“Il prigioniero del cielo” di Carlos Ruiz Zafón: la verità conduce alla vita eterna?

Nell’avvertenza che precede l’opera si legge:Questo libro fa parte di un ciclo di romanzi che si intrecciano nell’universo letterario del Cimitero dei Libri Dimenticati. I romanzi che compongono questo ciclo sono legati attraverso personaggi e fili argomentativi che gettano fra loro ponti narrativi e tematici, sebbene ciascuno di essi offra una storia indipendente e chiusa in se stessa.”

Il prigioniero del cielo di Carlos Ruiz Zafón
Il prigioniero del cielo di Carlos Ruiz Zafón

In questo campo elettromagnetico e gravitazionale sono inseriti i due consueti osservatori, lo scrittore e il lettore, che insieme partecipano, con le loro masse e cariche, al turbinio cosmico.

Ho per Fermín la medesima stima che ha di lui Daniel Semper, ma prendo con beneficio d’inventario una sua affermazione: “In futuro tutti i romanzi saranno noir, perché se nella seconda metà di questo secolo da macellai ci sarà un aroma dominante sarà quello della falsità e del delitto, per dirla con un eufemismo”.

Questo savio individuo, che più savio e più individuo non può essere, spara a volte delle frasi che lasciano di sasso, tanto per essere civili.

Il noir è un giallo carico. Chiunque abbia una stampante sa bene che il primo colore che si esaurisce quando si stampano i colori è il nero, che è di rinforzo alle varie tinte.

Giudico il colore usato all’estero per indicare il thriller assai più azzeccato del nostro, che indica soltanto il colore dei volumi. Il nero non è la negazione dei colori della vita, ma il loro essenziale sostentamento. Senza di esso il cosmo intero sarebbe forse salvifico, ma esangue, troppo spirituale per i demoni che alleviamo dentro di noi.

Adesso non ricordo dove ho letto che in fondo non siamo stati quelli di prima, che ricordiamo soltanto quello che non è accaduto…” – anche in questo caso mi spiazzi, caro mendicante aiuto libraio, ma l’effetto dura poco. Basta ragionarci su.

“Adesso non ricordo”, dici perché sei occupato a rielaborare il passato.

“… in fondo non siamo stati quelli di prima”: siamo quelli di ora e saremo quelli di poi.

“… ricordiamo soltanto quello che non è accaduto”: il ricordare è tradurre e tradire quel che fu.

Nella prima parte del romanzo, l’io narrante Daniel rimane sbigottito quando il suo solidale amico Fermín, gli dice che “Se le ho raccontato solo una parte della storia, è stato per proteggerla”. E gli dice anche da cosa: “Dalla verità, Daniel… Dalla verità.”

Dall’interpretazione della stessa ma che, se fa male, com’è sua costumanza, va presa con la molle e messa da parte, prima che finisca di ustionarti.

Avevo tralasciato di dire un fatto essenziale (l’essenza è ovunque e non necessita di un suo posto per essere): all’inizio del Capitolo 3 un tipo losco e monco si era recato nella libreria di Daniel e aveva acquistato una copia preziosa e costosa de Il conte di Montecristo: “il prezzo è trentacinque pesetas”, versate con indifferenza atarassica da quello che a prima vista pareva un disgraziato, che poi lo restituisce a Daniel con l’incarico di consegnarlo “a Fermín Romero de Torres, che è tornato dal mondo dei morti e possiede la chiave del futuro.”

Nella seconda parte la storia precipita verso il basso (o verso l’alto, se tutto è relativo), al 1939 in un luogo che è eufemistico definire tetro, dove anche l’abate Faria avrebbe problemi di claustrofobia: il Castello di Montjuice, che si erge sopra Barcellona in modo sinistro.

A chi assicura che tutto è relativo porrei la domanda: perché il sinistro è tetro? Forse perché regge lo scudo, dove fiondano i dardi e sbattono le lame altrui? Ricordati sempre, caro amico, che il tuo destro è il punto più limitrofo al sinistro del tuo antagonista.

