“Passatempi parigini” di Stephen Leacock: un’ironia squisitamente yankee
Nel primo racconto, Leacock narra delle difficoltà che incontra un turista yankee che a Parigi si ostina a parlare un buon francese.
Nella capitale francese la lingua dei locali è diversa e si chiama patois, un dialetto poco comprensibile. Io sono di Reggio Emilia, una città dove si parla un vernacolo asèe (assez) simile al francese.
C’è quella freddura di quei due miei concittadini che, incontrandosi per caso da quelle parti, si salutano col consueto modo arşân, che tanto meraviglia chi non è abituato allo strano humour di noi cosiddette tèsti quêdri, come ci definiscono i non arşân: “che t gnèsa un càncher, cme stêt?!”, “bèin! e té, fâcia ròta, cme t la vàla?!”. Ovviamente nessuno dei due intende né augurare un brutto male all’amico, né giudicarlo persona da poco: si tratta di esclamazioni tipiche del nostro vernacolo.
Dopo una mezz’ora di chiacchiere, uno dei due salta su e dice: “Ma scusa, siamo a Parigi, che è sicuramente una bella città, ma noi siamo italiani!, e allora perché ci ostiniamo a parlare in francese?” In effetti il nostro idioma è una lingua decisamente francofona.
Quella appena raccontata è una storiella che ha un umorismo non dissimile da quello di Leacock.
Nel secondo racconto, egli finge di sorprendersi come, all’ombra della Torre Eiffel, un intero popolo campi sulle mance dei turisti: “La spina del turista parigino è la perpetua necessità di elargire piccole regalie a una schiera di valletti immaturi troppo pigri per andare a spaccar legna.”
E arriva al paradosso: “Per cinquanta centesimi si piegherà così tanto da rompersi. Se gli dai un franco, si stenderà per terra e ti leccherà gli stivali. So che lo farebbe, ne ho visti farlo.”
Il lettore accetta, ma solo per scherzo, l’esagerata finzione. Nessuno al mondo si spaccherebbe la schiena per così poco, perché costerebbe di più aggiustarla, a prescindere dall’annessa sofferenza. E non credo sia ammissibile credere che in una qualche parte del mondo qualcuno che tanto si umilierebbe per un misero franco. Il pensarlo, però, desta ilarità.
L’autore dice anche che: “dà una mancia al cameriere che la serve al costo di un cent per ogni mezz’ora di servizio, e lui, immagino, più tardi, dà a sua volta la mancia a qualcuno, e così via senza fine.”
Si deduce pertanto che il fenomeno non riguarda solo il turista, ma gran parte del genere umano (parigini compresi). “In questo modo, a Parigi, circa cinquantamila persone riescono a sbarcare il lunario, dandosi la mancia a vicenda.”
Non credo però che questa sia l’origine della scrittura di Leacock. Ne intuisco forse un’altra, che ancora non mi è del tutto chiara.
Nel terzo racconto, egli spiega che: “nel mondo del lusso parigino, il cane surclassa totalmente l’infante.” Anche in questo caso c’è l’analogo arşân: quando uno è ben vestito si usa dire che a pêr al cân d’un sgnôr, sembra il cane di un signore. Questo indica l’amara verità che, nel nostro mondo fondato sull’ingiustizia, vale di più a chi si appartiene, che l’essere e il valere di per sé.
Una persona che vive da solo, tiene di più al proprio cane che al resto dell’umanità; triste, ma indiscutibile fatto. Ed è anche ricambiato, per cui lo stesso favoritismo gli rende il piccolo e peloso carnivoro, che lo aspetta ogni volta scodinzolando, e che ringhia agli altri cani, più che agli umani.
Il libro edito da Mattioli 1885 è composto da tre sezioni, la prima delle quali, Passatempi parigini, dà il titolo alla raccolta.
C’è poi l’altrettanto esilarante Incidenti Comuni, storie di ordinaria e straordinaria umanità e, infine, un racconto terrificante e quasi orrido che narra i maltrattamenti subiti da uno scrittore che vorrebbe pubblicare un suo racconto in una rivista.
Si tratta forse del brano più cattivo, nel senso di cinico, fra tutti. Ma è anche quello che mi permette d’intuire qualcosa a proposito del senso del libro che sto esaminando.
Pavese diceva, nel Mestiere di vivere, del contadino a cui una tempesta a secco distrugge il raccolto, a cui forse pare consentita la bestemmia, essendo umanamente comprensibile la sua necessità.
Differente è il discorso di chi impreca per vizio, o per alienazione sociale, come succedeva nelle caserme che frequentai qualche decennio fa e dove ne esisteva solo una sola, di imprecazione, sempre quella, che era diventata per alcuni un intercalare inconsapevole.
Diverse sono le condizioni e le responsabilità dei due tipi di trasgressori del comandamento biblico di non nominare invano il nome di Dio. Il contadino lancia la sua bestemmia nei confronti di quel Dio che gli ha causato un danno troppo grande, mettendo in pericolo la sua sopravvivenza e quella della sua famiglia.
Il soldato risulta invece un miscredente, poiché pronuncia il nome di un Dio che non esiste affatto nella sua testa, nel suo ingiuriare involontario. Similmente egli, altrettanto meccanicamente, gira e rigira il suo girocollo identificatore.
Una volta scorsi un neo congedato che continuava a rigirare a vuoto il dito, ormai sprovvisto di quell’assurda catenella. Ma sarà poi vero che lo vidi?
Dio, quando sarà, se sarà, a seconda che esista oppure no, saprà, alla fine dei tempi, decidere i vari casi di blasfemia. Al che mi viene in mente un altro celebre detto in patois arşan: che ciavèda ciàpen i frê se n gh ē mia al paradȋs.
Mi pare che, se voglio portare a compimento la mia analisi, devo ricorrere sempre ancora al patois arşan, in particolare a un detto che usava dire mia mamma, quando le cose non andavano nel senso giusto, un diverso modo di reagire al male, che è fatto di stoica rassegnazione, e che si esprime nel celebre (almeno dalle mie bande) proverbio: pianșer fa trȋ e réder fa trȋ.
Nella vita il male, in tutte le sue sfaccettature, aumenta la sua virulenza, quando fa scaturire da se stesso dell’ulteriore male. E questo vale anche per quell’incomunicabilità che sorge fra le persone, a cui si può reagire inveendo contro il prossimo, oppure prendendola a ridere.
Leacock usa in dosi massicce l’arma dell’ironia che etimologicamente deriva dal greco εἰρωνεία (eironeia), che significa dire il contrario di quel che si pensa, al fine di intendere qualcos’altro ancora, in cui invece si confida.
Questo vale in genere per tutti i motti di spirito di tutte le lingue. La finzione che ne deriva è utilizzata a costruire una complessa verità. Il mondo è quello che è, facciamocene sì una ragione, ma parliamone, non per risolvere in una volta i problemi del cosmo, ma per tentare ad hoc un intervento che sia di natura interpretativa.
Tale è la positività che mi è parso di cogliere leggendo gli undici brevi racconti di Stephen Leacock.
Written by Stefano Pioli