“La casa obliqua” di Fabio Gaccioli: la gente abita sola anche se è in compagnia
Perché l’esergo di questa raccolta di racconti è: “Parole e sguardi obliqui”?

Se vivi in un quadrato, per raggiungere il lato opposto, la via più breve è partire dall’angolo più vicino. Per incontrare l’angolo opposto è consigliabile percorrere la diagonale.
Se vivi in un triangolo rettangolo, sappi che i due cateti sono fratelli, a volte gemelli, e il loro tutore è l’ipotenusa, il cui quadrato è uguale alla somma dei quadrati di entrambi, anche se, da un punto di vista lineare, essi sono dotati di una maggiore lunghezza.
E se do l’impressione di divagare, significa che non sono riuscito a dissimulare le mie intenzioni.
La casa obliqua è una raccolta di racconti indissolubilmente slegati l’uno all’altro, tanto per usare un ossimoro. Gli individui questo sono, dei parenti prossimi non sempre solidali, ognuno a rincorrere i suoi guai, direbbe il poeta di Zocca.
Nella Nota introduttiva si dice che “… in ogni testo che si rispetti ci sono sempre queste chiavi per aprire tutte le porte e capire davvero cosa vuole dirci. Non sempre però a scuola ci hanno insegnato che le parole chiave sono nulla senza le circostanze.” – le parole non sono che pezzi di ferro inutili se non ci sono porte, né stanze a cui si possa accedere.
L’autore non garantisce la presenza di eventuali mazzi di chiavi, ma di grovigli di fatti sì: “Tutto quello che so è che sono nate in una precisa circostanza, un luogo preciso, forse il più obliquo e attraversato di tutti. Un teatro. Anzi il palcoscenico vuoto di un teatro, sopra un vecchio banco di scuola, dove ogni tanto comparivano certi cavi da infilare in certe prese e in certi microfoni, per una voce o una musica che di lì a poco, forse, sarebbero accaduti.”
Per esprimersi l’artista ha bisogno di un luogo, di un tempo, di un’azione che, pur evolvendosi, devono rimanere avvinti in un’unità. E non deve utilizzare gli abiti altrui, semmai i propri, che dovrà confezionare con le sue mani, oppure restare nudo. Quando uscirà, dovrà posare gli abiti a terra, sempre che non si siano bruciati nel frattempo.
Il primo racconto è Il muro. C’era una volta… un luogo senza una strada, “senza niente di niente”, per cui l’io narrante chiede dove possa passare la gente. Qualcosa c’era, al posto della strada, gli risponde l’amico, “ma il più delle volte era impraticabile.”
Nonostante tale assenza, altre presenze rendevano la vita degna di essere vissuta. Ora che c’è la strada, quando nevica, è il colore bianco e null’altro che la fa da padrone, come se fosse un candido nulla a cui non ci si può più aggrappare. Una volta era diverso. Il progresso porta dei cambiamenti che risolvono alcuni aspetti dell’esistenza, drammatizzandone o annullandone altri.
Quando non c’era la strada, qualcos’altro la sostituiva: “Se stava male qualcuno, ad esempio, lo portavamo all’ospedale con una barella. Dieci o quindici di noi. Ci davamo il cambio, capisci? Non ce ne facevamo nulla della strada.”
Quando essa è apparsa, “è cominciato a cambiare tutto” – e la gente, immagino, ha cominciato a recarsi altrove. E chi è rimasto, oppure chi è tornato, ormai si sente svincolato dall’Altro, sempre più solo e dedito a tutto quel che sostituisce la socialità, soltanto capace di dire a colui che non lo può capire di farsi gli affari suoi. Ognuno ha i propri da gestire, e nessuno lo può aiutare, a causa di quel muro bianco che è vano tentare di liberare dal ghiaccio.
La Nota che ho riportato è il frammento zero che precede il racconto. D’ora in poi ogni racconto sarà chiamato Frm. 1-2-3-4-5. Si tratta di racconti bene, si potrebbe dire virtuali, ellittici, che precedono quelli successivi, più reali, nel senso di più caratterizzati, più formati: che non significa definitivi. La perfezione è di questo mondo, ma appare solo alla fine dell’esistenza, per cui è meglio rimandarla il più possibile. Il che ricorda quelle particelle, dette appunto virtuali, che affollano il vuoto senza riempirlo, non abbastanza dotate di energia per esistere, ma senza di cui nessuna particella reale potrebbe apparire, per poi sparire anch’essa (e per poi riapparire con un’altra forma).
