Meditazioni Metafisiche #16: Filosofia della trasformazione

Nel suo divenire l’uomo intesse una trama di relazioni con il passato e il futuro.

’Aitareya-Brāhmaṇa, page 1, folio 3a, Schoenberg Center manuscript, Penn Library
’Aitareya-Brāhmaṇa, page 1, folio 3a, Schoenberg Center manuscript, Penn Library

Tutti noi abbiamo delle spinte regressive, che ci riportano all’origine, alla madre, al paradiso beato e onnipotente del grembo, e spinte progressive, che ci spingono a diventare realmente noi stessi staccandoci dai condizionamenti del tempo trascorso.

In definitiva l’uomo cerca in sé stesso la verità di ciò che è realmente. Non sapendola perfettamente, vuole trovarla in un modo o nell’altro.

Non per nulla l’Aitareya-Brāhmaṇa (I, 6, 6) dice esplicitamente che “gli dei sono fatti di verità” (satyasaṃhitā vai devāḥ), mentre Śatapatha-Brāhmaṇa (I, 1, 2, 17) che “gli dei sono la verità, gli uomini sono l’errore” (satyaṃ devā anṛtaṃ manuṣyāḥ).

In filigrana questa antica dottrina trova espressione anche nel Corano (23, 71): “Se la verità seguisse il filo delle loro passioni (walawi ittaba’a l-ḥaqu ahwāahum), ecco che cielo e terra e i loro abitanti si troverebbero nei guai. Noi invece gli abbiamo fatto giungere il richiamo, il loro richiamo”.

L’eterno adolescente cerca sé stesso nel passato, invece la persona matura la cerca nel futuro.

La costruzione della propria identità è come squadrare una pietra. Lo scalpello incide nella roccia e toglie quanto non è necessario. Il passato va in gran parte eliminato, altrimenti non ci fa essere noi stessi. In parte va portato a maturazione.

L’uomo deve guardare all’avvenire nell’orizzonte di tutti gli eventi che succedono nella storia personale.

Nella letteratura ittita si incontra una proposizione: ašān=at iyanun=at, “ciò (è) vero, l’ho fatto”. La prima parola è il participio neutro del verbo essere, che vale “esistente”, quindi “vero”. La storia personale è un fare in conformità a quanto già esiste per portarlo a compimento.

Nel mito abbiamo una “realtà vivente”, vale a dire un tempo eternamente presente. Nella storia abbiamo un tempo che riconosce un progresso, un prima e un dopo.

La concezione classica della storia è circolare, un eterno ritorno, come il serpente che si morde la coda: un tempo ciclico che ritorna sempre su sé stesso. Invece la prospettiva biblica è lineare: c’è un progresso che dal passato porta a una meta futura.

Tutti noi abbiamo in mente quella frase del libro dell’Apocalisse per cui Cristo è detto l’Alfa e l’Omega. Una lettura occidentale direbbe che Cristo è l’inizio e la fine. Ma i semiti pensano in un’altra maniera.

Alfabeto ebraico
Alfabeto ebraico

L’Apocalisse è stata scritta da semiti, quindi è più probabile che essi pensavano in termini più congeniali alla loro cultura di appartenenza. Alfa e Omega sono la prima e l’ultima delle lettere dell’alfabeto greco, invece la prima e l’ultima dell’alfabeto ebraico sono Alef e Tau. Queste due formano la parola ebraica ‘emet, “verità”.

Per la mentalità ebraica la verità è quando si realizza il fine, cioè la salvezza. Quindi quell’ebreo che scrisse l’Apocalisse voleva dire che Cristo è il Salvatore del mondo, espressione che compare anche nel Vangelo di Giovanni.

