“How Happy We Were” di Julian Beck: l’irriducibilità dell’utopia

Nel luglio del 1957, a New York, Julian Beck e Judith Malina, i fondatori del Living Theatre, furono arrestati assieme a diversi esponenti di un’organizzazione pacifista per essersi rifiutati di partecipare a un’esercitazione obbligatoria della Civil Defense inscenando un sit-in.

How Happy We Were di Julian Beck
How Happy We Were di Julian Beck

Furono condannati a trenta giorni di detenzione – poi ridotti a venticinque – che Malina scontò in un istituto carcerario femminile nel Greenwich Village, e Beck inizialmente nella prigione di Manhattan soprannominata The Tombs (!), per poi essere trasferito a Hart Island, nel Bronx.

Fu la prima di una serie di carcerazioni che i due, come anche altri membri del Living, avrebbero in futuro subito per la loro attività militante o per i loro spettacoli trasgressivi, il tutto culminando nella lunga detenzione in Brasile dal luglio al settembre del 1971, con successiva espulsione dal paese dopo che una campagna internazionale, promossa da artisti e uomini di cultura, aveva fatto pressioni sul governo brasiliano a favore del loro rilascio.

Julian Beck e Judith Malina avevano fondato il Living Theatre a New York nel 1947, anche se il loro primo spettacolo aveva avuto luogo solo nel 1951, nel living room del loro appartamento al 789 di West End Avenue, a Manhattan.

Malina era stata allieva di Erwin Piscator al New York School Dramatic Workshop, e lì aveva conosciuto Beck, all’epoca pittore che nel 1945 aveva esposto alla Peggy Guggenheim Gallery accanto a Marcel Duchamp, Jackson Pollock e William Baziotes, entrando successivamente nell’orbita della galleria di Leo Castelli. D’altro canto, l’interesse di Julian per il teatro risaliva alla sua infanzia, e nelle prime produzioni del Living Beck avrebbe talvolta ricoperto il triplice ruolo di regista, attore e scenografo (anche se generalmente le regie erano affidate a Judith). I due si erano sposati nel 1948.

Per quanto politicamente consapevoli sin dalla fondazione del Living Theatre, l’integrazione delle loro convinzioni politiche con l’attività teatrale non coincise con le prime produzioni del gruppo.

Inizialmente le ricerche dei Beck si focalizzarono soprattutto sul lato formale e performativo, ma presto cedettero il passo a innovazioni politicamente motivate. Fu con The Brig, del 1963, che l’esplorazione teatrale, l’attivismo politico e la sperimentazione sociale giunsero infine a un’integrazione.

Influenzato dalle opere di Thoreau e di Gandhi, Beck propugnò per tutta la vita un anarchismo filosofico, aspirando a un ideale di rivoluzione non-violenta che potesse liberare le persone dall’oppressione del Potere costituito, del Denaro e del Capitalismo, trasformando una società schiava della repressione politica e sessuale nonché – all’epoca – dell’incubo di una guerra nucleare: gli anni erano quelli dell’inizio della Guerra Fredda e il ricordo di Hiroshima e Nagasaki ancora vivido.

Riferendosi ai suoi “anni di formazione” e all’ambiente del Greenwich Village, fulcro della “contro cultura” dell’epoca, Beck raccontò nel suo The Life of the Theatre:

«Parlavamo di anarchismo, marxismo, miti e metri greci, sogni e Freud, discorsi giovanili, e camminavamo nei boschi lungo le Palisades, e andavamo molto al mare…»[1]

Poco prima di essere arrestati nel luglio del 1957, i Beck avevano appena trovato un nuovo spazio per la sede della loro compagnia, anche se il 14th Street Theatre, tra ostacoli burocratici e lungaggini nella ristrutturazione dello stabile, non avrebbe aperto le porte fino al gennaio del 1959.

In quello stesso periodo, Mary Caroline Richards fece loro leggere, in anteprima sulla pubblicazione americana, Il Teatro e il suo Doppio di Antonin Artaud, uscito in Francia nel 1938 e da lei appena tradotto. Le teorie artaudiane – “il teatro come peste”, il “Teatro della Crudeltà” finalizzato a smuovere la sensibilità sopita dello spettatore – avrebbero avuto un’influenza decisiva sugli sviluppi del Living Theatre, già a partire dalla messa in scena di The Connection di Jack Gelber del 1959, per poi trovare piena attuazione nel già citato The Brig.