Frm. 1 tratta di un cadavere di un essere e del suo sotterramento. Di più non si sa che quel poco che viene detto e non si ignora che quel nulla che è taciuto. Alla fine il mondo intero “aveva smesso di abbaiare.”
Giocattoli, il racconto successivo tratta di due bambini, uno “con tanti giocattoli”, l’altro no. I bimbi non sono migliori degli adulti, ma ancora cercano di restare uniti al loro prossimo, in un luogo dove i grandi non possono accedere, né controllare, né decidere per loro.
“A loro piaceva quel posto perché erano liberi di entrare e potevano farci le avventure, magari trasformandolo in un castello, oppure in un’antica rovina Maya.”
Questo è il carisma legato all’infanzia, il voler conformare il mondo ai propri sogni.
C’è il risvolto della medaglia, il voler gareggiare l’uno con l’altro, mettendo in palio una parte di sé, il mettersi alla prova, per poter dire a se stessi, e a poi a tutti gli altri, di essere il migliore, il più furbo, il più ardito. Questo succede a entrambi gli antagonisti, e uno dei due dovrebbe ammettere la sconfitta. Finché non diventerà adulto, questo non accadrà mai. Crescere, essere responsabili e invecchiare sono tre condanne inappellabili, la cui pena la si può evitare solo fuggendo.
Frm. 2 racconta del rapporto crudele che i bambini hanno spesso col più debole della compagnia: è il loro modo per dire che ormai sono grandi loro, e non quel coetaneo a cui hanno affibbiato un “nome ridicolo”: “Brembo”.
“Nel giardino di Brembio ci sono i nani da giardino. I nani da giardino sono una cosa stupida e ridicola. Secondo me Brembo è un nano anche lui.”
Questo frammento è il raccontino virtuale che è quasi diventato reale, per come è strutturato. Capita a ogni particella reale, di cominciare da virtuale. Si presenta alla cassa e se ha sufficiente valore energetico, bene, sennò le dicono di riprovare più tardi, che non si sa mai.
Senza sangue è il terzo racconto. Capita a volte che una coppia non riesca più a comunicare. O forse non c’è mai riuscita.
“Senti – dice lui. Ma non riesce a trovare un seguito ragionevole che dia senso al ragionamento. Il suo modo fisico di comunicare è percepire “il corpo di Giulia alle sue spalle.”
Le relazioni fra i due esseri si basa ormai soltanto sulla paura di “quella gente di sotto”, che non li si ha “nemmeno visti in faccia”. Però si sa “che ci sono. Sono là sotto.”
Nel Frm. 3 l’io narrante definisce il Crostolo: “… quello non è manco un fiume, ma una pisciata di fogna che ti arriva alle caviglie.”, dove è impossibile annegare.
Il mondo in cui non si vive è quello in cui, riguardo all’Altro “non c’è niente in quello che dice e quello che fa, e non c’è niente nemmeno in quello che dico e faccio io. Non c’è niente in nessuno di noi.”
Il titolo del quarto racconto, icastico non meno degli altri, è Sacchi. L’io narrante (e chissà se ha il codice fiscale di uno dei precedenti) va a casa con le borse della spesa, sale e si dice: “in camera e ho sistemato le borse sul letto e ho cominciato a tirare fuori tutte le cose nuove che avevo comperato.”
Il nuovo ha la pessima abitudine di rendere inattuale quel che già esiste, che nuovo era ieri.
“Ho guardato la camera e mi è sembrata vecchia. Ho passato un dito su comodino e l’ho sollevato: polvere. Sembrava che tutto, in quel posto, fosse fatto di polvere.”
Altro non è che la polvere di stelle che si deposita nella nostra vita mentre ci spostiamo, insieme alla galassia, a velocità di poco sub-luminale, verso sempre più esaltanti e provvisorie spazialità.
C’è chi la chiama catarsi, chi pulizie eco-ambientali. Di fatto non è che un distruggere quelle parti della nostra anima che hanno cessato di riguardarci.
L’io narrante accumula sacchi riempiti con tutto il vecchio e obsoleto che stava soffocando i suoi sogni. Ne accumula solo dodici, perché ha finito i sacchi.
