“Compliance. Il futuro è oggi” di Gennaro Giancarlo Troiso: il controllo dell’esatta applicazione della norma
“… una definizione definitiva, fuori dai luoghi comuni, alla parola compliance? Essa è il controllo dell’esatta applicazione della norma.” – è dunque, essenzialmente, verifica delle regole d’ingaggio, qualunque esse siano.
È “la norma che rispettiamo, perché comprendiamo come parte dell’equilibrio fra diritti, doveri, aspettative, aspirazioni, del nostro sia pur perfettibile contesto sociale.” – da cui si deduce che la compliance è un essere vivo, la cui specie continuamente si evolve.
Occorre saper interpretare correttamente quale siano le regole. E qui sorge (ma è solo un mio parere) il solito problema, tipica di tutte le scienze, le filosofie e le religioni: la necessità di un postulato, di un assioma oppure di un dogma, che possa servire da fondamento, ma anche da discriminante: giusto, sbagliato, aut-aut. Un’unicità da cui tutto deve discendere. Che sia la giustizia?
Questione iniziale: scegliere il personale che sia idoneo e a corrente della “cultura della legalità.” Una successiva domanda è: “Devo formarlo allo svolgimento di routine quotidiane…” etc, o “devo piuttosto motivarlo?” E l’Autore aggiunge: “… mi affascinerebbe più il termine emozionarlo…”
Perché la compliance è vigente sul resto? Essa appare come destinata a dirigere e a vigilare su tutto. Inoltre, agisce in modo autorevole, essendo basata sulla regola iniziale, che non può essere che la Giustizia Sociale.
Similmente, quando si formatta una memoria di massa, si dice che la si inizializza. Solo dopo l’atto battesimale, essa può contenere il primo di una lunga serie di dati e di informazioni.
Attitudine: è innata, oppure acquisita? Entrambe pare sia la risposta data dall’Autore, che conferisce importanza primaria alla gestione delle risorse umane.
Nell’Istituto in cui ho lavorato, tutti i processi d’insegnamento venivano chiamati percorsi formativi, senza che si facesse distinzione fra preparazione psicologica e know how tecnico-pratico.
Attenzione: nella pratica, s’intende non distrarsi sul lavoro. Fatto frequente se l’occupazione lavorativa è, come nella maggior parte dei casi, alienante, come fu previsto oltre un secolo fa da Karl Marx.
Ho notato, negli ultimi anni, un controllo informatico dell’errore, che non permette di proseguire nell’acquisizione di dati o di documenti. Fidarsi è bene, ma c’è sempre un controllo grazie a cui ci si possa accorgere quando si erra. Questo però acuisce il senso di alienazione: la macchina ha sempre ragione, l’operatore solo se è a essa subordinato.
Skill, abilità, è la caratteristica che, col tempo, determina il valore del lavoratore. Posso testimoniare che spesso si formano, non sempre riconosciute dal livello di inquadramento, delle figure di riferimento, a cui ci si rivolge quando non si sa risolvere un problema.
Per quanto riguarda le Competenze e le Professionalità, nella mia esperienza ho assistito a due situazioni antagoniste: si richiede al lavoratore sempre maggior skill specifico, per cui egli è tenuto a specializzarsi sempre di più; al contempo, gli si richiede una sufficiente esperienza in altri ambiti.
Per esempio, i calcoli a matita o con il cellulare non sono sufficienti, ma sempre di più occorre conoscere come funziona la gestione di un foglio elettronico, nonché di un programma di videoscrittura per memorizzare i testi.
Un aneddoto personale. Un giorno il Capo Area chiamò i suoi subordinati a rispondere a dei quiz a risposta chiusa. Lo scopo era d’individuare le propensioni operative di ognuno. I risultati dovevano servire a catalogare noi funzionari entro quattro figure caratteristiche: a) ingegnere (colui che studia con precisione il messaggio/circolare proveniente dalla Direzione Generale); b) il matematico (colui che rinviene la formula sottesa a quei messaggi); c) il filosofo (colui che allarga la disamina, cercando di vedere oltre); d) l’artista (io fui definito tale dopo il conteggio delle risposte: otto come artista, contro due come filosofo; zero ingegnere, zero matematico).
Interessante giochino intellettuale. Dopo il quale, ciascuno tornò serenamente e senza alcuna conseguenza alle sue mansioni.
Mi piace perciò quello che scrive (ottimisticamente) l’Autore: “Mi aspetto piuttosto che il responsabile della funzione possa essere messo in grado di poter visionare i candidati, e quanto meno di poterli indirizzare in maniera razionale e condivisa verso il comparto più idoneo.”
