Anthony Rolfe Johnson: da farm manager ad uno dei maggiori tenori inglesi del Novecento
Anthony Rolfe Johnson è stato uno dei maggiori tenori inglesi del Novecento. Una carriera che ha toccato i maggiori teatri del mondo sotto la direzione delle più grandi bacchette, una discografia vastissima con le più prestigiose etichette, eppure il suo rimane tuttora un nome relativamente poco noto in Italia.

Probabilmente questo è dovuto sia al fatto che la nostra penisola è stata una delle nazioni meno frequentate da Rolfe Johnson – che comunque cantò anche alla Scala, in un Lucio Silla di Mozart nel 1984 – sia, e forse soprattutto, alla sfortunata partecipazione a un molto atteso Orfeo di Monteverdi diretto da John Eliot Gardiner alle Panatenee Pompeiane nell’estate del 1986, in cui il tenore, nel ruolo principale, si presentò in condizioni vocali problematiche (che si possono avvertire anche nella versione incisa in CD).
Eppure, pochissimi anni prima, Rolfe Johnson aveva brillato in incisioni come il Messiah di Händel per la Philips (diretto da Gardiner), o l’opera giovanile di Mozart Apollo et Hyacinthus diretta da Leopold Hager, sempre per la Philips.
Ma, come da lui stesso raccontato in diverse interviste, gli anni della sua ascesa nell’Olimpo del mondo musicale furono anche segnati da strani problemi che richiesero tempo per essere diagnosticati e risolti.
La storia di Anthony Rolfe Johnson è molto particolare. Nato il 5 novembre del 1940 a Tackley, un paesino dell’Oxfordshire, amava cantare fin da bambino (da voce bianca incise anche in disco un inno religioso) ma, nonostante i genitori lo incoraggiassero a seguire studi musicali, preferì prendere una laurea in Agraria e iniziare a lavorare come farm manager (difficile tradurlo in italiano: non è esattamente “fattore”, semmai più “gestore di una fattoria”) nel Sussex. Glyndebourne, col suo famoso Opera Festival, era a poche miglia di distanza ma, come da lui stesso ricordato in un’intervista: «Non sapevo neanche cosa fosse Glyndebourne o anche solo che esistesse!».
Fu infine una insegnante di canto, membro del coro di Crawley dove per divertimento («Cercavo qualcosa per rilassarmi») Rolfe Johnson usava cantare, che gli disse chiaro e tondo che, secondo lei, si trovava a fare il mestiere sbagliato. Così incoraggiato, Anthony fece domanda e fu ammesso alla prestigiosa Guildhall School of Music di Londra, dove studiò per quattro anni per poi perfezionarsi con Peter Pears, l’interprete storico delle opere di Benjamin Britten e di tanta altra musica inglese (e non solo).
E fu proprio un’esecuzione del Notturno op. 60 di Britten, trasmessa dalla BBC 3, a segnalare Rolfe Johnson, all’epoca ancora “studente”, all’attenzione generale. Era il 1969, quindi il tenore aveva già 29 anni, un’età un po’ avanzata per una sorta di debutto, ma il timbro dolce e argenteo della voce, nonché la musicalità del fraseggio, conquistarono subito il mondo musicale inglese.
Entrato nel coro di Glyndebourne (!), Rolfe Johnson ebbe presto occasioni solistiche, cantando, tra il 1972 e il 1976, Fenton nel Falstaff di Verdi, Lensky nell’Eugenio Onegin di Čajkovskij, e ancora Capriccio e Intermezzo di Richard Strauss. Contemporaneamente, fece parte dell’English Opera Group, la compagnia creata da Pears e Britten, cantando in Iolanta di Čajkovskij e, soprattutto, nell’Albert Herring dello stesso Britten, nel ruolo del titolo.
Nel 1978 il debutto all’English National Opera, dove cantò in rapida successione i ruoli principali di quattro opere mozartiane: Die Zauberflöte, Don Giovanni, Die Entführung aus dem Serail e Così fan tutte; al Covent Garden esordì dieci anni dopo, in Semele di Händel.
