Edward Hopper: importante esponente del Realismo americano
“Se proprio devo raccontare una storia, spero che non sia banale. Non è questo il mio intento” – Edward Hopper

È il 1882 quando il pittore Edward Hopper, uno dei maggiori rappresentanti del Realismo americano, nasce a Nyack, cittadina dello stato di New York.
Corrente artistica sorta tra il finire dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, il Realismo americano predilige soggetti che immortalano le attività della gente comune legate alla loro quotidianità, ed è movimento che influenza molti artisti dell’epoca, i quali hanno l’obiettivo di tratteggiare situazioni e persone impegnati a svolgere mansioni che rispecchiano il contesto urbano in cui sono inseriti.
Ed è proprio attraverso lo sguardo della gente comune che gli esponenti del Realismo intendono raffigurare i paesaggi e la cultura americana, catturandone l’atmosfera del XX secolo.
Scenari che non sono soltanto quelli percepiti dallo sguardo, ma si aprono a più interpretazioni.
Di cui l’osservatore, grazie alla sua immaginazione, può arricchire la dimensione narrativa proiettata nel dipinto.
“Hopper stava seduto nello studio bevendo tè. Ogni tanto sentivo che era sul punto di dirmi qualcosa, ma poi non lo faceva”. – John Dos Passos, scrittore
Ragazzino tranquillo e silenzioso, Edward Hopper trascorre l’infanzia dividendosi fra letture e la passione per il disegno. Sollecitato dai genitori, appartenenti alla colta borghesia americana, i quali intuiscono l’inclinazione artistica del figlio, frequenta una scuola per corrispondenza per diventare illustratore. Per accedere poi, l’anno successivo, alla New York School of Art, istituzione che lo introduce nell’ambiente artistico del suo tempo. E dove, fin da subito sviluppa uno stile dalle caratteristiche ben precise: una pittura nitida e lineare, la quale sarà elemento ricorrente di tutte le sue opere.
I riconoscimenti in cui Hopper ripone molte aspettative non arrivano però nell’immediato, e dovendosi piegare alle inevitabili leggi della vita, al fine di provvedere al proprio sostentamento, si impiega presso un’agenzia pubblicitaria in veste di illustratore.
Mestiere che, seppur non lo soddisfa del tutto, eserciterà per un periodo piuttosto lungo.
Desideroso però di vedere affermato il proprio talento, nel 1907 intraprende un viaggio che gli dà l’occasione di visitare diverse capitali europee. Londra, Berlino e Madrid fra queste.

Ma la città che più di altre lo attrae è Parigi, in quanto gli promette un’ispirazione obbligata soprattutto dall’esempio pittorico degli impressionisti, i quali sono motivo per Hopper di consolidare il suo linguaggio figurativo: quello che la sua indole di persona riservata e incline all’introspezione gli suggerisce.
Il suo linguaggio è sobrio, ereditato anche dalla sua precedente attività lavorativa, la quale esige un’accuratezza di dettagli, oltre che un indovinato gioco di luci.
Di ritorno negli Stati Uniti, Hopper fa tesoro dei modelli pittorici acquisiti durante la sua peregrinazione. Anche se, per vedere riconosciuto il suo talento, dovrà attendere tempi migliori.
“L’arte americana non deve essere americana, deve essere universale…” – Edward Hopper
La musa ispiratrice dei suoi soggetti femminili è Josephine, una pittrice con cui nel 1923 si unisce in matrimonio; purtroppo, però, un’unione che sembrava promettente diventa una lunga lacerazione prodotta dalle caratterialità di entrambi, persone agli antipodi fra loro.
Hopper si solleva dalle difficoltà matrimoniali e vive un momento decisivo e proficuo per la sua carriera. Una svolta positiva che vede nel 1924 un anno per lui determinante, in quanto i suoi quadri attirano l’attenzione di appassionati e di critici.
Quella illustrata da Hopper è un’America desolata. Non una rappresentazione dai toni trionfalistici, ma affresco di una quotidianità che vede l’America cadere sotto i colpi della Grande Depressione del 1929. Periodo in cui la classe media precipita in un disagio economico e sociale generato da una crisi che si sviluppa su di un’onda lunga e durevole.

