“Forze del destino” di Christopher Bollas: la psicologia di un’anima spettrale
A prima vista appare una lettura ostica ma possibile. Richiede una conoscenza tecnica e terminologica che la maggior parte dei viventi non ha, se non è del mestiere. Al che mi determino di capire il più possibile e, come avrebbe detto Rosalinda, mia mamma, con ‘na giarlèina in bòca, una ghiaiuzza in bocca, espediente comune a tante culture primitive, che serve a limitare la sete (fisica, non quella di sapere), comincio dalla prima pagina e proseguo sereno.

Nell’Introduzione l’autore promette tanto: “Talvolta presento schizzi di teoria ortodossa oppure mi dedico a una nuova formulazione teorica; talvolta uso una teoria psicoanalitica come base della riflessione oppure mi soffermo su esperienze cliniche e sulla vita psichica dei miei pazienti. In certe occasioni rivelo aspetti della mia storia personale ed ella mia vita interiore, quando non trovo Altri mezzi per comunicare l’essenza di un dato concetto.”
Tra le scienze dell’uomo, la psicoanalisi mi pare la più prossima alla ricerca della finzione, che utilizza la pur minima traccia della medesima per rinvenire il resto, se non tutto, almeno l’essenziale. I concetti ora espressi dall’autore mi convincono sempre di più: essa, anche dal punto di vista etimologico, esamina le anime delle persone, che sono composte da una miriade di caratteristiche e inclinazioni. La strada è più che tortuosa, ma decido di andare in ogni caso avanti. Pro-seguo stando opportunamente alle spalle dell’autore. Se, prima o poi, ci sarà dato di affiancarci, meglio.
Poco sopra, Christopher Bollas aveva scritto: “Esiste una tendenza all’articolazione del vero Sé che io chiamo ‘pulsione del destino e collego alla spinta del vero Sé verso l’elaborazione del potenziale della personalità.” Chissà se intendiamo lo stesso significato con la parola destino.
L’autore più citato nel primo capitolo è Donald W. Winnicot che “definì il vero Sé ‘una potenzialità ereditata di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio, con un proprio ritmo una realtà psichica e uno schermo corporeo personali’”. È quel che muove l’esistenza di ciascuno di noi che raccogliamo, prima, durante e dopo la nascita, quel che ci definisce come individui. Così mi sento di tradurre.
“La psiche è quella parte di noi che, attraverso il Sé e la rappresentazione degli oggetti, esprime la dialettica tra le transazioni tra il vero Sé e il mondo reale.” È il luogo dove avviene il conflitto, che si può anche definire la reazione, a volte dolorosa, a volte piacevole, mai indifferente, nei confronti del dato osservato. La stessa cosa mi capita ora con lo stesso Christopher.
“In certa misura, il potenziale ereditario viene oggettivato tramite le rappresentazioni del Sé e dell’oggetto nel mondo interiore del soggetto, anche se questo è sempre e soltanto un derivato del vero Sé; in modo analogo, è possibile conoscere l’inconscio solo attraverso i suoi derivati.”
L’idioma “è piuttosto un insieme di possibilità specifiche di una persona, soggette per la loro articolazione alla natura dell’esperienza vissuta nel mondo reale.” – è un’elaborazione che sorge dall’interazione, non unica e assoluta, ma continua e relativa, con l’Altro, che non è necessariamente un umano, ma che potrebbe essere ed in fondo è di tutto un po’.
Il neonato, già dall’inizio della sua odissea, ancora nel grembo materno, comincia ad assumere una serie di in-formazioni che continuamente lo in-formano: “La serie di disposizioni ereditarie che costituisce il vero Sé è una forma di conoscenza che, ovviamente, non è stata pensata, anche se è già presente nella vita del neonato che porta con sé questa conoscenza a mano a mano che percepisce, organizza, ricorda e usa il mondo degli oggetti. Ho definito questa forma di conoscenza il ‘conosciuto non pensato’” – preso di peso e non pesato, così com’è?
Questa è “la conoscenza originaria del vero Sé.”
“Quanto di questa conoscenza, più complessa dell’istinto animale, che è un’altra manifestazione di una conoscenza non pensata, verrà utilizzato e inserito nell’essere del soggetto dipende dalla natura dell’esperienza che il bambino fa della madre e del padre.”
Un’altra conoscenza, diversa, post nascita. Forse quello che gli etologi chiamano imprinting?
Vi è una sostituzione concettuale: “Sostituendo l’idioma personale (o vero Sé) agli istinti come nucleo dell’inconscio appena rimosso, possiamo affermare che il nucleo della vita inconscia è una forma dinamica che cerca il suo essere mediante l’esperienza.” – cioè l’interazione con l’Altro.
Nella nota a piè di pagina, l’autore spiega “Non voglio dire che non esista una vita istintuale: semplicemente non le assegno l’importanza che ha per Freud.”