A livello internazionale, già nei primi anni Ottanta era apparso in diverse produzioni del Mozarteum di Salisburgo; nel 1983 aveva cantato Aschenbach in Death in Venice di Britten in una co-produzione della Scottish Opera con il Grand Théâtre di Ginevra; nel 1984, come detto, c’era stato il Lucio Silla alla Scala (in realtà alla Scala Rolfe Johnson aveva già cantato in un concerto con l’Orchestra Sinfonica della RAI nel settembre di cinque anni prima, eseguendo l’oratorio Christus am Ölberge di Beethoven); il debutto al Metropolitan di New York avrebbe avuto luogo nel 1991 con Idomeneo di Mozart.
Alcune delle principali coordinate di quello che sarà il repertorio di Anthony Rolfe Johnson appaiono già dai suoi debutti: Händel e Britten, di cui sarà uno dei maggiori interpreti, Mozart – delle cui opere affronterà, negli anni, praticamente tutti i ruoli principali – e molta musica della prima metà del Novecento, anche nel repertorio sinfonico e da camera.
Bisogna senz’altro aggiungere, tra gli highlight della sua carriera, le Passioni di Bach (incise come Evangelista con John Eliot Gardiner, col quale ebbe una lunghissima collaborazione), i grandi oratori di Haydn, Florestan nel Fidelio di Beethoven, senza dimenticare i ruoli monteverdiani di Orfeo e Ulisse, la liederistica schubertiana e anche il ruolo di Cassio nell’Otello di Verdi in forma di concerto, con Pavarotti protagonista e la direzione di Georg Solti, eseguito a Chicago e alla Carnegie Hall di New York nel 1991, inciso per la Decca.
Si diceva appunto della discografia sterminata, con registrazioni per Deutsche Grammophon, EMI, Decca, Philips; della collaborazione con praticamente tutti i grandi direttori della sua epoca (oltre a quelli già citati: Giulini, Harnoncourt, Boulez, Abbado, Haitink, Ozawa, Rattle…). Torniamo quindi al quesito iniziale: come mai Anthony Rolfe Johnson non è poi così (ri)conosciuto in Italia?
Al di là dell’italica, congenita diffidenza verso i cantanti inglesi (che nasce obiettivamente da una sostanziale differenza di tradizione vocale e interpretativa, oltreché di gusto e di repertorio), l’Orfeo alle Panatenee Pompeiane mostrò un cantante in piena crisi, come si è detto.
Rolfe Johnson stesso ha parlato apertamente, e in più occasioni, dei problemi vocali con cui ebbe a confrontarsi in quegli anni. Qui in un’intervista rilasciata a Bruce Duffie a Chicago nel novembre 1988 per l’emittente radiofonica WNIB:
«Nel gennaio di quest’anno avrei dovuto debuttare al Met cantando Pélleas, ma scoprii con orrore che non ero in grado di cantare. Arrivammo fino alla pregenerale, e avevo completamente perso la voce. Non era la prima volta che accadeva in un periodo intenso di lavoro, particolarmente nell’opera in tempi recenti. Quindi iniziai a essere molto preoccupato, e a pensare che probabilmente entro l’estate di quest’anno non sarei stato più in grado di cantare affatto. Quando ti trovi a due o tremila miglia lontano da casa, è molto difficile sapere cosa fare, ma io ho ricevuto buoni consigli e un amico mi ha indirizzato verso alcuni medici. Sono stato dai medici per vedere cosa non andava – se c’era qualcosa che non andava – ma nessuno trovava nulla. (…) C’era un po’ di affaticamento, ma non sembrava esserci altro. Infine, alla terza visita da queste persone amabili a New York, si scoprì cosa non andava. Era qualcosa di molto banale e molto semplice da risolvere, con una diagnosi di successo vicina al cento per cento. Così, tutti i problemi che avevo avuto negli ultimi quattro o cinque anni, in modo gradualmente crescente, scomparvero in una quindicina di secondi! Da allora, avendo fatto in un certo senso una sorta di riabilitazione, ho scoperto cose meravigliose nella voce che prima ignoravo. Tutti gli sviluppi che promettevano di avvenire mentre il problema gradualmente cresceva, ora, improvvisamente, erano lì. Quando riiniziai a cantare per la prima volta dopo la piccola operazione, che era stata necessaria, la cautela imponeva per un paio di settimane di fare solo esercizi molto speciali. Quando poi ho ripreso a cantare del tutto, l’esperienza è stata straordinaria».