In ogni prodotto culturale umano si può intravedere questa tensione tra i due poli: il passato e il futuro. Lo studio degli antichi, delle lingue morte, risponde a un archetipo ben preciso. Dai sumeri alla stele di Nora, la più antica testimonianza scritta del Mediterraneo, in scrittura fenicia, datata attorno al 950 a. C. Ma dall’altra parte molte persone si dedicano anche al futuro, alla tecnologia, al progresso tecnologico dell’umanità.

Tutte le cose possono essere studiate in una maniera più analitica e in una maniera più sintetica. Il pensiero analitico è quello materno, il pensiero sintetico è quello paterno. Il primo è attento ai dettagli e ai processi settoriali, cerca di sviscerare la struttura profonda di una singola realtà. Invece il pensiero sintetico fa schemi generali e cerca di unire dati provenienti da un campo più esteso di indagine.

Un conto è studiare una lingua nella sua storia (linguistica strutturale), un altro è studiarla nel confronto tra altre lingue (linguistica comparata).

Prendiamo le lingue semitiche.

Ogni lingua ha una sua storia ben precisa: il grammatico storico la ricostruisce dal passato al presente. La lingua ebraica presenta una propria struttura, per cui in ebraico biblico avevamo kashèr, “corretto”, che verrà poi ripreso nell’ebraico moderno. Però, da un altro verso, i linguisti fanno anche delle comparazioni tra lingue. Nello yiddish (lingua germanica parlata dalla maggior parte degli ebrei stanziati in Europa centrale e orientale) la lettura del qames si estende a O e l’accento si ritrae, quindi abbiamo kòsher. Questa nota parola ebraica viene ricondotta all’accadico kasaru, che ha vari significati, tra cui “ricostruire, riparare, seguire, completare, restituire”. A volte l’uso dei parlanti unisce più lingue in maniera arbitraria.

Perché gli angeli sono spesso raffigurati come bambini? Anche perché nella tradizione ebraica essi compaiono raramente da soli, quindi abbiamo di frequente il plurale “cherubini” (cherub-im in ebraico, cherub-in in aramaico) oppure “serafini” (seraph-im, seraph-in); questi plurali sono stati reinterpretati in Europa come fossero diminutivi in -ino (bello, bell-ino), di modo che si pensava che gli angeli fossero piccoli come bambini.

La stessa teologia delle varie religioni, che è un approccio al sacro, può essere di due modi. Nell’Occidente cristiano si pensa che la fides da sola non basti, quindi il teologo si approccia con l’intellectus fidei, cioè cerca di comprendere razionalmente la fede. Invece nell’Oriente cristiano i teologi sono più mistici e meno razionali.

King Solomon - Paintin by Gustave Doré - illustrations for the Book of Proverbs
King Solomon – Paintin by Gustave Doré – illustrations for the Book of Proverbs

Come espresso chiaramente nel Marganitha, capolavoro della letteratura siriaca e uno dei testi più importanti delle chiese orientali, Dio non può essere inquadrato dalla ragione. Nel poemetto 6 delle Odi di Salomone, scritte originariamente in siriaco e quindi forse la prima testimonianza della letteratura siriaca, la conoscenza che si ha di Dio è connessa non a istanze razionali ma amorose:La conoscenza di sé il Signore ha accresciuto; nel suo zelo cercò che fosse conosciuto ciò che nella sua bontà ci ha dato”. La ragione risponde a un archetipo paterno, sociale, emisfero sinistro, invece la mistica è collegata a un archetipo materno, interiore, emisfero destro.

Hegel vedeva nell’atteggiamento fideistico di Schleiermacher la fine del primato della religione cristiana sulle coscienze: per Schleiermacher la fede non può essere intesa dalla ragione. Secondo Hösle (Il concetto di filosofia della religione in Hegel), questo atteggiamento fideistico caratterizza il concetto moderno di teologia, che è a-loghia, impossibilità di dire qualcosa di razionale sui contenuti della fede.