Si tratta di astratte interpretazioni o di scientifiche attestazioni? Questo è il problema.
“Poiché il bambino e la madre sono reciprocamente in-formativi, si influenzano a vicenda per definire principi operativi derivanti dal loro rapporto.” – interessante descrizione, e lo è ancor di più la successiva: “Naturalmente, la madre si forma una rappresentazione oggettuale interna del bambino, ma viene anche in-formata dal suo vero Sé, cosicché il proprio Io inconscio si adatta continuamente al bambino.” – l’osservatore muta e osserva quel che pare mutarlo e osservarlo.
“I rapporti oggettuali in-formativi in periodi successivi dello sviluppo psichico possono riportare il bambino a rappresentare mentalmente gli atteggiamenti, le azioni e le altre forme di comunicazioni dei genitori.”
Di fatto la nostra vita psicologica non è che un film il cui regista convive dentro di noi, ma il cui sceneggiatore ci è esterno.
“… essendo il vero il Sé soltanto un potenziale, esso si realizza soltanto attraverso l’esperienza.”
Si tratta di una commedia che assomiglia a una sorta di Living Theatre, che è con-vissuto da analista e paziente: succede che “l’analista può percepire il momento in cui il paziente lo usa per elaborare una mossa dell’idioma e, in seguito, è possibile – e spesso significativo – indicare al paziente come abbia usato l’analista per ottenere un’esperienza del Sé.”
Viene in mente il Il gioco delle parti pirandelliano; oppure sette analisti in cerca di paziente e viceversa. Un rincorrersi, aspettarsi, scappare, aspettarsi di nuovo, sempre dialogando, rincorrersi, con il fiatone che ne deriva.
Un ingrediente, a quanto pare, è l’umorismo, cioè il liquido e reciproco scambio di umori, al fine di giungere al livellamento previsto dalla teoria dei vasi comunicanti. O forse sto esagerando?
L’analista sa aspettare il momento, per cui l’attesa rientra nel fenomeno che si crea: “come quando si va al cinema, si vede un trailer e poi si resta un istante al buio davanti allo schermo vuoto. Lo schermo nero fa parte della nostra vita tanto quanto il gioco delle immagini che ne copre la superficie illuminata.” Questa è la mia sinossi di Una teoria del vero Sé.
Il secondo capitolo riguarda La pulsione del destino.
“Il processo psicoanalitico racchiude al suo interno due elementi apparentemente opposti: la procedura decostruttiva e il processo di elaborazione” – Siva e Visnù.
“Sia l’analista sia il paziente, allora, si mettono a distruggere reciprocamente i testi manifesti per dare voce ai pensieri latenti dell’inconscio rimosso.”
Ci si deve affidare in tale tenzone alle “libere associazioni” che permettono “un moto di allontanamento dall’inconscio latente che serve a suggerire il sottotesto segreto. Per smontare il paziente, deve costruire. Per trovare la verità, tutti i pazienti devono mentire.” Il paradosso del cretese che dice che tutti i cretesi sono mentitori trova qui un’ipotetica soluzione. Di fatto sia la finzione che la verità sono composte da parole significative. E se Borges diceva che la memoria è fatta di oblio, è consentito anche dire che la verità è composta da piccole bugie collegate fra loro tramite collegamenti sinceri.
“… la decostruzione del materiale come oggetto fa parte della ricerca del significato”: si distrugge per ritrovare le fondamenta.
“… l’elaborazione del Sé attraverso il transfert fa parte della formazione del significato.” – per edificare un edificio due figure sono essenziali: il committente e il costruttore. In questo caso il committente è uno dei due costruttori.
Una frase del costruttore classico (l’analista) è significativa: “Sono pronto per essere usato.”
Si parla ora di Jerome, che “aveva già tentato l’analisi ma era stato rifiutato perché considerato troppo paranoico per il trattamento analitico.”
Forse egli temeva inganni da parte del tecnico. Ed era intrattabile. A volte succede. In questo caso non occorre cambiare il tecnico, ma aggiungervi un elemento nello staff: Jerome stesso.
L’autore descrive la commedia: a una battuta di Jerome, Bollas si mette a ridere. Per cui “cambiò dentro di sé con l’aiuto delle sue fantasticherie”. Detto reggiano ormai celeberrimo (almeno per me): piânšer fa trȋ, réder fa trȋ, che significa che piangere e ridere fa la stessa cifra, per cui è meglio ridere, anche se a volte dipende dal motivo e soprattutto dalle conseguenze.
“… quando mi ‘maltrattava’ nella fantasia rendendomi ridicolo, cosa che mi divertiva, scopriva il piacere dell’aggressività. Alla fine riuscì a essere in netto disaccordo con le interpretazioni che gli facevo e lo fece con una chiarezza e un acume percettivo che erano sempre mancati.”