Nel fare questo si ricorda di Dexter, un cane che aveva accudito per un bel po’, anche quando era rimasto senza di “lei”, la compagna che “alla fine se n’era andata, lasciandomi da solo con quel cane. Qualche tempo me n’ero andato anch’io. Lasciando il cane e tutto il resto.”
Dexter faceva parte delle cose di cui era lecito scordarsi e da buttare in un secondo tempo.
“Alla fine sono riuscito a pescare un vecchio sacco di tela mezzo strappato, che giaceva in un angolo sotto alcuni rastrelli e una scure. Sono tornato in giardino con i miei guanti, la mascherina e i sacchi.” – e anche Dexter è sistemato.
Il Fmr. 4 narra di un qualcosa che meritava di essere scritto. “Come lo volevi intitolare il racconto? Ah sì, aspetta: cani. Volevi scrivere un racconto e intitolarlo cani. Te ne ricordi, vero?”
Sì, se lo ricorda, ma non l’aveva poi scritto. L’importante è che te ne ricordi. – ha detto – te ne ricordi, vero? perché io sì. Voglio dire, io mi ricordo di tutto.”
Il quinto racconto è Gli occhi di sempre. Un giovane operaio ha un colpo di fortuna, anche se dire di culo darebbe più l’idea. Il suo datore di lavoro ha avuto un incidente che semplicemente l’ha decapitato. E per qualche giorno la fabbrica è chiusa.
Marco ha un amico che “si chiama Basenghi”, e la mamma gli fa: “Non li capirò mai i vostri soprannomi”, al che lui le risponde che “Non li capisce nessuno”.
Alla raccomandazione di fare a modo, Marco risponde: “Io faccio sempre a modo.”
Gli occhi sono la parte di noi che più bramano di raccontare i fatti propri e che lottano strenuamente con se stessi per non farlo.
Marco “pensò a suo padre, al suo grugno squadrato, al fatto che non aveva mai portato il culo fuori da quel posto.” – quella maledetta baracca in cui si consuma la propria vita lavorativa, che spesso è la parte più estesa e alienante dell’esistenza.
Tranquillizzo i furastēr, gli esteri: per noi arşȃn, grógn è, come nel resto d’Italia, il grugno di un animale, per lo più del porco. Ma è anche il viso di un congiunto che si ama: lévet al grógn!, la dgîva la mé pôvra mêdra, ma io aveva scarsa dimestichezza con l’acqua, specie se avevo pressia di uscire, e i miei occhi restavano in genere cisposi.
“Adesso Loris era morto. Era morto il padrone. Ma suo padre aveva gli stessi occhi di sempre.”
Chi è rimasto ancora illeso, se esce per sentirsi vivo, rischia di impantanarsi con la macchina, specie se chi guida è distratto, e se piove terribilmente. I due vanno a consumare certi loro riti notturni. È a quel punto dell’esistenza che una pozza d’acqua ha finito d’aspettarli e poi se la ride dei loro goffi tentativi di uscire dal fango.
Il Frm. 5 dice che uno preferisce la cella di isolamento piuttosto che convivere con gli altri in un’affollata camerata.
“Io ogni tanto mi arrampico per le scalette e mi metto seduto e sono abbastanza sicuro che nessuno mi viene a rompere le palle perché a nessuno, nemmeno al capo turno, piace salire le scalette perché c’è puzza qua sopra, e sporco, e umido.”
Lo capisco! I momenti più sereni di quand’ero in caserma li vivevo nel turno di guardia dalle 3 alle 5, sospeso sopra una garitta che al buio non era agevole né da salire, né da scendere. Ero pressoché sicuro che a quell’orario non passava l’ispezione a controllare se ero sveglio: il caporale di picchetto normalmente a quell’ora sonnecchiava. Mi ricordo che una volta, in sberleffo al mondo, mi spogliai completamente e rimasi nudo per quasi due ore. Nessuno, nell’intero universo, fu in grado di accorgersene. Qualche uccello notturno, forse.

Il sesto e ultimo racconto è Montagne russe. All’io narrante stavolta non va troppo male.
“Sì, ad Anna piace un sacco starsene a letto alla luce delle candele.” – e, a lui, guardarla con gli occhi dell’amore: ecco come si chiamava quel sentimento di cui sentivo la mancanza leggendo i primi cinque racconti. Per Anna, l’io narrante è disposto “a metter giù il libro di poesie” e a guardarla “alla luce fioca della lampada, tanto la poesia non sono mai riuscito a farmela piacere del tutto.”