Nel Castello sei alloggiato gratuitamente dal regime franchista sia tu che quel David Martín, che era il narratore del secondo libro di Zafón, che ora pare sempre di più in linea col suo epiteto: Il Prigioniero del Cielo, che dà il titolo al presente volume.

David definisce efficacemente quel luogo di prigionia:Qui si muore semplicemente stando qua” poiché “non c’è bisogno di molto altro”.

Direttore di quel sito è l’intellettualissimo, nonché geniale, ma solo a suo dire, Mauricio Valls, una congerie di orrendezza (che dà assai più l’idea di orrore) e di falsa umanità: e corrisponde in pieno alla tua idea di letteratura moderna. Da anni cerca di scrivere il suo capolavoro altissimo ma c’è un problema: non è capace di iniziarlo. Fissa perciò dei punti geniali e incarica David di sviluppare quei semi che, a suo dire, produrranno un’opera immortale.

Perché David, il geniale scrittore, era recluso? Domanda oziosa: “era colpevole di tutto quello di cui lo accusavano e di altro ancora.” Forse “il procuratore fece in modo riuscì a fare in modo che numerosi testimoni dichiarassero contro di lui.”

Sono parole dette dallo stesso Mauricio che, quando ha bisogno di un servizio, sa assumere un tono conciliante, a cui David risponde in modo icastico: “In questa vita si perdona tutto, tranne dire la verità.”

Chi rice a verità volesse accisu, recita un detto cilentano. Nessuno seppe consigliare qualche innocente bugia a quell’ingenuo Nostro Signore e poi si è visto che fine ha fatto.

La verità conduce alla vita eterna? Va bene, ma nel frattempo, distorcerla leggermente allunga la sopravvivenza.

Mauricio corteggia il suo detenuto scrittore dicendo checon la sua abilità da meretrice e la sua vicinanza al volgo che legge in tram, può aiutarmi a fare qualche piccola modifica e ad avvicinare la mia opera al triste livello dei lettori di questo paese.”

Allora si prendeva il tram e si leggeva. Ora solo chi non ha niente da leggere utilizza quel mezzo obsoleto per spostarsi.

Mauricio definisce la propria opera non ancora scrittadi altissimo livello letterario”, inadatta “in questo paese di analfabeti”, dove non ci sono forse “trecento lettori in grado di comprenderne e di apprezzarne il valore”.

Queste parole fanno meditare. Il noir attira per il suo plot e per il feeling che riesce a risvegliare, che tradotto in italico significa: un libro poliziesco cattura l’attenzione del lettore per la sua trama e per il sentimento che gli fa contorcere le budella.

Poi ci sono i vari Joyce, Celine, Burroughs e Perec che mostrano indifferenza a tale problematica. E a loro non resta che cercare la propria appartenenza all’implume specie, a quel volgo da cui sembrano volersi discostare per sempre e a cui non potranno mai rinunciare.

Diversamente sceglierebbero la via del sannyasin, vestiti ognuno del proprio colore e svanirebbero per sempre altrove, come fece il più grande disperso dell’umano genere, Arthur detto anche il Rimbaud!

Leggendo tutti questi autori ho fatta mia la sofferenza che mi hanno regalato e per parafrasare Sergio Endrigo, da allora la coltivo come un fiore.

Fermín, grazie all’aiuto di Martín, riesce a fuggire, fingendosi un cadavere… Dumas e Dickens avrebbero molto apprezzato l’episodio.

Carlos Ruiz Zafón
Carlos Ruiz Zafón

A curarlo, dopo tanti mesi di sofferenza, è una comunità di sbandati, cui fa capo un certo Armando, “la cui autorità in quel luogo era appena un paio di centimetri al di sotto quella di Dio”, che “era qualcuno soltanto nel mondo invisibile della città dei poveri e degli intoccabili. Ci sono epoche e luoghi in cui essere nessuno è più onorevole che essere qualcuno.” – come a dire che mescolarsi alla polis significa inquinare la propria onestà. Questo vale solo nella Spagna franchista o anche nella nostra morigerata e civile comunità?

Non credo sia mai esistita un momento storico in cui qualcuno non abbia gridato un lancinante O tempora o mores!