Alla differenza di potenziale corrisponde la quantità di lavoro necessario per spostare un corpo (e un’anima) dal punto in cui il potenziale del campo è minore a quello successivo.
“Ma riuscì a distruggermi senza persecuzione interiore anche perché io mi divertivo. Ciò che ho fatto non è diverso da ciò che fa una madre sufficientemente buona quando celebra l’aggressività del bambino. E, naturalmente, la mia celebrazione era un atto simbolico, non un vero e proprio atto di cura materna.” – forse l’avevo capito da solo. Può essere anche paterno, dipende dal soggetto. A volte bisticcio con i miei due figli e poi, tutti i soggetti in campo, trovano il punto d’incontro, fatto di un ritrovato rispetto, che è più in là di prima o, comunque sia, altrove. Non si costituisce la coppia analista/paziente, però si è tutti un po’ im-pazienti e un po’ analisti, altrimenti non se ne esce.
Scopro che il tuo concetto di fato e di destino coincide col mio (per forza: la storia delle parole è la stessa per entrambi). Ecco perché finalmente ti do del tu e ti affianco. Il fato è stato detto da Chi non si sa. “Fato deriva dal latino fatum, participio passato di fari che significa parlare”. Forse anche farfugliare, la butto lì. A volte il Fato pare un po’ confuso e assurdo. “Destino, dal latino destinare, significa rendere fermo,e la parola destinazione deriva da questa radice. Quindi il destino è collegato all’azione piuttosto che alle parole. Se il fato emerge dalla parola degli dei, il destino è invece il sentiero preordinato che l’uomo deve percorrere.” It’s a long way to Tipperary…
Destino: “Possiamo usare questo concetto per affrontare l’evoluzione del vero Sé e possiamo chiedere al singolo se sta o non sta compiendo il proprio destino” – quanto sia consapevole e responsabile, almeno un po’, della rotta.
Ecco che il tuo libro sta apparendo più semplice di quello che la mia prima impressione mi aveva fatto credere. Anche la credenza dipende dal destino, ed è ogni volta rinforzata dai cambiamenti.
“… ritengo che uno dei compiti dell’analista sia di far sì che l’analizzando entri in contatto con il suo destino, cioè con la progressiva articolazione del suo vero Sé attraverso molti oggetti. Il processo analitico, quindi, diventa un processo di elaborazione e di costituzione dell’idioma e non solo la decostruzione del materiale o la mappatura analitica dei processi mentali e il fato degli oggetti interni.” Scherzando ci si mette oggettivisticamente in gioco, si diventa una carta con un suo valore che può essere acquisito, e messo tra i propri punti che alla fine contano per raggiungere un obiettivo: la vittoria su di sé.
“Ogni uso di transfert dell’analista comporta che il materiale fornito dal paziente mediante quell’uso dell’oggetto che chiamiamo transfert. Ogni uso di transfert dell’analista è per certi versi una distruzione della vera personalità dell’analista, e questo uso spietato dell’analista è essenziale per la l’articolazione dell’ambiente precoce, per le rappresentazioni della vita psichica, o per l’elaborazione del vero Sé attraverso l’esperienza.” Un po’ esagerando, si può dire che si tratta di un olocausto benefico che favorisce l’instaurarsi di quella sacralità che è l’elaborazione del vero Sé.
Jill: “era seccata e turbata perché il nostro rapporto veniva interrotto dal fine settimana…” L’olocausto prevedeva la normale sosta settimanale, diversamente poteva diventare pericoloso per entrambi i soggetti!
“… Jill si sentiva respinta e a sua volta tentava di respingermi. Dato che l’abbandono da parte della madre era un tema importante della sua vita, dissi che lei voleva raggiungere la madre in me per darmi la sua dose di abbandono…”, accomunando analista e analizzandola nella comune sorte di vittime del suddetto sacrificio. Per smuovere quelle torbide acque, tu, buon Christopher, le dici: “Lo sai, lei è un mostro!” Questa frase apparentemente idiota crea l’energia necessaria per andare avanti, tanto che, dopo varie schermaglie, “Jill disse: ‘Bene, è vero, sono stata crudele con lei, ma lei mi ha fatto del male’, riferendosi al fatto che io non le avevo fornito amore reale.”
L’offesa apparentemente gratuita era motivata: “spezzò la tradizione dell’analisi emergendo da un’altra parte di me, esprimendo forse il bisogno del mio vero Sé di distruggere un rapporto oggettuale patologico, nel tentativo di trovare e usare gli oggetti psiconalitici (compreso il processo analitico) che formano la mia identità professionale.” E se fosse andata male? C’est la vie! Non sempre si vincono le battaglie, e le sedute psicoanalitiche sembrano dei match di tennis in cui si deve consentire al peggiore di vincere, a colui che rischia di più: il paziente, che va aiutato “a trasformare il suo fato in destino e a conquistarsi opzioni per il futuro.”
