“Gli habitué dei caffè” di Joris-Karl Huysmans: una guida per noi atipici
Leggendo la nota introduttiva, scritta a quattro mani da Paolo Bellomo e da Luca Bondioli, i due curatori e traduttori della breve opera “Gli habitué dei caffè” di Joris-Karl Huysmans (Bordeaux Edizioni, 2020), provo un interesse insolitamente maggiore rispetto a quello che normalmente sorge in me in simili occasioni.
In genere, queste note sono importanti, eppure le si trangugia come una medicina inevitabile, se si vuol prevenire la malattia, che in casi come questo può essere rappresentata dall’incomprensione del testo. Lo si deve fare e lo si fa, obtorto collo.
Del resto, io rientro nella categoria di lettori che legge tutto di un volume, fatta eccezione, almeno a livello conscio, del numero delle pagine e dell’indice analitico dei nomi, che spesso intasano le ultime pagine dei saggi, specie quelli di meccanica quantistica. Quindi, sono uso piegare normalmente il collo in svariate direzioni, senza eccessivi problemi.
Nel paragrafo Il viaggio nel tempo, un curatore (o entrambi?), dice una verità lampante a cui si pensa poco: sentiamo più simili a noi, e alla fine comprendiamo meglio i grandi autori, come Balzac e Flaubert, piuttosto che quelli del tipo particolare, come è Huysmans.
L’epoca di quest’ultimo ci pare più altra rispetto a quella dei due summenzionati, che ci sembrano “più vicini, più familiari”, forse per la loro natura di “classici della letteratura francese”. Ergo: “possiamo identificare facilmente questi due mostri avi come nostri avi, giocare al gioco dell’eredità, riconoscere volentieri e controvoglia il nostro debito nei loro confronti.”
Con Huysmans il discorso si fa più drammatico: “perché, in qualche sorta, la sua genealogia si è interrotta.” Huysman, decadente com’è, non ha lasciato eredi. Eppure, qualcosa ci trasporta “bruscamente nel mondo della Parigi e vicina periferia di centotrenta o centoquaranta anni fa…” Si tratta di alcuni mezzi tecnici da lui adottati, ma soprattutto “Questa lingua scritta non addomesticata dal tempo”.
Ma non è finita qui: “Huysmans è uno di quegli scrittori che impongono il proprio marchio alla lingua in cui scrivono.” Se si decidesse di rinunciare alle sue stranezze, che per lui erano norma, “tutto il fascino di questi testi, il loro potere evocativo, sarebbe andato perso.”
Intrigante l’allegoria della cravatta, il cui relativo nodo da Huysmans è stretto in maniera anomala rispetto alla costumanza del resto del genere umano, per cui la relativa traduzione richiede un annullamento di tutte le conoscenze che si hanno dell’uso di simili orpelli, ma al contempo occorre prendere atto che nessuno potrà mai comporre un nodo simile, in quanto è esistito una volta e forse mai più ci sarà.
La scrittura ha però qualcosa di miracoloso: sa ricreare, anche mille anni dopo, o due mila e più, quel che fu una volta, e al presente sembra svanito, ma non lo è mai davvero, finché resterà un lettore (e ovviamente un traduttore!).
Entrando in collisione, parte della massa di Joris-Karl si somma dapprima a quella di Paolo e di Luca e poi, senza mai annullarsi, si trasforma in quell’energia che serve per ri-scrivere quest’opera, smilza e inquietante già nelle sue prime pagine. Questo succede anche nelle stelle doppie, in questo caso triple, dalla cui mescolanza, a prescindere dalla grandezza degli agenti in causa, sempre si rinnova la creazione di quel qualcos’altro che permette a un altro agente, il sottoscritto, di entrare in gioco, continuandolo ancora un po’, chissà, forse fino alla fine di tutti i mondi.
Il primo racconto, che dà il titolo al minuscolo volume, descrive un ambiente, quello dei caffè derelitti, in cui si recano persone caratteristiche, per lo più anziani, scelti da qualche arcano probabilistico “soprattutto tra i dotti e gli artisti, o addirittura tra i preti.”