La ragione discorsiva esprime la forza virile, invece l’emozione e il sentimento sono più femminili. Apollo aveva la cetra ma anche l’arco. Mosè Maimonide, filosofo ebreo del Medioevo, unì la tradizione ebraica con quella greca e ne uscì un’opera intitolata Mishneh Torah, in 14 volumi.

In ebraico 14 si fa unendo la lettera Yod (10) con la lettera Dalet (4), che formano anche la parola “mano”, per cui questa opera di Maimonide viene detta in ebraico Yad Hazaqa, che significa Mano Forte. 

È che non esiste una umanità in genere. I 12 segni zodiacali rispondono a tipi umani molto differenti tra di loro, per cui anche Jung si serviva di loro per capire la personalità dei pazienti. Oggi la psicologia si serve dell’enneagramma, 9 tipi di personalità. Anche somaticamente le persone differiscono tra di loro, non solo su base etnica ma anche anatomica e fisiologica.

Cusano (Le Congetture II, 10, 122) scriveva cheè necessario che ogni spirito differisca da ogni altro spirito e che ogni corpo differisca da ogni altro corpo. Non vi è, tuttavia, nessuna differenza senza concordanza. Per questo motivo, è necessario che ogni spirito concordi e parimenti differisca da ogni altro. E questa concordanza e differenza tra gli spiriti non può essere uguale”.

Noi viviamo nel tempo.

Abbiamo una storia da cui nasciamo ma dalla quale dobbiamo allontanarci per evolverci. Fromm nell’Arte di amare sosteneva che noi nasciamo da una madre, la quale è la natura. Gli animali restano circoscritti alla natura, ma l’uomo non può restare fuso con essa, pertanto deve diventare autonomo. Questo processo procura sofferenza perché l’uomo si ritrova solo. E la solitudine è il più grande problema dell’umanità. Sempre secondo Fromm, il modo migliore per staccarsi dalla natura eliminando anche la solitudine è l’amore.

Lo stoico Crisippo (B.f 509 von Arnim) diceva chequello che si coglie come presente, sia per un aspetto futuro e per un altro passato”. Ora, il passato non è più e il futuro non è ancora, noi abbiamo come fulcro per la nostra realizzazione solo il momento presente: dobbiamo guardare al passato per imparare e al futuro per capire a cosa tendere.

Il filosofo medioplatonico Attico (secondo la testimonianza di Eusebio) sosteneva che Platone e Aristotele non dicevano la stessa cosa riguardo lo scopo e la felicità. Per Platone essa deriva dalla virtù, ma per Aristotele no. Ora, Attico asseriva: “La differenza dello scopo implica necessariamente che sia differente anche la filosofia che vi conduce. Infatti, seguendo un’unica via, quella che conduce per sua natura a uno scopo piccolo e meschino, non si possono raggiungere obiettivi più alti, collocati tra le vette”.

Enneadi - Plotino
Enneadi – Plotino

Noi dobbiamo sviluppare ciò che è conforme alla nostra anima, portando a compimento la nostra natura più vera. Plotino (Enneadi IV, 7.2, 8.23-27) rimproverava i pitagorici perché credevano che l’anima derivi dal disordine e quindi nasce per caso.

Invece noi siamo guidati da un destino che Hillman chiama Daimon, come quello di Socrate. Siamo nati dal grembo di una donna, poi dobbiamo rinascere alla nostra più autentica esistenza attraverso un percorso interiore.

Nell’Avestā, il testo sacro dello zoroastrismo, vi è il ponte Cinvat, che unisce terra e cielo e che solo un grande eroe può oltrepassare. Dalla caverna dobbiamo passare alla luce, dalla terra al cielo, cioè dobbiamo individuarci e divenire noi stessi esseri di luce, simbolo del cammino di perfezionamento, che ci allontana dalla tenebra della ignoranza e del male. Nell’induismo il Puruṣa, l’Uomo Cosmico, è rappresentato come una luce (jyotis), simbolo della Conoscenza perfetta.