Esistono casi anche come quelli di Nancy, figli di genitori comandanti, che ora, adulta, decideva all’improvviso, senza concedere all’Altro, la minima chance e nemmeno il tempo di obiettare, né di dire aspetta un attimo. Qui tu sei tenuto a ridimensionare la sua rigida fatalità e condurla, per la prima volta, verso un destino convissuto con gli altri.
Nel capitolo Dal muro, esamini la formazione delle tue esternazioni. Perché hai scelto quella e non quell’altra espressione. “… ciò che mi interessa è l’accesso al mondo interiore dell’analista come parte dello studio della prassi psicoanalitica e delle teorie che derivano da questa prassi.”
Intrigante è il sottocapitolo: Sapere e non sapere. Il “non sapere è un risultato positivo”, cioè “una condizione necessaria per la creazione di uno spazio potenziale, uno schermo analitico interno che viene sostenuto dall’analista e che registra l’idioma del paziente.”
I pazienti migliori sono quelli: “che hanno scoperto che la libertà emerge con un certo tipo di non conoscenza, essenziale per progressive registrazioni del Sé e della crescente intimità con l’altro.” Dall’interazione col paziente, si verifica la correttezza e la completezza di un’interpretazione. Per cui “come possiamo portare nella situazione interpretativa la capacità ricettiva del non sapere, che a mio parere serve a mantenere lo schermo analitico?”

Jiddu Krishnamurti potrebbe darti un suggerimento: prova a osservare la realtà come se fosse un cobra, senza pregiudizi, al di là del conosciuto, ma armato di un bastone che ti serve per annullare la potenziale mortalità che potrebbe giungere dall’ofide. Il bastone è un oggetto e lo si usa in modo non nozionistico, senza far riferimento a pre-giudizi.
“Tentando di introdurre il fattore-divergenza, creiamo progressivamente la dialettica della differenza.” Ognuno divergerà per conto suo, finché i due percorsi s’incroceranno, quando si rinverrà “il pensiero inspirato, la riflessione profonda, la de-rimozione di un ricordo…” – qualcosa che assomiglia alla tecnica surrealista.
“Questa sensibilità è caratterizzata da un paradosso nella nostra vita: che siamo allo stesso tempo soggetto e oggetto. Forniamo le associazioni e poi vi riflettiamo analiticamente. Essere l’enigma di noi stessi è vitale per la nostra creatività. Essere ignoti a noi stessi non è necessariamente una carenza: abbiamo bisogno dell’inconscio per fare un uso creativo del conscio.” Quindi: conosci te stesso ma ignorati anche un po’.
Comunque vada la partita con l’analizzando, sia che egli si neghi o si conceda, “l’analista ha associato sui fatti, ha trasformato i fatti della vita in materiale psichico, ha collegato vecchi materiali psichici al presente e ha sostenuto la giusta funzione del lavoro inconscio”, ma “il tutto all’interno del contesto della presenza del paziente”, che, fra i due, è il primus inter pares, nel senso della fonte a cui attingere.
“Due analisti non farebbero mai lo stesso commento al paziente.” – che è una frase di tipo relativistico. Einstein limitava all’osservatore la sua relativa visione dell’evento spazio-temporale. Ma è anche quantistica: ogni osservazione muta la particella osservata: in due momenti diversi il medesimo analista causerebbe, con il suo Sé attuale, la modificazione del Sé del paziente (e viceversa).
Ora parli de “La celebrazione dell’analizzando da parte dello psicoanalista”. Citi l’opera di Mary Walker, preside di una scuola media che accoglieva “bambini con gravi disturbi psichici”. Lei interveniva un’ora alla settimana, in cui parlava poco, all’inizio, per incoraggiare i discenti a “creare scene immaginarie nella sabbia”. A esprimere il loro Sé, in uno “spazio completamente neutro”: in cui tutti comandano e nessuno ubbidisce, in assenza di conflitti interpersonali? Se fosse così, sarebbe un incanto.
Per giungere alla celebrazione dell’analizzando, non esiti ad affermare: “Allora, sarei un cretino!”, o a darti da te del pagliaccio e a consentire al paziente di confermartelo.
“… l’analizzando deve sentire che l’analista dà valore (celebra) al passaggio dai rapporti con gli oggetti interni al mettersi in rapporto con gli oggetti”. Anche l’analista è “un oggetto pronto all’uso, cosa che fa parte dei rapporti oggettuali.”