Questi, a detta di Joris, “non desiderano fare conoscenza, ma hanno l’affabilità provvisoria dei complici.” La loro è una comunità di singoli che non si sentono facenti parte di un insieme organizzato e coeso, ma che si riconoscono, si rammentano gli uni degli altri, e le pur brevi assenze di alcuni non sfuggono a chi è ogni volta presente.
I camerieri sono anziani e gentili, diversamente dai colleghi di altri locali, e finiscono per assomigliare, in vetustà, ai liquori, “ovunque sgargianti”, ivi serviti, con le loro “vistose etichette”.
La gente, anche se questo termine è improprio: gli uni e gli altri, separati, ma fra loro correlati, entangled, direbbero i quantistici fisici, si recano in questi caffè per distrarsi dal resto del mondo. Qui sono altrove, anche se magari a soli cinque minuti da casa, trovando “nel caffè una sorta di salotto, ma un salotto in cui non si è costretti a vestirsi bene, a parlare, a subire le chiacchiere estenuanti delle signore.”
Tragicamente, questi locali sono destinati a una mesta decadenza: “il caffè Caron è morto di miseria ed è stato naturalmente sostituito in rue Saints-Perès da un bancone qualsiasi.” E chi si recò in un luogo analogo, il caffè d’Orsay, già moribondo prima del loro arrivo, poco vi rimase, poiché “un ineluttabile fallimento lo portò via: fu la fine di tutto.”
Questo diceva mia mamma, più savia di tanti altri che avevano studiato tutta la vita, tótt à fîn; come, del resto, è previsto dal secondo principio della termodinamica, che predica una necessaria e definitiva entropia o disordine assoluto del mondo.
“E da allora, l’anima degli habitué si trova allo sbando.”
Tutto decade, dicono: non solo Joris-Karl, ma, prima o poi, e ci vorranno forse non più di alcune decine di milioni di miliardi di anni, anche tutti i suoi protoni. Si tratta, però, di mere previsioni, non ancora attestate sperimentalmente col metodo galileiano. Meno male, c’è quindi ancora un’infinita speranza!
Il successivo racconto, dedicato ai buffet della stazione, inizia con una frase scandalosa, eppure indiscutibilmente veritiera: “Il piacere degli uni è generalmente provocato dalla vista della disgrazia degli altri…” Questo è il motivo per cui Joris-Karl si reca sovente a mangiare colà.
A lui non dispiace “la calca della gente che si ingozza in fretta e furia coi cibi avariati riservati agli infelici in stazione solo per una breve sosta mi divertiva e mi impediva di vedere la tristezza delle mie pietanze, l’orrore delle inevitabili scaloppine cinte da fagiolini troppo verdi.”
La sua è una scelta non gastronomica, ma socializzante, pur in modo apparentemente casuale.
“Quante volte, verso mezzogiorno, all’ora in cui il sole incendiava la stazione, mi sono rifugiato all’ombra di questo buffet, a guardare degli esseri affaccendati masticare la stoppa da penitenza di una tiepida vitella con gli occhi fissi sull’orologio! E io godevo deliziosamente del mio riposo: non avevo nessun viaggio da intraprendere…”
Era per potersi deliziare di tale assembramento umano, che egli disdegnava di desinare in deschi più sontuosi, ma siti altrove.
Così direbbe la mia saggissima mamma: ôgni cajòun a gh’à la so passioun.
Eppure, c’è un’altra spiegazione dello strano fenomeno: “io fremo, perché l’espiazione delle mie gioie cattive non si fa attendere. Mi ricordo che anch’io dovrò partire e mi dico che tra due giorni tornerò in questo buffet, ma questa volta con una valigia, e che mi precipiterò nei…”
Nel terzo, Joris-Karl rievoca “L’antica società di canto, quella che in altri tempi a Parigi era detta goguette”, e che ora quasi scomparsa. Quasi, e Joris-Karl intende accompagnare lettori e traduttori a rivivere quello strano ingorgo di personaggi rumorosi e aulenti che non hanno eccessivo riguardo per chi ha “l’olfatto troppo sensibile e il timpano troppo delicato.”
