La pittura simbolista e le idee eterne: la celebrazione del mito e del sogno
Eredi naturali dell’arte romantica e preraffaellita sono i Simbolisti del secondo Ottocento.

Mentre negli Impressionisti il realismo (realizzato con un’intensa attenzione al meccanismo della visione) è al centro delle loro opere, per i Simbolisti lo scopo dell’arte è ritrarre le idee eterne, che si rendono manifeste nei miti e nei sogni: il mondo visibile è soltanto il simbolo di un’idea che l’artista deve cercare di comunicare. Questo è il definitivo punto di rottura con l’arte impressionista: l’arte simbolista indica una realtà che si colloca oltre la coscienza.
Consapevoli dei cambiamenti del mondo in cui vivono, i Simbolisti evadono dalla realtà, prediligendo un mondo ideale in cui mito e simbolo sono al centro di una concezione estetica espressa in ambito letterario da Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, veri padri del Simbolismo.
In particolare, per Mallarmé le parole non valgono per il significato convenzionalmente attribuito loro, ma in quanto generano immagini; allo stesso modo, nelle arti visive le immagini non devono essere semplicemente mimesis mimeseos rispetto alla realtà (ossia “imitazione dell’imitazione”, per utilizzare il linguaggio della critica platonica all’arte), bensì il loro vero valore sta nell’essere dei segni che rimandano ad un esistere profondo e trascendentale.
Come più tardi i surrealisti, i simbolisti si propongono di discendere nei labirinti dell’inconscio, portandone alla luce i contenuti nascosti alla coscienza.
Non è certo un caso che la prima raccolta di litografie di Odilon Redon (artista di cui parleremo nel prosieguo di questo articolo) si intitoli Dans le rêve (“Nel sogno”); a questo mondo ci si può accostare solo sospendendo la coscienza, la quale interpreta a partire dai dati della percezione. Si comprende allora l’importanza assunta nell’immaginario simbolista dal tema del sonno e della morte, che danno accesso ad un mondo ultrasensibile.
Scopo dell’arte simbolista non è dar forma all’impatto emotivo che la realtà provoca nell’individuo, come faranno gli espressionisti, bensì rappresentare, al di là dell’esteriorità, un’idea.
Come per i Preraffaelliti, anche per i Simbolisti la rappresentazione simbolica nasce da una descrizione puntuale della realtà esperita: ma ciò che è percepibile è soltanto un cenno di un’altra dimensione che l’artista cerca di cogliere e mostrare. Al di là della realtà vi è l’idea ed è proprio l’idea che l’artista cerca di portare alla luce.
In termini psicologici, l’idea che i simbolisti cercano di comunicare, servendosi del linguaggio del mito, è un archetipo: è l’inconscio collettivo a mostrarsi nei loro dipinti. Le atmosfere sospese date da una temporalità assai labile ed evanescente, schiudono la porta ad un mondo interiore in cui il tempo fluisce in un eterno ritorno. Ed è proprio al di fuori del tempo storico che l’immagine, calandosi nell’istante, diviene archetipo: l’immagine, purificata dal suo contenuto contingente, è ricondotta all’eternità del simbolo.

L’Edipo e la sfinge, che Gustave Moreau presenta al Salon parigino del 1864 rappresenta, meglio che in altre opere, il volto oscuro del reale. Edipo è chiamato a sondare l’enigma, liberandosi dai suoi lacci mortali; immagine della coscienza che indaga i territori dell’inconscio, egli incarna il compito a cui ognuno è chiamato.
Nella Sfinge dal volto di donna che lo abbraccia seducente, prende forma il Mistero a cui l’Eterno Femminino allude. Come in molte opere preraffaellite, anche in quelle simboliste la donna raffigurata richiama immagine dell’Anima.
Il mito è senza tempo, al di là del tempo, e con il suo eterno ritorno diviene il canale d’accesso al mondo archetipico, popolato da figure tratte dalle leggende e dalle religioni: anche qui, come nei Preraffaelliti, è il mito a veicolare il mondo di idee a cui l’artista attinge.
Mondo non sempre rassicurante, tuttavia, poiché sovente porta alla luce orrori che vengono ignorati dalla coscienza oppure appena intravisti. Ambientato in luoghi inverosimili, come nel caso degli sfondi di Moreau, esso diventa lo scenario in cui si concretizza una progressiva alienazione, propedeutica al manifestarsi di oscuri terrori.
Il mito, comunque, non viene evocato per riaffermare i valori tradizionali, ma è lo strumento attraverso cui si palesa la differente sensibilità dei simbolisti: la risultante è un’oscillazione tra un’accurata descrizione della realtà e l’irrompere di un immaginario che deforma la realtà stessa; proprio in quest’ultima fase troviamo il senso della pittura simbolista, la quale è rivelazione di contenuti interiori ai quali l’artista attinge in modo privilegiato.
Preziosità e raffinatezza accolgono i turbamenti di un’anima resa malata dalle proprie ossessioni: il celebre verso di Verlaine “Sono l’Impero alla fine della decadenza”, sintetizza magistralmente questo tipo di languida sensibilità.
La vita e l’amore sono oscurati da funesti presagi e da un’atmosfera di morte: immagine di questa vitalità che ha in sé la morte è la donna, creatura dal fascino crudele che sfrutta il suo potere per far cadere nel suo gioco di dannazione.
Essa ha il volto della Sfinge, della Gorgone o del Vampiro. Edipo e la Sfinge (1864), Salomè che danza (1876) e L’apparizione di Moreau ne sono alcuni esempi.
La perversa bellezza delle figure femminili dipinte dai Simbolisti incarnano una femminilità mortale, distruttiva: l’Anima rivela qui il suo letale potere.
Personificazione del potere della Natura, la donna ne incarna il volto crudele: è la dea Kali nel suo aspetto oscuro e distruttivo.
I quadri simbolisti diventano così una galleria di ritratti femminili tutti al negativo: Medusa, Gorgone, Sfinge, Chimera, Messalina, Salomè, Elena, Dalila.
Anche nelle opere di Félicien Rops, come in quelle di altri Simbolisti, incontriamo un femminile oscuro che ha perso il suo potere generativo per divenire un seducente strumento di morte.