Le auto-offese dell’analista “sono collegamenti affettivi al vero Sé del paziente, che si muove attraverso l’uso degli oggetti, in modo che lo spirito dei commenti dell’analista si colleghi con l’effetto del paziente per creare un moto.” Sono testimoni che si consegnano al prossimo staffettista che, al prossimo giro, te lo restituirà e tu a lui, dopo un giro ancora, e così per tutta la durata della terapia.
“… non si tratta di seguire “un copione” che deve essere recitato, ma di un complesso gruppo di ipotesi, atteggiamenti e leggi interiori che prendono vita solo nell’esperienza.” Che inizia a esistere durante l’attestazione della corposità dell’anima, che è un ossimoro che forse dà l’idea.
“Il vero Sé è questa esperienza del momento”: è questa e non un’altra interazione.
“Così come uso i miei sentimenti nel lavoro interpretativo, mentre affronto l’analizzando, li uso anche per celebrarlo” – che non significa “gratificazione”, cosa che va evitata perché favorisce il “falso Sé”. È un punto che mi sfugge, ma potrebbe anche essere quel che preoccupa te.
“Il paziente prova piacere per la bravura dell’analista e a sua volta usa l’oggetto analitico in modo positivo. Quando l’analista celebra i processi dell’Io e l’uso degli oggetti del paziente, facilita il progredire del vero Sé dell’analizzando.” Forse significa che non è la gratificazione il fine da perseguire, ma il movimento da un punto al successivo; non è il paradiso ma il tendere verso il prossimo luogo.
Il presente capitolo è La funzione multipla dello psicanalista. Una frase che a prima vista pare discutibile: “Il lavoro interpretativo dell’analista non è intuitivo, può solo generare intuizioni nell’altro.” La frase precedente poteva aiutare a capire: “Un’intuizione analitica è sempre un potenziale, ma è raro che abbia successo.” – dove quel raro mi pare quello che forse è: una potenzialità e la frase può diventare: e può avere successo.
“… l’interpretazione del significato inconscio del discorso del paziente da parte dell’analista non costituisce un’intuizione” – se ci si pensa, qualsiasi tentativo di interpretazione si basa sulla deduzione di quel che è stato emesso da qualsiasi fonte; e se l’analista non si trova in grado di decifrare? Deve andare per tentativi (arrischiati)?
In alcuni punti del passato capitolo, tu provocavi il paziente con frasi sgangherate, che a volte provocava in lui delle reazioni negative, a cui ti aggrappavi per andare avanti, non sapendo ancora bene dove, come se andassi a usta, seguendo delle vaghe tracce olfattive.
“Perché un’idea analitica possa essere considerata intuitiva, essa deve subire un ritorno topografico…” – deve comportarsi come un radar, oppure come un boomerang che, se torna indietro con nulla, occorre rigettare l’attrezzo, fino a che non atterra il volatile. Questa è l’idea che mi sono fatto, leggendoti. È un comportamento legittimo, premeditato, ma apparentemente casuale. Come quegli esperimenti di fisica nucleare quando si sparano particelle che andranno dove andranno, o sono prodotte altissime energie che potrebbero, senza alcuna certezza, far emergere delle particelle ancora sconosciute.
Sono decenni che è stato stabilito analiticamente che deve per forza esistere il responsabile della forza di gravità, il gravitone, ma per quanto siano stati svolti infiniti esperimenti non è stato ancora rinvenuto. Nel frattempo alcune interpretazioni della fisica quantistica hanno previsto matematicamente la possibile esistenza dell’antigravitone e del suo partner supersimmetrico: il gravitino.
La previsione può essere di tipo deduttiva, ma è sempre l’immagine di quel che ancora non è stato attestato. In genere è compito anche dell’intuizione l’occuparsi di un ipotetico campo d’indagine, ma qui essa viene negata. Poiché “seppure non migliori, tuttavia il mondo cambia, e i nostri pazienti si rivolgono a noi in modo inconsciamente diverso da una generazione all’altra. Quindi noi dobbiamo continuamente pensarli di nuovo.”
L’analista, “come il paziente, anch’egli impara attraverso la dialettica dell’Io…”: nell’incontro/conflitto fra due diverse personalità, ognuna con le sue armi e ragioni.
“Dato che la dialettica della presentazione del paziente (transfert) e l’elaborazione dell’analista (controtransfert) sono segmenti operativi dell’esperienza vissuta, ogni scambio è un paradigma che può entrare a far parte della struttura inconscia dell’Io dell’analizzando nella successiva elaborazione del Sé e degli altri.” – anche e soprattutto dell’analista, a mio parere. Con la differenza che “l’analizzando, consciamente o inconsciamente, non rappresenta mentalmente il potenziale paradigmatico del suo segmento di transfert, né distilla una rappresentazione mentale articolata della reazione dell’analista.” È come dire che il maestro di judo accetta di farsi proiettare dall’allievo, ma solo perché lo decide lui, non chi sta cercando d’imparare correttamente la mossa. E, quando lo giudica opportuno, sarà lui a proiettare il discente. Per questo l’analista svolge sempre, consciamente, la funzione di docente e di responsabile delle proiezioni psichiche dell’analizzando.