A costui, direi che l’errore più frequente è di consumarne più di una al giorno. C’è chi dice che se ne possano leggere addirittura due, ma ho dei seri dubbi a proposito.
“Siamo stati zitti per un bel po’. Fuori dalla finestra non si sentiva nessun rumore. Ho chiuso un attimo gli occhi e ho provato a immaginare cosa si prova a muoversi così, senza sapere dove si sta andando, senza essere padroni della direzione…”.
È un subire la vita e nel frattempo godersela, come quando si scende dalle “montagne russe” e ogni volta poi si risale e si ridiscende ancora: altri hanno deciso per noi e quel meccanismo svolgerebbe la sua funzione anche se non ci fossimo.
Il racconto sembra non finire mai, come gli altri d’altronde, ma l’ultimo capoverso è positivo.
“Lancio una sigaretta e rientro in casa. Anna ha finito di lavare le stoviglie della colazione. C’è ancora un buon odore di caffè. Mi avvicino e la abbraccio, stretta. Sento il calore del suo corpo. L’odore tiepido della sua pelle, che sa di letto.”
In mancanza di meglio, ora mi alzo e vado ad accendere sotto la moca, che contiene ancora una tazza abbondante di quel prezioso liquido, perché un caffè riscaldato è assai meglio di uno tiepido. Dopo di cui mi chiedo quale sia il pregio di questi racconti. Sono assai ben scritti, sapendo l’autore contenere con accuratezza le parole, alternandone alcune preziose ad altre più popolari, chiamiamole così, e armonizzandole.
Le storie iniziano all’improvviso, e finiscono in un modo non differente. La vita era prima e sarà dopo, ma la storia crea dei limiti invalicabili, oltre cui il lettore è costretto a sbrigarsela da solo.
Lo scrittore ha cessato di svolgere la sua funzione.
Questo è il processo che s’instaura fra queste due anime solitarie. L’azione di chi scrive è raccontare di sé. Quella di chi legge è di proseguire da solo il racconto. Come in Cattedrale di Carver, quel che accade è inevitabile, per cui le ragioni dell’inizio e della fine della scrittura risultano ineffabili.
Belli come i racconti sono i fotogrammi realizzati da Andrea Herman, che accompagnano la narrazione di Fabio Gaccioli. Li ho chiamati così, e non immagini o altro, perché paiono raccontare un film silente e corale, dove i protagonisti sono: quella macchina per scrivere elettrica; quella carta da parati che ha intrappolato un interruttore della luce; quella mensola adorna di cianfrusaglia, ma soprattutto di una valigia e di una cartella; quel portone che contiene una minaccia; quell’uomo che porge, col capo chino, le spalle a un pendio; quei due tizi seduti a un tavolo, uno intento non so a che, l’altro al fotografo; quella cucina dove una sedia con cuscino fa bella mostra di sé; quel nebuloso bosco in cui la vita sembra celarsi, apparendo quando vuole lei; quel paesaggio innevato dove la casa sta attendendo la primavera; quel suo consanguineo autunnale, a cui non rimane che patire l’inverno; quel bimbo che fa una mossetta che capisce solo lui, racchiuso in un fotogramma che appena lo contiene, all’interno di un altro che invece è immoto; quelle goccioline di rugiada, segno che il tempo resterà brutto, ma un po’ meno gelido; quella strada circondata da alberi che vivranno tempi migliori; quella villa ristrutturata, con annessa l’auto del suo padrone; quei tre cani che accorrono verso il fotografo, ma che non paiono entusiasti della sua presenza; quell’immagine di un passeggero d’auto, che sta guidando i suoi pensieri, quei nove alberi frondosi, alcuni un po’ storti, ma tutti svettanti su chi li sta mirando. Su di me, ora.
Dal commiato del libro leggo che i pensieri obliqui sono quelli che più degli altri, “si affacciano alla finestre” e che “si annidano agli angoli delle porte e lì respirano.”
È “tra le crepe di questa Casa obliqua” che si celano, ormai lividi, gli horcrux, i pezzetti di anima che un poeta ha abbandonato a se stessi, tanto lo sa che altri ne nasceranno e colmeranno il vuoto che essi gli hanno donato.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Fabio Gaccioli, La casa obliqua, Abao Aqu, 2020