I soggetti descritti inizialmente da Hopper anticipano tematiche che saranno fil rouge di tutta la sua produzione: scorci urbani e paesaggistici dai rimandi misteriosi e inquietanti, incentrati sul tema dell’incomunicabilità e sulla complessità delle relazioni sociali.
Strade immerse in un silenzio surreale con case solitarie accanto a ferrovie, oppure case affacciate su di un mare grigio e triste.
O ancora, caffè notturni frequentati da pochi avventori accanto a distributori di benzina nel mezzo di un paesaggio semideserto, illuminati da giallastre luci al neon o da malinconici lampioni.
Inseriti in spazi troppo ampi perché possano essere accoglienti.
Il tutto, pregno di una grande solitudine che risiede nell’animo dei figuranti che convergono nelle composizioni; un mondo dove la solitudine del singolo è elemento imprescindibile della sua condizione umana.
Persone immobili in assenza di reattività appaiono distanti dal resto del mondo; figure prive di calore umano con lo sguardo perso nel vuoto. Spesso silenziose e assorte ad osservare un qualcosa di non definito e accompagnate solo dal loro triste presente.
Rappresentazioni malinconiche, nonostante i colori vivaci con cui sono stati realizzati i dipinti.
Che non presentano tonalità sobrie, perché sobrietà è già nelle figure, capaci di suscitare nella platea inquietudine e malessere esistenziale, quali sintomi evidenti anche nei tratti dei personaggi, che si fanno strumento per manifestarne l’isolamento.
Il cui risultato è un totale coinvolgimento originato nell’osservatore, in quanto l’abbandono di cui le rappresentazioni sono gravide appare come una realtà inalienabile, come inalienabili sono gli stessi scenari. Quella descritta da Hopper non è un’America scenografica, quell’icona d’oltreoceano arrivata in Europa attraverso pellicole spettacolari; ma è ritratto dello smarrimento dell’uomo di fronte a spazi enormi personificati dalle praterie americane.
O, in alternativa, sono interni rarefatti compresi in una luce metafisica a essere motivo di sgomento.

Un’America dall’atmosfera immobile e surreale, dove immagini ‘anonime’ della vita americana diventano misura dell’essenza umana. All’interno del quale, il contesto ambientale, che sia uno scorcio moderno o rurale o addirittura una scenografia d’avanguardia, non è importante, perché l’intento della rappresentazione vuole essere presupposto di un’esplorazione soprattutto antropologica.
Composizioni che, provviste di un taglio prospettico diagonale e dotate di una tecnica apparentemente impersonale, offrono all’osservatore la percezione di un’estraneità che partecipa i personaggi, i quali, separati dallo spazio circostante, ricordano un’istantanea dettata da una visione fotografica. Che sollecita una concezione artistica, scandita da uno sguardo cinematografico nella misura in cui esprime una tecnica pittorica atta a manifestare un’arte semplice e pulita.
“Il mio scopo nel dipingere è sempre stata la più esatta trascrizione possibile della più intima impressione della natura…” – Edward Hopper
In più occasioni la critica, anche autorevole, ha espresso un’analogia fra l’arte di Edward Hopper e quella di Giorgio De Chirico. A essere motivo di parallelismo fra i due è l’origine metafisica presente nelle opere di entrambi gli artisti, che vedono le figure inserite in palcoscenici solitari, metafora del malinconico palcoscenico della vita, spesso affollato da aspetti oscuri e misteriosi.
“Per me l’impressionismo era l’impressione immediata. Ma sono più interessato al volume, naturalmente…” – Edward Hopper
Il periodo che vede Hopper protagonista sulla scena artistica del suo tempo è un ambiente in via di trasformazione. L’industria, il diffondersi dell’automobile, la costruzione dei grattacieli, elementi tutti che cambiano il volto delle città.
L’artista, però, pare non avvertire questi mutamenti e, in continuità con i suoi inizi, dà spazio ai soggetti che predilige e su cui ha focalizzato la sua arte. Arte dove il contrasto fra luce e ombra è elemento atto ad accrescere l’arcano di cui le opere di Hopper sono gravide. Una luce netta e decisa che attraversa le immagini e rivela combinazioni pittoriche dalle decise forme geometriche, una singolare interpretazione della fonte luminosa che tanto ricorda gli studi pittorici del Caravaggio.
“Il mio scopo in pittura è sempre quello di usare la natura come mezzo, per cercare di fissare sulla tela le mie reazioni più intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più: quando il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose” – Edward Hopper