Judith Malina e Julian Beck
Judith Malina e Julian Beck

Durante il periodo di detenzione, Julian Beck riuscì avventurosamente a tenere un diario, rivisto e integrato nei mesi successivi, che è stato pubblicato quest’anno da Fast Books, una piccola casa editrice dell’Oregon, in un volumetto molto elegante.

Sebbene non manchino descrizioni delle dure condizioni dei prigionieri, quel che da subito colpisce in queste pagine è soprattutto il candore dell’uomo-Beck alle prese con questa inaspettata esperienza, dapprima affrontata con ingenua spavalderia:

«Non mi interessa la legge. Ogni giorno mi interessa di meno e sono sempre più convinto che il buonsenso degli uomini liberi renderà un giorno superflua ogni legge. […] La legge è una manifestazione del bisogno umano di inventare uno strumento per punirsi, per soddisfare il desiderio d’essere punito, di essere un prigioniero, ed è così che, attraverso la legge, l’uomo si fa prigioniero nella sua stessa società

Con l’andare dei giorni, Beck inizia a soffrire la vita carceraria e le sue regole, sviluppando tuttavia una straordinaria empatia verso i suoi compagni di detenzione, come pure nei confronti di alcuni degli agenti penitenziari. La sua apparente naïveté non gli impedisce una profonda capacità di comprensione della personalità delle persone che lo circondano, anche nelle possibili contraddizioni del loro carattere.

«Trenta giorni di condanna sono un tempo così breve, e l’esperienza così nuova. Sono un osservatore sensibile e conscio di fin troppi dettagli. Non soffro, no, affatto, ma sono disturbato da ciò che vedo, e se al momento sono alquanto triste, l’esperienza è una delle più positive che io abbia mai vissuto; e mentre nel mondo esterno, dove tutto è bellissimo e buono, sembra ovvio che l’anima di un uomo possa ammalarsi per un cancro, qui, dove tutto è brutto e corrotto, è evidente che le anime degli uomini abbondano di bontà e antidoti a ogni dolore»

«Il più impressionante, davvero il più impressionante aspetto della vita carceraria [è] il buonumore. Tutti sono allegri, ognuno aiuta l’altro a sopportarla. Oh, ci sono alcune eccezioni, e sono tristi, ma nessuno li abbandona o li evita. Tutti sono allegri, e questo è così meraviglioso che uno vorrebbe che il mondo in generale imitasse i detenuti delle prigioni

«E qui su quest’isola, casa dei morti e dannati, sono giunto ad avere più speranza e a sentire più amore fra i miei compagni che in qualsiasi altra parte di questa terra.»

«Bisogna convertire le guardie, il nemico, con l’amore. […] È così facile simpatizzare con gli altri prigionieri. Siamo uniti. Ma le guardie, loro devono soffrire del nostro disprezzo. Devono lavorare tutto il giorno in un ambiente dove vengono disprezzate, derise, detestate, odiate

Questo diario cattura, d’altro canto, un momento-cardine nella presa di coscienza politica di Beck:

«Allora forse non sono così tanto un artista, se, nel bel mezzo di un dipinto, com’ero questa mattina, mi metto a partecipare a questo tipo di proteste morali mettendo a rischio il mio tempo lavorativo per stare in prigione. […] Ho realizzato dipinti e scritto poesie e testi teatrali, e tuttavia questa è la cosa più reale che io abbia mai fatto. […] Perché abbiamo fatto quel che abbiamo fatto? Io l’ho fatto automaticamente. Io non posso essere partecipe delle meccaniche della guerra e dello Stato. Quanto possono essere buoni dei dipinti se non c’è l’amore?»