Il dio indiano Yama “tiene e trattiene” (questi sono i significati della radice sanscrita YAM) l’uomo entro i limiti della materia e quindi dell’ignoranza. Per questo solo l’uomo che ha sviluppato la conoscenza è il salvato dalla morte e dall’errore.

La nostra capacità di conoscere noi stessi e il mondo che ci circonda è una caratteristica che deriva dalla nostra identità con Dio, come vogliono le filosofie indiane. La Parola (in sanscrito vāc) è detta da una mitologia “acque” (āpaḥ). Secondo altri, come le acque sono a fondamento dell’universo, così lo è la Parola. La ragione discorsiva, cioè razionale, dipende dalla parola nella sua forma umana, invece la ragione intuitiva, che sviscera il Fondamento, dipende dalla Parola come ipostasi divina.

Secondo il noachismo, l’universo deve essere portato a perfezione attraverso il perfezionamento degli uomini. Il nostro compito su questa terra è seguire la via della virtù, della conoscenza e, attraverso il duro lavoro, conquistare la nostra perfezione. Gli esoteristi dicono che in ciò si attua il passaggio alla Quarta Dimensione, che non sarebbe un luogo a parte ma coinciderebbe con l’anima che ha sviluppato le proprie capacità.

Il mistero dell’universo (Macrocosmo) è che esso coincide con l’uomo (Microcosmo). Quindi se l’uomo diviene perfetto sviluppando la propria anima nella conoscenza, diviene perfetto anche l’universo.

Questo mistero era indicato allusivamente dagli antichi. Il pitagorico Petrone diceva che i mondi sono 183, disposti in figura di triangolo, sessanta per lato e tre agli angoli. Il ripetersi del numero 3, che indica perfezione, è stato interpretato come il simbolo che l’universo è perfettamente compiuto. E nei Misteri Eleusini a volte compariva il numero 3 perché l’iniziato raggiungeva la perfezione della sua prima origine divina: la parte finale del rito, segretissima ancora oggi, conteneva 3 elementi che nessuno avrebbe mai dovuto dire. Nello shintoismo il candidato deve passare per 3 Torii, tre gradi, così come il tempio ha 3 Torii, Cancelli, da oltrepassare prima di essere introdotti alla stanza principale.

In definitiva la perfezione del realizzato o dell’iniziato sta nell’abbandonare la via praticata dalla maggioranza degli uomini. La strada della realizzazione è elitaria. La vera conoscenza non è praticata dai più, che versano in quella Doxa di cui parlava Parmenide o in quella Caverna di cui parlava Platone.

Per i Padri della Chiesa il peccato è una “dimenticanza” di Dio. E, secondo Massimo il Confessore, il vero peccato consiste nell’accettare il pensiero del mondo: ciò che è virtù per il mondo è peccato per il monaco, e viceversa.

Per la tradizione ebraica la colpa è allontanarsi dalla volontà di Dio. Nei testi di Qumran “colpa” (‘šm) e “peccato” (ḥṭ’t) sono parole utilizzate in parallelo per dire che sono la stessa cosa dal punto di vista teologico, anche se i sacrifici per espiarli erano diversi (e a ciò serviva il Rotolo del Tempio). Dato che la tradizione cristiana si innesta per alcuni versi su quella ebraica, possiamo concludere che la vera volontà di Dio, trasgredendo la quale si commette peccato, è che l’uomo si allontani dal mondo. In Giovanni il termine greco kosmos, “mondo”, assume la connotazione del principio intrinsecamente malvagio dal quale il cristiano deve fuggire.