Fermín “forse era morto e non lo sapeva nemmeno”. Chiede a qualcuno: “Sono vivo?”: silenzio di tomba.

Uno sconosciuto andava spesso a trovarlo” – e il paziente è curioso di sapere se si tratta di Dio o del suo antagonista. La risposa pare sincera: “Un po’ tutti e due.”

La replica di Fermín è istantanea, non mediata dalla logica: “Io, in linea di principio, sono ateo.” e poi aggiunge, a mo di concia: “Anche se in realtà ho molta fede.” Controreplica del personaggio misterioso: “Come molta gente. Adesso riposi, amico. Il paradiso può attendere. E l’inferno le sta stretto.”

Secondo un articolo “la polizia ha detto che lei è morta.” – ottimo alibi per respirare in pena libertà.

E la storia (di Fermín e di tutti quanti) continua, appassionante.

Consigliato dallo stesso Armando, Fermín si reca dall’avvocato Brians, che gli fa uno strano ragionamento: “Se vuole il mio parere, Martín si è reso conto che sta perdendo la ragione e prima che sia troppo tardi sta cercando di mettere su carte ciò che ricorda. È come se stesse scrivendo una lettera a se stesso per sapere chi è…” – secondo te, caro il mio leguleio, perché sto scrivendo ora?

Lo scrittore ricorda nel senso che si rapporta col suo organo principale (quello che sta tra i due polmoni, per evitare fraintendimenti). Ma anche rammenta, e pure rimembra, utilizzando tutto il suo stato esistente come la massa per trasformarla nell’energia sufficiente a ricreare il suo mondo.

La ragione non si perde, al massimo si smarrisce un po’, perché si possa ritrovarla altrove. Nel perdersi, ci si ritrova inevitabilmente.

Vorrei salvare una frase che adopera Daniel nel descrivere un momento difficile da vivere del padre, che rivive come se fosse ancora attuale un vecchio pensiero: “Aveva, come altre persone, l’abitudine di sorridere esageratamente quando voleva trattenere il pianto.”

Il brivido che ho provato leggendola mi fa capire la funzione della scrittura: fissare per l’eternità quello che sempre si è visto senza mai scorgerlo. E davvero qui vorrei evitare di ripetere il verso di Keats, ma non ci riesco proprio: a thing of beauty is a joy for ever.

“… e, quando scoppiò a piangere, la rabbia e il dolore che aveva seppellito dentro di sé per tutti quegli anni cominciarono a scorrere a fiotti come sangue. Seppi allora, senza poterlo spiegare con esattezza, che in maniera lenta e inesorabile mio padre aveva iniziato a morire.”

Si dice della tragedia che la morte dell’eroe è sempre catartica. E = mc2?

Tutto è abbastanza bene quel che finisce abbastanza bene. Anche il grande vagante Fermín si sistema (ma prima dovrà visitare per la prima volta il Cimitero dei libri perduti): “Vedendo il mio amico baciare la donna che amava, mi venne fatto di pensare che quel momento, quell’istante rubato al tempo e a Dio, valesse tutti i giorni di miseria che ci avevano condotto fin là e tutti quelli che ci aspettavano una volta tornati alla vita, e che tutto quanto era onesto e limpido e puro in questo mondo, e che tutto ciò per cui valeva la pena continuare a respirare era in quelle labbra, in quelle mani e nello sguardo di quei fortunati che, capii, sarebbero rimasti insieme fino alla fine delle loro vite.”

Parole a cui non lecito aggiungere alcunché, per cui lo faccio: se Colui che è esiste anche, non gli si ruba nulla, perché l’ha messo lì, a disposizione: lo si prende solo in prestito. Diversamente è in ogni caso lì e se uno vuole lo può anche pigliare.

Caro Daniel, tua mamma non tornerà alla vita. Dentro di te coltiverai sempre l’odioso dubbio se a ucciderla sia stato il colera o quell’infame.

Nel frattempo vedi di essere sempre te stesso e di campare come riesci. Oppure fai come David, e come Carlos Ruiz. Muori una volta e non muori più. È il consiglio che darei a un figlio.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Carlos Ruiz Zafón, Il prigioniero del cielo, Mondadori

 

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