Nigthawks del 1942, in italiano Nottambuli, è l’opera di Hopper che ha riscosso maggior successo, ed è considerata emblema della sua espressività artistica.
È la raffigurazione notturna che mostra un bar-tavola calda abitato da alcuni avventori addossati al bancone, i quali sembrano ignorarsi tra loro nonostante siano vicini gli uni agli altri.
Dipinto questo che è un manifesto esempio di incomunicabilità, in cui il forte contrasto tra luce e buio assume la funzione di ‘bolla’ entro cui sono racchiusi i personaggi.
Anche in questo caso la caratteristica che si evince dal dipinto è un forte senso di solitudine e di totale mancanza di relazione.
“L’opera è l’uomo. Una cosa non spunta dal nulla…” – Edward Hopper
Dopo aver espresso la narrazione di un artista straordinario, sono diversi gli interrogativi che possono nascere osservando i dipinti di Hopper, artista originale e riconoscibile fra molti altri.
Le sue opere possono essere interpretate in maniera duplice?
In quanto immagini verosimili e al contempo fittizie della realtà rappresentata?
Probabilmente sì, perché la visione reale è frutto dell’elaborazione mentale del pittore, poi frammentata e ricomposta nel quadro attraverso inquadrature realistiche, ma anche rappresentata con descrizioni alterate da un mondo partorito dalla mente del pittore.
Quello che si può affermare, con una buona dose di certezza, è che la vocazione di Hopper è quella di cogliere la realtà, ma anche restituire ad essa una configurazione grazie alle emozioni filtrate dall’interiorità dell’artista.
“Edward Hopper ci ha insegnato che l’immagine è una realtà senza resti e la realtà un divenire senza centro.” – Paolo Balmas

Da aggiungere, che la dimensione cinematografica e artistica nell’arte di Hopper si intreccia in un connubio quanto mai stringente. La narrazione pittorica di Hopper, infatti, ha ispirato più di un regista, il quale ha beneficiato di un punto di vista scenografico per costruire l’ambientazione di alcuni film.
Alfred Hitchcock, in primis, il quale ha usufruito dello sguardo di Hopper adottato in ‘The house by the Railroad’, rappresentazione pittorica che il regista ha impiegato come modello nel film Psicho, dove la casa vittoriana di Hopper diventa Bates Hotel, luogo dove sono state girate le sequenze di Psicho.
Infine, dopo aver acquistato popolarità e successo, Edward Hopper si spegne nel 1967, lasciando ai posteri una notevole produzione artistica. Opere singolari e di sicuro impatto emotivo dettate dalla sua profonda sensibilità.
“Edward Hopper ritrasse coloro che sembravano sopraffatti dalla società moderna, che non potevano rapportarsi psicologicamente agli altri e che, con gli atteggiamenti del corpo e i tratti facciali, indicavano di non avere mai avuto una posizione di autorità” – Matthew Baigell
Written by Carolina Colombi