Rispetto al personale più anziano di me (che era tale in massima parte), trent’anni fa ero esperto d’informatica, per cui da un giorno all’altro, senza alcuna preparazione specifica, fui chiamato a provvedere a realizzare certi calcoli complessi, che richiedevano anni di preparazione, semplicemente perché riuscivo a interfacciarmi con un programma nuovo di zecca, di quelli che fanno tutto loro, ma che nessuno intendeva imparare a usare. Dopo pochi giorni ero in grado di produrre calcoli molto più velocemente di chi era più esperto di me.
Il programma era limitato, cioè valido per una percentuale alta di casi, non per quelli più complessi. Io, l’operatore, ero adeguato ai suoi limiti. I casi più rognosi rimanevano di pertinenza del personale più experienced, anche se meno telematic.
Assertività: capacità di comunicare e di far sì che l’informazione possa essere trasmessa in modo da non essere fraintesa e da non mutare, perché non finisca per inficiare il risultato che si vuole ottenere, la competenza del ricevente.
Questa è una specie di sintesi di quanto sto leggendo.
Informazione può essere una direttiva, oppure una delucidazione su quanto accade in un ambiente di lavoro. Per esempio (vorrei chiedere all’Autore), lo è anche la spiegazione perché il tale fringe benefit oppure la tal progressione di carriera siano stati concessi al tal dipendente, anziché al tal altro?
Avendo avuto un’esperienza quasi quarantennale presso il medesimo datore di lavoro, so che questi non sono dettagli trascurabili, anzi, sono forieri di discussione e di conseguenti mugugni.
Un giorno mi decisi ad affrontare una questione operativa col suddetto Capo Area. Il mio computer era obsoleto, ma permetteva di usare un word processor che mi portavo da casa, su un floppy. Purtroppo, nel bel mezzo di una relazione o di una lettera, il personal si spegneva per poi subito auto-avviarsi, facendomi perdere ogni volta le ultime variazioni del testo.
Sapevo che erano pervenuti all’Istituto dei computer nuovi di pacca. Dissi al Capo Area che mi sarei accontentato del computer vecchio di pochi anni che era al momento in possesso della collega della stanza adiacente, quando le fosse stato affidato uno dei nuovi.
Il Capo Area mi replicò che forse ignoravo il perché a me fosse stato dato quel catorcio. Io non pecco di schiettezza e le (era una donna) risposi: Ti sto forse sul cazzo?! Ma no!, rispose lei, che dici! L’ho dato a te perché so che tu te la cavi sempre!
Cito all’inverso non “quali dovrebbero essere nella pratica i comportamenti di una persona assertiva”, bensì quali non potrebbero essere, e che erano normalmente propri della suddetta Capo Area:
- Invadente (quando serve)
- Arrogante (quando serve)
- Decisa ad affermare se stesso (sempre)
- Dominante (sempre)
Quelle sue parole erano condite con una simulata simpatia e una malcelata ipocrisia. Come conseguenza di tanta melensaggine decisi che avrei fatto quel che potevo, senza darmene troppo pensiero.
“Penso cioè all’assertività anche come Autorevolezza come esprimersi.” – è giusto che sia così, ma bisogna precisare che l’Autorevolezza è sempre fondata sulla giustizia, oltre che sulla competenza e sul sorriso accattivante.
Le risposte possibili ad ogni evenienza, secondo l’Autore sono tre:
- sì
- potrebbe
- no
La norma dovrebbe unica e univoca, quindi non si capisce il potrebbe.
Si esiste in una società in cui la norma non è sempre chiara.
Esempio: la legge n. 662 del 1966 indicò come avente il diritto e l’obbligo all’iscrizione all’assicurazione previdenziale (quindi INPS, non INAIl, perché colà il discorso è ancora diverso) chi svolgesse attività di tipo terziario con abitualità e prevalenza.
Oltre dieci anni dopo, un provvedimento legislativo (ammirevole, ma ancora un tantino incompleto) chiarì abbastanza cosa s’intenda per prevalenza.
A oggi non credo ne siano usciti altri, che illuminino i soggetti interessati su cosa s’intenda per abitualità: (una volta al giorno, alla settimana, al mese, o due volte in una vita?).
Da questa deficienza legislativa sono conseguiti numerosi contenziosi legali.
Come disse, se non erro, Aristotele: disgraziato il paese governato da troppe leggi. Io aggiungo: pessima è la legge non chiara o che contraddice, senza abrogarla, una precedente.
Un celebre politico campano dichiarò un giorno: Questa legge ha un grande difetto, è chiara.
