“At the Top” di Ishmael Bernal: Far East Film Festival 2021, Sezione Eddie Garcia: Life as a Film Epic
Tre le ragioni per cui Oubliette Magazine non può lasciarsi sfuggire “At the Top”: è stato restaurato nel 2016 dal laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna, cui è assegnato il Gelso d’oro alla carriera di questo 23esimo Far East Film Festival; rientra fra i titoli di punta selezionati per la retrospettiva del cinema di e con Eddie Garcia; dopo “Himala” (1982) e “A Speck in the Water” (1976) è il terzo film di Ishmael Bernal ad essere incrociato dal 2018 ad oggi.
Di più: assieme ad “A Speck in the Water” è stato eletto ai Gawad Urian Awards del 1981 fra i 10 migliori lungometraggi filippini della decade precedente; gli altri di Bernal ad apparire nelle rose successive sono, per gli anni Ottanta, il già noto “Himala”, “City After Dark” (1980, attualmente in fase di restauro) e “Hinugot sa langit” (1985), per gli anni Novanta la sua ultima fatica, “Wating” (1994).
Questo breve cappello, inteso a inquadrare il Nostro fra i più stimati del proprio Paese, contribuisce anche a segnalare uno scarto fra l’impatto che la regia deve aver avuto sul pubblico e la critica delle generazioni passate e l’attrattiva che esercita oggigiorno. Cosa rimane del primo racconto realmente degno di memoria portato sullo schermo da Bernal?
Sicuramente l’interesse maggiore riguarda l’aspetto culturale (almeno per chi non è dichiaratamente incuriosito da un lavoro d’esordio di ben difficile reperibilità): “At the Top”, pur riprendendo anzitutto il titolo di un romanzo umoristico trasposto in immagini all’interno della finzione narrativa, è una storia di ascesa verso il firmamento della settima arte che, senza farne mistero, si presenta come figlia del proprio tempo (non a caso gli studiosi ne parlano come dell’apripista dei film indipendenti dell’industria filippina).
Sotto l’egida di Bernal, Brocka, de Leon e altri, il cinema dell’arcipelago nei nascenti anni Settanta muta fisionomia, viene irrorato di una nuova linfa, tende a infrangere le convenzioni, a rivolgersi a una platea i cui gusti e sensibilità sono in rapida evoluzione. L’ascesa sociale di Ching (Rita Gomez), ballerina di burlesque desiderosa di cambiare vita, e conseguentemente dell’amante Pinggoy (Vic Vargas), tassista squattrinato che ha abbandonato moglie e figlioletto, inizia proprio da un incontro fortuito con Ruben, un regista pignolo ed esigente.
Il personaggio interpretato da Garcia ha tutta l’intenzione di rinnegare le produzioni “da due soldi” intrise di comicità e ricche di canzoni e scene sexy a cui l’audience viene abituata, successi assicurati ma privi di alcun valore artistico: guardando alle scuole europee, la sua idea di cinema muove infatti dall’attenta osservazione della realtà e contempla una messinscena pura e veritiera, da perseguire anche a costo di incappare in problemi finanziari.
Ruben, dunque, altri non è che l’alter ego dell’autore e di tutti i colleghi non allineati con l’estetica mainstream. Ma “At the Top”, nel suo farsi metacinema e in realtà sin dai titoli di testa, dietro i quali viene mostrata Ching impegnata in uno spogliarello, raggiunge una complessità ancora maggiore nel momento in cui, proprio per additare l’ingerenza delle sequenze erotiche nelle pellicole commerciali, introduce la coppia di neofiti direttamente al mondo dell’hard, lei allo scopo di costruirsi una nuova immagine pubblica dopo il flop del suo film di debutto, lui per lasciarsi alle spalle un’occupazione servile e insoddisfacente e dimostrare alla compagna di saper non essere da meno.
Un altro pregio del soggetto corrisponde alla scelta, prima che sopraggiunga il lieto fine, di indurre Paloma Miranda (questo il sensuale nome d’arte assegnato a Ching) e Pinggoy Morales a replicare gli sgradevoli e improduttivi atteggiamenti che erano stati in principio di Carmen (Rosemarie Gil) e Romeo (Ronaldo Valdez), coniugi litigiosi nella vita privata e “love team” per i fan, dei cui capricci la protagonista si era resa testimone all’arrivo sul set come controfigura e poi sostituta della primattrice.
Riferito del graffiante processo di demistificazione del settore, raddoppiato nell’efficacia dalla dimostrazione che cambiare cast non impedisce il riproporsi di dinamiche viziose (aggravate dall’abuso di alcolici e da un orgoglio bruciante che non risparmia neppure dive come Nora Aunor e Vilma Santos), non ci si deve aspettare una sorta di antesignano di “Boogie Nights”: l’interesse minore nutrito dagli spettatori contemporanei concerne infatti l’aspetto stilistico.
La prova di Bernal, nel complesso, è ancora acerba, scandita da riprese statiche e talora esasperatamente prolungate; complice la rete di sottotrame esplicitate in maniera non sempre esaustiva e funzionale, essa è appesantita da lungaggini che infiacchiscono il ritmo narrativo e smorzano la carica sovversiva di plot e interpretazione. Se al microscopio l’opera rivela perciò dettagli degni di nota, elementi di una progettualità consapevole e per certi versi avveniristica, con facilità uno sguardo d’insieme tende invece a cogliere legnosità e imperfezioni che il trascorrere dei decenni non sfoca, né giustifica, in alcun modo.
Voto al film:
Written by Raffaele Lazzaroni