Così in Pornokratès (1896) di Rops, una figura femminile bendata e vestita solo delle calze conduce al guinzaglio un maiale: la donna qui non è una figura angelicata che fa da musa ispiratrice, bensì una perversa corruttrice che con la tentazione carnale distoglie l’uomo dalla spiritualità.
Non la donna, ma l’androgino rappresenta nei quadri simbolisti l’immagine del vero erotismo: unendo in sé gli opposti, l’androgino supera la dialettica dei sessi e sublima una carnalità corrotta e carica di ombre.
Gli orizzonti del movimento simbolista vengono ricostruiti in modo peculiare da ciascun artista: sono i fantasmi personali a plasmare la raffigurazione mitologica, creando in tal modo una narrazione in cui incubi e ossessioni collettive riflettono anche il mondo interiore dell’artista.
Come nella letteratura simbolista, anche nei quadri compaiono spesso figure che si muovono in ambienti deformati dalle loro allucinazioni, di fatto l’unica realtà: ne sono un esempio le creature fantastiche e mostruose dipinte da Redon.
Anche quest’ultimo dipinge l’Enigma: quel senso di mistero espresso da Mallarmé nei suoi versi riappare nelle oscure visioni del pittore; estraneo alla realtà, egli sembra perdersi in un mondo di incubi, in cui prevale l’ossessione per il mostruoso e in cui umano, animale e vegetale sfumano tra loro.
L’effetto straniante che le sue opere producono è simile a quello indotto dai mostri di Bosch e Bruegel, con la differenza che, con Redon, non è necessario evocare inferni ultramondani per essere sopraffatti da queste visioni: il mistero nasce dal cuore stesso della realtà, a condizione che questa sia vista con altri occhi.
L’artista dà forma al lato oscuro dell’anima, ai bui abissi dell’essere. Gli incubi letterari di Poe, le angosce di Baudelaire, i crudeli scenari della Salammbò di Flaubert (1862) prendono forma nei quadri di Redon.
La mostruosa creatura che spia la ninfa dormiente ne Il Ciclope (1898-1900) sembra delineare proprio questo manifestarsi di mostri dell’inconscio che stanno acquattati nelle zone d’ombra della ragione e della coscienza.
Se per Goya il sonno della ragione genera mostri, per Redon questa propagazione dell’inconscio è inarrestabile ed è la finestra sull’anima. L’artista non cerca di destare la ragione dalla sua inconsapevolezza, ma approfitta della sospensione della coscienza per addentrarsi nelle zone più buie e misteriose dell’anima: è chiaro che, per fare ciò, serve un linguaggio nuovo, che consenta di tradurre in immagini il mistero del mondo interiore.
Emblematico, a tal proposito, è Il silenzio (1911). Le dita poste sulla bocca chiusa sembrano alludere, come negli antichi rituali dei Misteri, ad un segreto che non può essere svelato se non vivendolo, scendendo dentro il proprio cuore, come faranno gli Espressionisti.
Il simbolo, rispetto alla realtà, è “The Dark Side of the Moon”, per citare il titolo di un famoso album del gruppo musicale britannico Pink Floyd, pubblicato nel 1973.
Vi è una realtà (o presunta tale) con cui non si può evitare di interagire, ma questa è un teatrino, un gioco di ombre, come nel platonico Mito della caverna: c’è chi si ferma alle apparenze, alle ombre, sentendosi pago di esse e chi, invece, svela ciò che è oltre.

Chi ha il coraggio di vedere oltre?
E chi sarà veramente in grado di sopportare ciò che vedrà oltre, ammesso che riesca a vederlo e non sia un “dormiente”, per usare una terminologia cara ad Eraclito?
Forse le ombre che intravediamo all’inizio della discesa nei meandri dell’anima, come viaggiatori danteschi negli inferni, non sono soltanto un gioco, ma sono ben più consistenti, a causa della loro tenacia e della loro ricorrenza, come un pavor nocturnus che dall’infanzia ci portiamo dentro e crediamo sia risolto con l’età adulta e invece, magari, ci condiziona più di quel che pensiamo.
Rassicurante è l’alba della ragione, al termine di ogni notte.
Ma la notte attende sempre: quando la ragione chiude gli occhi, il Simbolo si manifesta.
Written by Alberto Rossignoli
Bibliografia
Aldo Carotenuto, “Il fascino discreto dell’orrore. Psicologia dell’arte e della letteratura fantastica”, Tascabili Bompiani, Milano 2002