Uno dei motivi all’origine di questi problemi era stata sicuramente la tendenza, da parte di Rolfe Johnson, ad accettare quasi ogni proposta d’ingaggio, forse per compensare l’inizio tardivo della sua carriera: «Il mio ruolino di marcia era di tre repliche a settimana, ma la preparazione era folle, folle», raccontò in un’altra intervista. Dopo la pausa obbligata, imparò a gestirsi meglio, e la carriera proseguì senza particolari intoppi nei maggiori teatri del mondo, incluso il Met dove, come si è visto, Rolfe Johnson debuttò infine nel 1991, per tornarvi in diverse altre occasioni, in particolare in due ruoli britteniani per eccellenza – Aschenbach in Death in Venice e Peter Grimes nell’opera omonima – e come protagonista de La Clemenza di Tito mozartiana.
E, a proposito del Grimes, nel 1995 una produzione del Covent Garden diretta da Sir Charles Mackerras approdò anche al Politeama di Palermo: altra sporadica apparizione del Nostro in Italia.
Assieme a Philip Langridge, Anthony Rolfe Johnson è stato in un certo senso l’erede di Peter Pears, replicandone il talento per l’articolazione e il gusto raffinato per il colore vocale; Rolfe Johnson tuttavia partiva da un materiale vocale naturale più bello, con un congenito lirismo nella voce che si manifestava in particolare nell’elegantissimo legato (pur sulla pronuncia) e nelle straordinarie mezzevoci, senza che questo gli precludesse valenze drammatiche (il suo Grimes è stato spesso celebrato proprio per le sfaccettature, anche vocali, conferite al personaggio).
Negli anni Ottanta Rolfe Johnson comprò una casa nel sud del Galles e, nel 1988, ridiede vita al Festival di Gregynog. Gregynog era una tenuta di campagna, attestata fin dal XIII secolo, che nel 1920 fu acquistata da due sorelle, Gwendoline e Margaret Davies, che la trasformarono in un cenacolo artistico frequentato da scrittori come George Bernard Shaw e compositori come Gustav Holst e Ralph Vaughan Williams. Dal 1933 al 1938 le sorelle vi organizzarono anche un festival annuale di musica e poesia; il festival fu poi ripreso dal 1956 al 1961 sotto la direzione di Ian Parrott, e un’ulteriore edizione si svolse nel 1972 con la partecipazione di Britten e Pears.
Rolfe Johnson ricreò il festival e ne fu direttore artistico fino al 2006, ovvero finché le sue condizioni di salute glielo permisero. All’inizio del nuovo secolo, infatti, aveva iniziato a soffrire della malattia di Alzheimer, le cui complicazioni lo porteranno alla morte, avvenuta il 21 luglio 2010 a Londra.
Nel 1990 era stato nominato Direttore degli Studi Vocali alla Britten-Pears School for Advanced Musical Studies a Aldeburgh (un’istituzione creata da Britten e Pears per aiutare e lanciare i giovani talenti musicali); nel 1992 era stato insignito del titolo di Commander of the British Empire. Dopo il ritiro dalle scene, e finché la malattia glielo concesse, continuò a cantare nel coro della Chiesa Parrocchiale di Hampstead, la zona di Londra dove risiedeva.
Written by Sandro Naglia