“Rappresentazioni mentali preconsce o consce possono essere derivate dalla logica dell’azione dell’analista, ma la vera conoscenza sottostante l’azione si trova nella complessa struttura grammaticale dell’Io inconscio, che coordina la reazione analitica con la complessità dell’azione del transfert.” – l’analista è uno speleologo che affronta insieme a un neofita le asperità di una grotta misteriosa, ma quel che si troverà in fondo a essa (acqua, ghiaia, fango o altro) lo scopriranno entrambi vivendo.
“L’uso inconscio della vera convinzione dell’analista da parte del paziente è fondamentale per il suo futuro benessere.” – dei due speleologi l’unico un po’ consapevole è l’esperto, l’altro va a traino.
“La psicoanalisi è particolarmente adatta all’analisi e alla facilitazione dell’idioma del vero Sé perché l’analista, che ‘fornisce’ al paziente un campo di oggetti (elementi della personalità dell’analista, elementi della procedura psicoanalitica, elementi di concetti psicoanalitici), crea un universo di oggetti talora osservabili nel quale il paziente si muove.” – rinvenendone alcuni che identifica come propri.
Ora parliamo de La personalità spettrale. Se l’oggetto esiste, a quanto ho capito, è “transizionale”, cioè può passare naturalmente dal punto a al punto b e magari tornare indietro o recarsi altrove. Diversamente è “alternativo”. Si sposta, non naturalmente, bensì assurdamente (la mia è una traduzione molto personale del tuo pensiero).
Esiste ma in un altrove mentale che non coincide in tutto e per tutto con quello fisico.
“L’oggetto alternativo esprime il concetto di morte della vita transizionale, il senso del crollo dello spazio potenziale e il movimento verso la costruzione compensatoria di un mondo interiore alternativo, molto lontano da quello reale.” – essendo reale altrove.

“Penso che questi oggetti interni abbiano questa presenza particolare perché sono la vita dopo la morte e personificano gli spiriti dei morti.” – dei nati altrove.
“… vorrei definire quest’area interiore speciale come delimitata da una linea spettrale.” – spettro, composto di spec- da specere, vedere e -trum, strumento. Per vedere oltre, per vedere altro. Anche un telescopio è una specie di spettro che ti fa intravedere quel che i tuoi limiti fisici ti consentono solo d’immaginare.
“Quando il soggetto pensa agli altri o oggettiva il Sé, gli oggetti interni riflettono l’angoscia del suo stato mentale, mentre gli oggetti al (di) là della linea spettrale vengono trasformati in tracce degli oggetti reali che sembrano rientrare meglio sotto il controllo del soggetto.” – il (di) manca nel testo originale. È un continuo scambio di comunicazioni fra due lati entrambi presenti nella psiche del paziente, ma avvolti in una nube spettrale.
Una persona reale poteva diventare spettrale: “era una trasformazione di uno dei loro personaggi immaginari, e la chiamavano con quel nome.” Gli oggetti spettrali, per il paziente sono “quasi come se fossero vivi”. – vivi altrove, cioè in una specie di al di là.
“Questa spettralità è dovuta in parte al fatto che esso deriva dalla morte, ma la sua presenza è generata da un prestito economico di energia psichica piuttosto che dal rispecchiamento di altri individui reali.” – in ossequio al primo principio della termodinamica che prevede lo spostamento dell’energia, ma non la sua creazione ex novo. Semmai la sua continua trasformazione.
“Il mondo spettrale è privo dell’interscambio significativo tra le aree della mente che elaborano la realtà esterna e interna. Così il soggetto mantiene il distacco dal mondo” – che gli consente di spettrare altrove, nel mondo dei trapassati, che sono vivi colà, nel solito buon vecchio altrove,
Il paziente parlando del suo mondo teletrasporta: “l’oggetto nello studio dell’analista”.
Il bambino: “proietta l’esperienza della precarietà istintuale e dell’alienazione corporea in un mondo immaginario popolato da personaggi che personificano questi stati del Sé.” Oppure: “il bambino crea un altro Sé silenzioso e segreto che sostiene una parte della vita del vero Sé.” O anche: la madre “è uno spettro a vero titolo”, che “rende possibile una vita creativa.” – per cui la morte simbolica è un’esperienza di vita spettrale, che “viene trasferita negli oggetti al di là della linea spettrale.” Anche l’analista può, anzi forse deve diventare uno di loro. Il paziente è “spettrale” se utilizza “il mondo alternativo per conservare il Sé (e i suoi oggetti) senza l’intento di conseguire un pensiero interno del conosciuto non pensato come transizione per riportare il vero Sé a negoziare con il mondo reale.” – è chiuso e immoto. Tutti in fondo siamo spettrali, ma solo alcuni lo sono in modo pericolosamente costante.