«Devo accettare l’impersonalità di simili atti [di protesta] se voglio compierne ancora. Essi devono essere impersonali e si dev’essere totalmente altruisti per realizzarli in maniera soddisfacente. Finché agogno al successo e alla relativa visibilità, posso solo chiamare fallimento la poca attenzione che riuscirei a ottenere

«Non riesco a credere di poter tornare a una vita nell’arte ormai. Non potrei mai dare tutto me stesso ad essa, e per avere successo uno deve proprio far quello, bisogna essere ossessionati. Come posso dare me stesso all’arte quando sono legato alla prigione, ai guerrieri e alle loro vittime, agli sfiniti, ai poveri, agli infelici. Dipingere un quadro astratto può essere abbastanza. Scrivere una bellissima commedia può essere più che abbastanza. Ma non è abbastanza per me. Ho bisogno di dare qualcos’altro. Forse anche qualcosa di meno, non so; ma certo so che qualsiasi cosa io abbia dato stando qui in prigione mi ha fatto sentire meglio che qualsiasi opera d’arte. Perennemente insicuro sul successo del lavoro artistico, sono sempre sicuro del valore del più piccolo atto d’amore

L’elaborazione successiva delle note prese in prigione porta a compimento la sua svolta etica, e apre le porte a scelte che porteranno al teatro politico:

«Non posso fare a meno di sentire che ho lasciato una prigione per entrare in un’altra, più ampia, più brillante, molto più attraente e proprio perciò più subdola. Il vasto mondo è una prigione, ma solo perché noi l’abbiamo reso tale. […] Noi abbiamo imprigionato noi stessi in un sistema in cui ci proibiamo di esprimere il nostro amore. Il sistema è così vasto, così complesso, e i lacci così strettamente annodati, come, come potremo mai liberarci, come potremo superare o distruggere la schiavitù che ci siamo imposti da noi stessi?»

Julian Beck - Photo by Dirk Szousies
Julian Beck – Photo by Dirk Szousies

La soluzione i membri del Living Theatre la proporranno in spettacoli come Mysteries and Smaller Pieces, Frankenstein, Antigone di Sofocle, Paradise Now – che hanno segnato un’epoca e influenzato tutto il teatro del tardo Novecento – e in una vita da comune anarchica, praticata con coerenza anche nei decenni successivi, incuranti del riflusso post-sessantottino e del trionfo del capitalismo a livello globale.

Julian Beck morirà, prematuramente, nel 1985, Judith Malina nel 2015.

Onesto, franco, diretto – anche perché nato da un’urgenza interiore e non pensato per la pubblicazione – How Happy We Were è anche un libro molto poetico, che sanamente restituisce l’atmosfera di un’epoca in cui visse la speranza di cambiare il mondo in nome di valori etici e libertari.

Penso spesso a persone come Judith Malina (che ho avuto l’onore di conoscere) o Julian Beck; a come si rapporterebbero con la realtà attuale. Forse è meglio per loro che non possano assistere allo sfacelo morale e politico odierno, al crollo di tutto ciò per cui si erano battuti per una vita.

Anche se oggi, sempre più, si sente la mancanza di persone che credano ancora nell’irriducibilità dell’utopia.

 

Titolo: How Happy We Were

Autore: Julian Beck

Lingua: Inglese

Casa Editrice: Fast Books

Anno di pubblicazione: 2020

Pagine: 144

Prezzo: $ 16

ISBN: 9780998279350

 

Written by Sandro Naglia

 

Note

[1] Tutte le traduzioni sono dell’autore dell’articolo.

 

 