Come già nel secondo, pare che a Joris-Karl rechi delizia attestare, pur nella confusione, la sopravvivenza di una fatale individualità che rende ognuno sé, ma al contempo elemento di un coacervo socialmente variopinto: il mantenimento della diversità pur nell’ammassamento di un fenomeno di gruppo. Ognuno è scostato, discontinuo rispetto al suo prossimo; ma l’insieme appare come un tutt’uno caoticamente rappresentato.
Ma qualcuno mi sta forse dicendo qualcosa su Joris-Karl, che non concorda con quanto ho apprezzato nella prefazione. Sono io, probabilmente, che mi sto bisbigliando addosso, ma non sono ancora in grado di comprendermi chiaramente.
Leggo l’ultimo racconto, il Point-du-Jour, che canta la banlieue, la periferia variopinta di Parigi. L’ho letto d’un fiato, senza soffermarmi troppo a ogni particolare decadente o decaduto che Joris-Karl vuole descrivere con quella sua solita dovizia di particolari, che in genere scoppiettano in faccia al lettore. Poi lo rileggerò, ma sento che ora devo correre per capire, per meglio assorbire l’energia che sta scaturendo da quest’ammasso di materia umana e non.
Perché, cari Paolo e Luca, io sento più vicino alla mia sensibilità e alla mia normalità Joris-Karl, rispetto ai due immensi autori, il cui genio ho contemplato per anni e che ho tanto amato e che voi avete citato?
Solo ora sento di intuirne il motivo. Prima di leggere i grandi autori francesi, ci fu un altro scrittore che m’indicò una strada, che è quella che ho più amato: Henry Miller, di cui io sono e sarò per sempre l’alunno riconoscente.
Lo iniziai a leggere quando avevo meno di diciott’anni, reduce da letture non meno trasgressive: Kerouac, Ferlinghetti, Corso e Ginsberg, che già avevano compiuto in me una loro iniziazione letteraria. Quando scoprii, d’improvviso, la magia dei due Tropici e, poco dopo, della Crocefissione in Rosa, e in particolar modo di Sexus, allorché provai una specie di dolore nel chiedermi se sarei mai riuscito a scrivere con tanto coraggio.
Giudico quell’immondo yankee il mio folle precettore, più importante, per me, di giganti quali Dostoevskij, Borges e Kafka, a cui pure debbo tantissimo.
Henry seppe indicarmi la strada che dovevo percorrere per affrancarmi dalla consuetudine umana. Se poi la seguii o no, e fino a che punto, resterà un segreto sepolto nel mio recondito intimo.
Sexus si chiude con una mirabolante descrizione di un burlesk a Houston Street, il cui “puzzo di latrina, di urina satura di palline di canfora” pare ispirato direttamente da Joris-Karl, aedo che ignoro se e quanto fosse da lui conosciuto, lui, americano e figlio di tedeschi trapiantati a New York, che per tant’anni visse da bohémien nella capitale francese, dove scrisse i suoi assurdi capolavori.
Questo è il motivo per cui giudico l’opera di Joris-Karl come parte integrante del mio sognante e per sempre recente passato.
Come anche l’altro, non meno eccelso demiurgo, Celine, e il suo prediletto e da lui mai conosciuto allievo, Bukowski. Da tutti loro ho imparato a fregarmene.
Per ultimo, vorrei citare l’icastica frase finale delle Notizie Biografiche curate dai due Dioscuri, o da uno solo dei due?, in cui si informa che l’autore “muore, sempre a Parigi, nel 1907: un cancro alla gola lo relega nella storia della letteratura.”
Per l’eternità, immagino.
Written by Stefano Pioli
Huysmans è un autore magico, dopo averlo letto ogni altra letteratura sembra falsa, romanzesca. Lo preferisco decisamente ai più famosi Flaubert & co. e non capisco perché sia così negletto, ma evidentemente è autore per pochi e va bene così. Concordo su Henry Miller a cui affiancherei il William Burroughs di Queer e delle Yage Letters.
Si. Anch’io sono un devoto di Burroughs. Grazie