Viaggiare, farsi un acido, assumere allucinogeni è l’argomento di questo capitolo, primo di una serie di nuovi e brevi saggi.
“L’assunzione di droghe interrompe il legame normale tra Io e psiche, usurpa il lavoro dell’Io e mostra il soggetto in modo non mediato i percorsi dell’istinto e delle percezioni.” Non è chiaro chi sia a scegliere di farlo e perché.
“In tutti i tossicodipendenti che ho visitato o della cui cura ho fatto la supervisione, la madre e il padre appaiono psichicamente lontani dai figli.” – una latitanza che crea il caos, un vuoto abissale da riempire.
“Questi genitori non sono in grado di investire sul figlio che non può diventare parte dell’elaborazione psichica dei genitori, e in questo modo il figlio non riceve un normale rispecchiamento dalla madre o dal padre.” – per cui cerca la sua immagine da un’altra parte (leggasi, tanto per cambiare: un altrove). Oppure c’è di peggio. “La visione del genitore reale può ispirare mediato odio mortifero e l’adolescente può sentire la necessità di evadere da questo mondo persecutorio alla ricerca di un mondo di alternative più apprezzabili ed eccitanti.”
Come non ricordare le parole di The end, uno dei brani più famosi di Jim Morrison, il figlio disobbediente per antonomasia: Mother, I want to fuck you! Father, I want to kill you! Da notare che Jim aveva raccontato in giro di essere orfano, quando i suoi genitori erano ancora in buona salute.
“Prendendo acido almeno una volta al giorno per quattro anni, questo paziente ottenne una pseudo-padronanza delle parti psicotiche della sua personalità, dal momento che era lui a stabilire in quale momento cominciare.” – era il pseudo-padrone di se stesso.
“Dopo il viaggio drogato il paziente era ‘morto’ per diverse ore, una morte che, come ho già detto, è parte integrante del viaggio. In senso lato potremmo definirla la morte del Sé che segue la soggettività violenta.” In quella morte non trova oggetti su cui riflettere, poiché “il drogato non trasforma l’allucinazione in intuizione e i suoi viaggi non sono esperienze introspettive.”
Nella sua raccolta più celebre, Jukebox all’idrogeno, Allen Ginsberg proponeva: Allargate l’area della coscienza. Fu un messaggio involontariamente ma gravemente pernicioso per alcune generazioni di giovani e adolescenti.
Nonostante tutto quello che si è detto, “usando le droghe per attivare le parti primitive del cervello, egli recupera ricordi delle esperienze preumane, prima di aver percepito l’idioma, lo stato soggettivo, il suo significato per gli altri.”
L’idioma (riporto la nota del Glossario): “è l’essenza che definisce ciascuna persona e, anche se tutti abbiamo la precisa sensazione dell’esistenza dell’idioma degli altri, questa conoscenza non è pensabile.” – pertanto il drogato recupera quel che è anteriore e non “la rappresentazione dell’essere che è come un germe che, in circostanze favorevoli, può svilupparsi e articolarsi.”
L’antinarcisista: “L’investimento continuo non idealizzato ma amorevole verso il proprio Sé è una caratteristica essenziale del narcisismo normale.” Non idealizzato: nel senso che si riscontra una scarsa stima verso di sé.
“… è una persona che si oppone al proprio destino, precludendo il proprio vero Sé, rifiutando di usare gli oggetti per articolare il proprio idioma.” – è un negazionista di sé. Rifiutando “il suo uso dell’oggetto, l’antinarcisista smonta i movimenti del suo vero Sé e costruisce un falso Sé che dota di un’allegria impietosa.” – rifiutando “di farsi complice dell’amore dell’altro per lui.” Il falso Sé serve a nascondere il vero Sé. L’analisi deve fronteggiare positivamente con le opinioni autodistruttive dell’antinarcisista, in un corpo a corpo continuo e sempre volto a creare un destino che è stato finora rifiutato.
Il trauma dell’incesto: è strano ma comune “che alcune vittime dell’incesto spesso parlino della personalità della madre e del rapporto con la madre più che della violenza subita dal padre.” – quello che rimane alla figlia e a cui non può non attaccarsi “per scoprire una funzione differenziante”. Non resta loro che piangere sulle spalle delle rispettive madri, che vengono però accusate di varie e disastrose colpevolezze.
“… una psicoterapia di sostegno fatta solo di rassicurazione potrà solo far recuperare alla paziente il rapporto con una madre sufficientemente buona, ma non necessariamente di recuperare il rapporto con il padre.”
