de-centra a seconda dei suoi interessi e dei suoi ritmi macchinali” – più in relazione al prodotto commerciabile che a tutto il resto. Questi social resteranno gratuiti finché potranno lucrare sulla nostra privacy composta di dati e di caratteristiche esistenziali.
I social “hanno messo insieme in pochi anni una quantità sterminata di informazioni su tutti i fenomeni che attengono all’umano…” – un umano che poi acquisterà determinati prodotti imposti dal consumismo.
Ai tempi de I persuasori occulti di Vance Packard era il prodotto che, magari con un’etichetta curvacea anziché quadrata, aveva il compito di attirare l’acquirente. Ora sono i dati dell’acquirente che determinano la stessa produzione e la conseguente vendita delle merci.
“A quanto pare, l’invito rivolto a tutti a entrare nella ECity per coglierne le premesse di felicità immediata nasconde in realtà uno spaventoso lato oscuro.” – che è quello che ci viene taciuto poiché, con una nostra diversa consapevolezza, cesserebbe di svolgere la sua forza attrattiva.
“… che cosa c’è di meglio della produzione della paura per acquisire consenso?” – non certo la ragione capace di analisi, ma un’emotività per cui si finisce di perdere il controllo di sé.
Un modo per indebolire la personalità umana è di costruire “una soggettività facile da manipolare.”
Quello che serve a chi gestisce il potere economico e politico è una specie di uomo algoritmico, che sia facilmente agganciabile da un’altrettanta algoritmica offerta sociale.
La città globale è fondata sulla “costruzione d’un campo di forza anomiche nel quale la competizione brutale e la guerra di tutti contro tutti (non più mediabile nel rapporto statuale protezione-obbedienza) costituisce la regola e non più l’eccezione” – un conflitto che toglie la parola e con essa la capacità di giudicare.
“Noi mettiamo a tacere la nostra consapevolezza di questa evidente realtà perché non vogliamo ammettere che la nostra immaginazione sia stretta in un angolo” – essa non può che espandersi colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare.
“Bisogna essere ben consapevoli, tuttavia, che nulla sfugge al proprio negativo. La NoCity non può essere ignorata: se fingiamo di non vederla, sarà essa stessa a venirci a cercare. La NoCity del degrado e della paura” – ci circonda e ci costringe a non evadere da noi stessi, negandoci la possibilità di ex-agerare e di crearci una nostra alterità.
“… la ECity è inconcepibile senza la NoCity e forse entrare fino in fondo nella città della tecno-finanza significa proprio inoltrarsi ancora di più all’interno del labirinto” – a me questa città stregata pare un buio e freddo deserto che non accoglie ma sospinge continuamente verso quell’altra ben più luminosa città.
Ergo, tra i due luoghi-non luogo esiste una correlazione: se la ECity costituisce un ingannevole paradiso artificiale, “la NoCity ne costituisce invece un residuo disarticolato”, che reca “disagio” ai corpi. Quasi fosse un’arida discarica che t’induce al ritorno alla sicurezza “liquida” della ECity.
I due mondi, pur connessi, devono restare separati per dare l’idea del viaggio a chi è destinato a rimanere esistenzialmente immoto, in quanto privato di un proprio fine personale.
La fluidità è un mezzo che favorisce la diffusione. Ma lo è anche la staticità, se è portatrice di consapevolezza. Ormai è abitudine di tanta gente ricorrere al solito motore di ricerca per individuare il significato di una parola o di un fatto che non si conosce o non si ricorda. La velocità di queste acquisizioni è illusoria, in quanto, proprio per la sua rapidità telematica, rende insicura l’acquisizione dell’esperienza culturale. Si finisce poi per dimenticare il dato acquisito, che si perde nel mare magnum della casualità.
Non è sufficiente la cultura, ma serve l’intelligenza, che però necessita, per essere gestita, della saggezza, che porta alla suddetta, preziosa consapevolezza. Si tratta di processi lenti ma che, una volta avvenuti, stabilizzano l’informazione.
“… il mondo della ECity rappresentato dai pubblicitari convive con le ombre inquietanti della NoCity. Non esistono confini rigidi che possano tener distinte queste due città, poiché spesso si scivola dall’una all’altra senza averne neppure consapevolezza.”