La cosiddetta Legge Biagi, n. 30/2003 fu in parte contraddetta ma non abrogata dalla cosiddetta Legge Bersani, n. 248/2006, in riferimento all’obbligazione solidale in caso di appalto. Qualche anno dopo uscì un provvedimento legislativo che chiarì la questione (a favore della Legge più antica).
È evidente che, almeno nel nostro paese, debba esistere nella compliance un’intera sezione dedicata alle contraddizioni legislative, dove il potrebbe diventa solitamente un potremmo forse.
“L’interpretazione ‘a monte’ è quella dei regolamenti fondanti.”
“L’analisi a valle dell’interpretazione corretta” è riferita al risultato finale “ove si sia riuscita a creare valore distintivo in equilibrio con l’obiettivo principale dell’utile, ovvero del successo dell’azienda…”
In linea di principio è così.
Come disse un tipo che errava di sovente “è la pratica che mi viene difficile”.
Generalmente un appalto si vince qualora si offrano condizioni migliori di risparmio, nella promessa di una realizzazione completa della richiesta del committente. Esiste anche la possibilità di uno o più subappalti.
Le leggi di cui sopra, (cosiddette Biagi e Bersani e altre) sanciscono un’obbligazione solidale in relazione a numerosi aspetti (privatistici e pubblici), tali che le inadempienze di chi è di sotto (appaltatrice o subappaltatrice) possano ricadere in chi gli è sopra (appaltante e appaltatrice).
Ne consegue che l’offerta di condizioni maggiormente favorevoli possa celare comportamenti omissivi, a volte necessari per aggiudicarsi l’appalto o il subappalto. Ed è talvolta una questione di sopravvivenza imprenditoriale.
Non sempre la convenienza conviene, almeno di primo acchito. Dipende da come potrebbe andare.
Esiste, negli appalti, l’obbligo di produrre la documentazione di regolarità, che è mirata a quel che è stato dichiarato dall’azienda stessa alla Pubblica Amministrazione, non necessariamente a ciò che deve esserlo in senso assoluto. In mezzo alle due situazioni può inserirsi lo spettro dell’elusione.
La responsabilità, in questi casi, è solo aziendale, non individuale, ma sono gli individui che compongono le aziende. E qui risiede la parte più spinosa del problema.
Fidarsi e non fidarsi dell’alea è sempre una valutazione di competenza di individui. Anche un eventuale Consiglio di Amministrazione è composto da individui. Anch’esso può decidere se trascurare o meno una verifica, se ottemperare o no a un dettato legislativo.
Quali possono essere le possibili soluzioni al marasma di illegalità che sempre più pare diffondersi?
Una appare tragica e forse ingiusta: far chiudere d’imperio le aziende risultate irregolari per un numero determinato di volte o per periodi lunghi.
Ecco una soluzione tipica di chi saprebbe rinvenire immediatamente l’inganno: far sorgere dalle ceneri di una società di capitale, un’altra similare con un diverso responsabile aziendale.
Di frequente le società di persone si trasformano in una di capitale. Il contrario è rarissimo. Troppi sono i rischi imprenditoriali. L’Italia ha un’economia basata sulla media e piccola industria, diversamente da altre più fiorenti e meno fragili economicamente.
L’applicazione seria e corretta della compliance non è a costo zero. Per una piccola industria può rappresentare un carico economico non facilmente solvibile.
Più semplice ed efficace potrebbe sembrare perseguire un risparmio collegato all’omissione, auspicando un’assenza di controlli governativi. La soluzione è facile da realizzarsi quanto estremamente rischiosa.
Può capitare che qualche azienda nomini come proprio legale rappresentante un individuo privo di redditi personale, e il problema del trasgressore delle sanzioni amministrative è svanito nel nulla.
E se viene chiamata per legge in solido la società di capitale, anch’essa può disintegrarsi all’improvviso, per risorgere, come l’Araba Fenice, Altrove e con una diversa ragione giuridica. Questo accade sempre più frequentemente.
Potrebbero esistere soluzioni ancora più drastiche, ma non è qui il luogo per indicarle.
Sic transit rectitudo mundi.
Voglio però, caro Autore, citare la speranza umanistica che indichi nelle tue Conclusioni, che ha comunque preso vita in questo nostro forse incorreggibile mondo, in cui l’idealismo che manifesti si fa sempre più raro e prezioso: “E allora ho pensato attraverso un lavoro scientifico di scendere anche su piano umanistico e di trasmettere un’emozione”.
Ci sei riuscito.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Gennaro Giancarlo Troiso, Compliance. Il futuro è oggi, PM edizioni, 2020