Marco Aurelio
Marco Aurelio

Avestā (Yašt Ardvahišt 3):La santità è il migliore di tutti i beni”. Anche la riflessione pagana è in linea, infatti Proclo (Teologia platonica I, 3, 16) così scriveva: “E questa è la parte migliore della nostra attività, kai touto esti to ariston tēs energheias: nella quiete delle nostre facoltà elevarci verso il divino stesso, danzarvi intorno, riunire senza posa tutta la molteplicità dell’anima in questa unificazione e, tralasciate tutte quante le cose che vengono dopo l’Uno, kai panta aphentas osa metà to en, porci accanto ad esso e stabilire un contatto con esso che è ineffabile e al di là di tutti gli enti”. L’imperatore filosofo Marco Aurelio (Pensieri III, 5) consigliava:Non essere né chiacchierone né troppo occupato”, mēte polurrēmōn mēte polupragmōn eso.

Questa vita terrena è una preparazione a quella ultraterrena, quando, liberi dai vincoli della materia e dalla corruzione dei valori del mondo che sono i vizi, vedremo Dio così come Egli è. Gregorio di Nissa (Sull’anima e la resurrezione 160): Una volta purificate e scomparse tali passioni, grazie alla sollecita cura che è opportuna, con la terapia del fuoco, subentrerà, in luogo di quei difetti, ciascuna di quelle corrispettive realtà che si concepiscono in senso positivo: l’incorruttibilità, la vita, la potenza, l’onore, la grazia, la gloria…”.

Scoto Eriugena (Divisione della natura III, 704 B) scriveva:Nessuna cosa è buona di per sé, ma è buona nella misura in cui partecipa di quel bene che è in sé bene sostanziale”, nullum enim per se bonum est, sed in quantum bonum est, partecipatione illius boni, quod per se solummodo substantiale bonum est, bonum est. Il mondo si ritrae dalla volontà di Dio, quindi diviene intrinsecamente malvagio. Per cui è colpevole chi segue il mondo.

Nelle religioni la colpa/peccato fonde spesso idee quali fare qualcosa di proibito, sbagliare, mancare ai doveri del culto. È significativo che in accadico la terminologia specifica esprima questi tre significati fondamentali, rispettivamente: ikkibu, kaṭû, gullulu.

L’induismo riconosce cinque sentieri per ottenere la liberazione: yoga, ritualità, amore per gli altri, conoscenza, teurgia. Tutti quanti sono praticati da pochissime persone. Sono adombrati tutti nelle varie Upaniṣad: secondo alcuni sono tutte vie considerate valide da questi testi della rivelazione vedica, secondo altri le Upaniṣad pongono la preferenza sulla conoscenza.

Però il fulcro della realizzazione spirituale dovrebbe coincidere con l’amore: verso Dio, sé stessi e gli altri.

Oracoli Caldaici (fr. 39):Il Nous paterno nato da sé stesso intuì azioni, e in tutte le cose inseminò il vincolo dell’amore gravido di fuoco, perché infinitamente amando permanessero tutte, e ciò che fu ordito dalla luce noetica del padre non crollasse. In virtù di questo amore, gli elementi del cosmo permangono, menei kosmou stoicheia, scorrendo via”.

Meditazioni Metafisiche #16
Meditazioni Metafisiche #16

Il colto vescovo del VII secolo Isidoro di Siviglia (Etimologie XIII, III) scriveva che i greci chiamano stoicheia gli elementi “in quanto convengono gli uni con gli altri in virtù di un’armonia che viene loro data da una certa affinità e comunione”. Tale armonia risponde certamente a qualcosa che pervade tutti gli elementi, che è l’amore di cui parlavano gli Oracoli Caldaici.

Nella letteratura vedica più antica il sostantivo smara significa sia “amore” sia “memoria”. Se noi amiamo qualcosa, ce ne ricordiamo e lo poniamo a fondamento della nostra vita in vista della realizzazione. Solo ciò che suscita il nostro amore più autentico viene da noi accolto per la nostra vita. Nel trattato indiano di poetica di Bhoja il sostantivo sanscrito śṛngāra indica la capacità di provare desideri, di avere interessi e di fare progetti.

 

Written by Marco Calzoli

 

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