Non è semplice, almeno per me, capire l’essenza di questa NoCity, se non che essa rappresenta una sorta di “parte ‘maledetta’” della ECity, oscura, dove pertanto l’azione dei manipolatori risulta esotericamente efficace.
La materia obbedisce alle regole imposte dalle leggi scoperte negli anni dagli scienziati. Esiste un non-luogo/non-tempo, che è posto al di sotto dello spazio di Planck, in cui tali leggi non sono in vigore. Sento che un margine di mistero debba essere connaturato ma non so in che modo correlato a quella che noi consideriamo la Natura. E che una forma di NoCity sia in qualche modo inevitabile, non per un comune individuo, ma per qualunque essere fisico.
“… la NoCity non è affatto l’opposto della ECity ma il suo rovescio interno: un quid che rende il tutto imperscrutabile, oltre che “irrealizzabile”.
La NoCity “è anche una costruzione dei media occidentali, finalizzata a fornirne un’immagine emotivistica” – che permette una maggiore strumentalizzazione fondata sulla paura.
“Lo scopo sembra già abbastanza chiaro: costruire un discorso anodino, piatto e conforme, tanto universale da dissolvere le differenze.” – creando una fallace uniformità, che permette di tradurre e di far propria l’istruzione algoritmica che si riceve.
“L’idea di poter far fronte a tutto è un altro mito presente nell’inconscio dell’uomo formato dalla tecno-scienza: in realtà esistono tante combinazioni naturali, attuali o possibili, di cui non sappiamo nulla.” – se non che sono probabili.
La meccanica quantistica è fondata sull’attestazione dell’incertezza, per cui una particella che viene emessa andrà dove non è possibile prevedere se non in modo probabilistico, tanto che tale indeterminatezza ha suggerito al cosmologo Hugh Everett III l’idea di multi-mondi immaginari (IMM), teoria non falsificabile e religiosa, che non sarebbe dispiaciuta a Giordano Bruno.
Nel tempo della pandemia, il non uscire di casa ha creato nella gente “una vera e propria ‘crisi della presenza’” – a cui invero, parlo per quello che io stesso ho provato, ci si è abituati in fretta, anche se le immagini che ricevevo dai miei familiari che risiedevano ad Amalfi, città fra le più affollate d’Italia, così innaturalmente desolate da provocare un’angoscia assurda. Quando mi capitò, d’estate, di frequentare un mercato cittadino al coperto, ricordo che dentro di me ho provato una crisi dell’assenza, di tipo agorafobico, per cui decisi immediatamente di affrettarmi verso l’uscita. Il fatto testimonia che l’uomo si adegua a tutto, anche a un lager, se serve a sopravvivere. Per poi mutare il senso della propria abitudine.
“Il potere frammenta le conoscenze, riduce, amplifica i campi di indagine, cancella l’unità e la totalità dell’uomo. Esso divora il pensiero dell’intero per meglio controllarlo. Quando tutto ciò dovesse essere pienamente realizzato, il potere trionfante annuncerà che il regno della libertà, della salute e della conoscenza, è cominciato.” – evviva!
“La nostra esistenza è stretta nella dicotomia fra una presenza impersonale e precaria nella ECity – nella quale tutto è spazzatura, inquinamento, contagio.” – ove la via d’uscita è una sola, cercare “una via d’uscita al suo interno.” – il che non è cosa né semplice, né facile.
“… separare l’amico dal nemico: per trasformare filosoficamente il mondo, occorre presupporre che una qualche entità storica possa essere considerata un avversario politico” – che distolga l’individuo moderno dal suo quasi inevitabile qualunquismo.
“Una volta erano i poeti a produrre il linguaggio. Oggi, nel migliore dei casi, a farlo sono i giornalisti.” – nel peggiore sono certi anchorman televisivi, talvolta così ben disposti al meretricio.
“… facciamo che l’uomo capisca che il pensiero è un bene comune dell’umanità, relazione vivente fra gli uomini e senso etico/estetico dell’esistenza.”
La scrittura di Antonio Martone è come sempre enzimatica: fa sempre reagire chi lo legge. E questo mi pare attesti il vero valore della sua importante docenza.
Il rischio di chi legge è di tradire il pensiero dell’autore: ma anche questo è un aspetto naturale della cultura, a cui il discente di oggi, che potrebbe essere l’insegnante di domani, saprà difficilmente sfuggire.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Martone, NoCity, Castelvecchi, 2021