Non far preoccupare papà: quando torna a casa stanco da lavoro, prima bisogna salutarlo, dirle cose belle, mangiare e solo poi, dopo che si è riposato dal lavoro che svolge per sostenere la famiglia, se proprio non lo si può evitare, dirgli con calma l’eventuale problemuccio che hai.
Bisogna vaccinarlo a poco a poco, e solo dopo che è relativamente al sicuro, proporgli lo stress. Questo in ossequio del fatto che egli è il capitano della nave e che ha fin troppi problemi di navigazione. E gli si deve tutto il rispetto che si è detto.
Serie storiche e processo conservativo: “… le storie del passato cambiano spesso nel corso dell’analisi, ma ciò non ci dovrebbe impedire di continuare a creare storie.” L’importante è tenere tesa la corda su cui camminare insieme al paziente. La corda è qui e ora. La storia poggia e scorre su di essa.
“La storia sarà quindi rielaborata più volte in analisi, favorendo nell’analizzando la formazione del senso della coscienza storica, così come il lavoro dello storico, pensare e ripensare ai dati, è un tentativo simile a quello del paziente che parla di se stesso.”

In Il cappello scemo, lo scrittore ebreo Haim Baharier parla delle dieci parole-cose che sono state donate da Dio al Suo Popolo: l’arcobaleno, la manna, il bastone, il verme, la scrittura, eccetera. Queste sono sia parole che oggetti, perché in fondo le parole sono oggetti e viceversa.
“… se l’analista dà valore al qui e ora, se è disponibile a sospendere momentaneamente l’interpretazione del transfert, permetterà all’Io del paziente di evocare rappresentazioni mentali di conoscenze non pensate.” E il gioco deve avvenire in diretta e tutto dev’essere ogni volta messo in discussione e concertato fra i due attori.
“Quando un paziente ricorda una serie storica, è molto probabile che in quel momento sta rivivendo uno stato precedente del Sé.” È un momento topico ed “è straordinariamente importante che l’analista taccia e aspetti semplicemente che si concluda questa esperienza da rivivere, così che ciò che ritorna possa essere considerato un oggetto e quindi analizzato.”
La parola è un oggetto immenso, come tutti i linguaggi, ricchi di punti a cui aggrapparsi e la psicoanalisi è una delle scienze umane più correlate a essa.
“Le serie storiche sono biblioteche interiori che mettono le esperienze del Sé a disposizione del lavoro futuro. In una serie è presente un ricco potenziale ermeneutico, che appare ovvio a un analista esperto.”
Il seguente paragrafo mi riguarda: “i pazienti sulla soglia o oltre la soglia della mezza età cercano l’analisi soprattutto perché hanno bisogno di trovare i Sé passati per aprire un dialogo (nel racconto e nel transfert), una specie di riunione, prima che la Morte…”! Ma sì, finiamo pure la frase: “… prima che la Morte si prende la famiglia dei Sé.” Aaaaghhhhh!
Per fortuna che c’è la scrittura ad aiutarmi, che è gratis e poi non devo uscire di casa e poggiare il sedere e tutto il resto su quegli odiosi e candidi lettini.
Lo sai, Christopher, che più che un analizzando, mi hai fatto sentire un analista? Quale diagnosi finale ho tratto per te? Innanzi tutto non è finale, ma sarà sempre in fieri, in movimento, permanente come certe rivoluzioni.
In secondo luogo credo di aver capito che tu ami il tuo prossimo non come te stesso, ma ci manca poco, nel senso che mostri ti appassionarti ai tuoi pazienti nonché casi umani: li tratti da amici. E tali li ricorderai, anche dopo numerosi anni. Questo fa di te non solo un uomo di scienze ma, in una certa misura, anche un poeta, un artista concettuale. Le vostre due anime si correlano per sempre, they are entangled.
Hai descritto il tuo mestiere come, in un senso sublime, quello di un ricercatore di fisicità, nel senso che ascolti, guardi, parli, probabilmente tocchi ogni tanto per dare un buffetto o appoggiare la mano sulla spalla di lui, questo sconosciuto essere che mano a mano scoprirai; non so se anche lo annusi e lo assaggi, forse, simbolicamente, sì. Le tue tecniche operative ricordano quelle della verifica sperimentale delle particelle quantistiche. Se ti avvicini a loro per osservarle, le muti in alcuni dei loro gradi di libertà. Non ne puoi fare a meno, ma si tratta di un fatto stupendo.
Bohr affermava che una particella esisteva nel momento in cui, in un qualche modo, la si osservava, si entrava in relazione con lei. Diversamente era altro, onda, energia, e chissà cos’altro ancora.
Il paziente rimane sempre in carne e ossa, però qualcosa varia in lui e di questo tu ti senti giustamente responsabile. E io con te.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Christopher Bollas, Forze del destino, Raffaello Cortina Editore, 2021