2 pensieri su ““How Happy We Were” di Julian Beck: l’irriducibilità dell’utopia

  1. Poi accade una cosa, un avvenimento che mi colpisce, mi stordisce e mi riporta sulla strada della filosofia libertaria, non violenta. A Milano arriva il Living Theater di Julian Beck e Judith Malina, già ne avevo sentito parlare da Claudio, in occasione della prima rappresentazione a Torino, dove è intervenuta la polizia sospendendo lo spettacolo con l’accusa di oscenità in luogo pubblico.
    Andiamo io e Oliver, cerchiamo per un po’, in fondo a V.le Padova, dalle parti del Parco Lambro, il Circo Medini, che troviamo solo quando vediamo un po’ di folla e la seguiamo, ma si deve pagare un biglietto, noi cominciamo a studiare un modo per entrare gratis, giriamo tutto intorno al tendone, superando i punti con la polizia, e arrivati dietro, vediamo un’apertura, ci avviciniamo per entrare un po’ timorosi, ed ecco che improvvisamente escono alcuni capelloni, che sorridendo ci invitano ad entrare, hanno sgamato perfettamente la situazione, bravi! E’ un grande spazio, sotto l’enorme tendone, c’è un sacco di gente, e poi lo spettacolo, particolare, coinvolgente, mi trascina, tanto che alla fine quando Julian, seminudo, senza capelli, nel mantra di fuoco fra le mani unite che chiudono il cerchio, invita a liberarsi delle proprie “catene”, io insieme a qualche altro sento il bisogno di spogliarmi. E questa è la mia cronaca.
    Paradise Now, è stato il sogno più bello, una sbronza di vita, nuove immagini, nuove invenzioni per arricchirmi un poco di più; è stato il viaggio nell’amore, senza droga, senza niente, niente di niente, solo loro e il loro nome evocatore, living il teatro della pazzia che è vita, della vita che è li, esplosiva, fra noi e tanti che non sanno nulla, o poco o troppo idioti; è stato il momento che ora so, può scaturire dal niente, e da tutto, dalla gente, dallo spettacolo che recitiamo, stoltamente e goffamente ogni giorno; è stato l’attimo intenso d’un amore universale, vero, cullato da un coro infinito e profondo: è stato tante cose insieme, un volto bianco scavato nella gioia, una cascata di riccioli biondi, dal profilo maschile e dal sapore dolce, un abbraccio stretto, immenso, che ci ha uniti nel bisogno d’essere, d’essere nuovi e più belli, d’essere dolci come quel sorriso, d’essere sicuri che il cerchio non si rompa, e che il canto da dentro, piccolo all’inizio, poi è grande sempre più grande, intenso e cresce cresce sempre, e copre tutto e tutti , il brusio idiota, l’incoscienza borghese, l’incapacità di capire che è vita; un canto fantastico intonato sulla frequenza dell’amore e della libertà d’amare, e tutto questo è stato vita, più acuta e luminosa della luce sui suoi capelli bianchi, così pochi così fini; più vera di tutti gli slogan che la reclamano e la inventano; è stato possesso dolce imperativo delle altre due spalle, delle mani vicine, dei loro respiri; compagni di cerchio, cerchio compatto e oscillante, dove il corpo riempiva ogni spazio e dava tutte le risposte, e tutta quella gente intorno non esisteva più, era, ma era tutti gli altri abbracciati, nel cerchio magico e la parola d’ordine era sempre e soltanto amore, un nome nuovo per un altro pezzetto di vita che non conoscevo, e che ora ricerco e inseguirò e la racconterò perché si possa trovare; sì perdio fumate, fumate tutti, non è stata la mia voce a gridarlo, ma le mie viscere musicali, tutti i muscoli e il sangue fusi in una danza leggera, che mi portava un ritmo diverso; è stato il ritmo scoperto finalmente nella voce lontana del fiume, è stato il suo sguardo variopinto che mi ha saziato di comprensione, è stato quell’improvviso caldo che dentro ha sciolto tutto il ghiaccio, e le montagne di dubbi e paure, che ha ridato forza nella lotta di vita, abbracciati e stretti senza vedersi, solo toccandosi e stringendosi; è stato un palco di coriandoli e vecchi tappeti che spandevano la loro polvere, felici d’essere lì con noi, sotto il cerchio dell’amore; e poi è stato un continuo di sensazioni mute o urlanti, dense di dolore e paura, davanti ai loro finti cadaveri, alla loro realistica bava, alla loro bravura di attori; attori di vita recitata godendo e facendo godere, dandoci i vostri occhi, i vostri corpi nervosi e la carica d’amore sotto i riflettori. E’ stato il bisogno stridulo di dire basta quando la scena era di morte e la realtà superava la finzione, è stato quel grido acuto infinito, che tagliente come un rasoio, mi era penetrato nei polmoni recidendo le corde tese poco prima, ma era finzione e monito, era guardatevi idioti cosa siete o cosa sarete, e noi siamo così, venite. Era un grande abbraccio senza confini.
    Per me quella sera del 31 Ottobre, al Living rappresenta una specie di catarsi, meglio di qualsiasi palla da fumato. E le sensazioni provate iniziano a lavorare nel mio intimo, in attesa di essere apertamente espresse. Ritorno a credere nell’importanza dell’esempio eclatante di una filosofia non violenta, più che nella ricerca dello scontro fisico, anche se ogni volta che Oliver racconta alla sua maniera, specie il mio spogliarello, io debbo rintuzzare o fare finta di niente i vari commenti dei compagni, salaci per non dire ironici.

    da “Però, quante ne ho passate!” Living-cap.5-3 1969

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