“Neurobiologia del tempo” di Arnaldo Benini: il sole (e tutto il resto), mezzo secondo dopo
Non tarda, Benini, a presentare le sue tesi, e lo fa già dal primo capitolo: “La temporalità è parte costituente della nostra natura, essenziale a essa. Il tempo è elusivo, non si vede, non si tocca, non si annusa, non si ode come si fa con un suono, nondimeno la coscienza lo sente (non lo percepisce) come parte di sé.”
Un fatto pare assodato: “Il tempo è un prodotto del cervello.” E fu Hermann von Helmholtz che “scoprì la latenza obbligata e inavvertita del cervello tra stimolo nervoso ed effetto.”
Nel medesimo capitolo l’autore inizia a tessere una filippica contro i fisici, accusandoli di non aver mai esaminato la natura del tempo. Lessi, a suo tempo, Breve storia del tempo di Hawking, L’ordine del tempo e Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio? di Carlo Rovelli, e The end of time di Julian Barbour. Ora non ho tempo di riprenderli in mano, né ho voglia di farlo. Ma non credo che effettivamente si siano mai nemmeno sognati di affrontare il tema del tempo dal punto di vista di un neurobiologo. Probabilmente, altri erano i loro interessi.
È un problema irreale, oppure è un problema di classe.
Un po’ come quando Rubbia, nel falsificare i lavori di Fleischmann e Pons sulla fusione a freddo, dapprima disse che i loro rimarchevoli errori erano da giustificare in quanto essi non erano scienziati. Poi si corresse, peggiorando la contumelia, dicendo che erano chimici, e non fisici, e perciò non in grado di misurare correttamente gli effetti del loro esperimento.
Essendo una polemica poco interessante non ne parlo ulteriormente. Mi limito a dire che questo è l’inevitabile risultato di una ricerca scientifica talmente frastagliata e divergente, per cui fisici e chimici, sperimentali e teorici, einsteiniani e quantistici, modellisti e looppisti sembrano appartenenti a diverse etnie eternamente in dissidio fra di loro.
Il consiglio che darei a un qualsiasi scienziato è sempre lo stesso: tir innanz, ed anche non ti curar di loro, ma guarda e passa.
“L’autocoscienza è sorta con lo sviluppo dei meccanismi dei lobi prefrontali del cervello”, cosa che ci differenzia dagli altri primati superiori.
Non si è ancora compreso come gli stimoli fisico-chimici “diventino eventi coscienti una volta raggiunte le aree frontali, che reagiscono con uno scoppio di elettricità, non si sa.”
Del resto “non riusciamo a distinguere la materia vivente da quella non vivente benché siano entrambe composti dagli stessi corpuscoli…”
“Von Helmholtz chiamò la latenza fra stimolo e contrazione muscolare temps perdu, tempo che esiste ma che è perduto per la coscienza (e quindi per la memoria) perché non percepito.”
Il padre di Proust era “un eminente medico esperto di colera”, per cui, dice Benini, “non c’è prova, ma non è inverosimile, che quell’espressione così insolita sia giunta a Marcel dal padre.” Dubito fortemente del fatto, ma non lo ritengo impossibile.
“Mach si rese conto, anche se non ne parla esplicitamente, dell’insopprimibile ritardo della coscienza rispetto all’accadere degli eventi che ne sono il contenuto.”
Eugène Minkowski “distingue due aspetti del tempo: uno spaziale e oggettivo e uno personale.” Il primo è misurato dall’orologio, dal calendario, il secondo dall’affettività dell’individuo. Il senso soggettivo del tempo “è il traliccio fondamentale della nostra psicologia e del nostro rapporto con la realtà, con il quale si dà un senso al corso degli eventi della vita.”
Il quinto capitolo c’illumina sull’illusione del presente, attestando che la nostra consapevolezza ritarda di circa mezzo secondo sulla percezione di quanto accade. Questo ritardo si somma al tempo in cui noi possiamo scorgere gli oggetti, piccoli o immensi che siano: otto minuti per vedere il sole, perché tanto ci mettono i fotoni a trasmetterci la sua immagine, più mezzo secondo di ritardo cerebrale per averne piena coscienza. Mi chiedo se anche Tex Willer sia in questo ritardo, Qualora ci fossero delle eccezioni, alcuni sarebbero certamente favoriti in un eventuale duello con le colt. Nell’attesa di altre verifiche sperimentali, consiglio vivamente di farcene una ragione: dovrebbe essere un handicap condiviso.
“Il ritardo neuronale tra l’evento della stimolazione sensoriale e la coscienza di esso è chiamato da Libet retroactive referral time, cioè rimando retroattivo del quale non si ha coscienza e, quindi, che non entra nella memoria.”
Tutto questo però reca la conferma: il tempo psicologico esiste, essendo ritardato di almeno cinque decimi: “Chi nega il tempo ignora le prove affidabili della sua realtà.”
Il saggio di Benini sicuramente apre la mente di chi lo legge, sia pure con mezzo secondo di ritardo. Ad esempio quando dice che il senso del tempo “presenta tre aspetti: la stima della durata (cioè del presente che scorre), dell’attesa e dell’ordine di successione di eventi.”
Dice Ernst Pöppel che “il tempo potrebbe essere una realtà troppo complicata per i meccanismi cognitivi che la indagano…”, sulla scia di Francis Bacon che ammoniva che “la sottigliezza della natura supera di gran lunga la sottigliezza del senso e dell’intelletto.”
“Il senso del tempo è un intreccio flessibile e variabile di razionalità, memoria, senso del corpo e affettività.”
Il tempo “è creato nel cervello, senza che al suo interno esista un organo circoscritto del senso del tempo.”
Tutto è relativo: “due ore passate accanto a una bella ragazza, si racconta dicesse Einstein, sembrano due minuti.”
Io ho esperienza di due fatti, in cui il tempo mi è sembrato dilatarsi all’infinito: l’ultima settimana di naja e gli ultimi sette mesi prima della quiescenza lavorativa.
La serie di considerazioni in coda al capitolo a Julian Barbour mi pare ingiusta, se non quando l’autore dice che il libro del fisico inglese sulla fine del tempo non è di agevole lettura. Egli poi “parla di molte cose di fisica del tempo e mai di ciò che è il tempo.”
Rinuncio per pochi minuti all’intenzione di non inserirmi nella polemica, richiamando anche un passo del primo capitolo: “la bellezza della matematica sarà tanto maggiore tanto più reale sarà la sua visione della natura.”
Caro Arnaldo, anche per banalizzare, le riporto un detto reggiano: ôgni cajòun gh à la so passioun. Ogni coglione ha la passione che gli consente lo sviluppo dei meccanismi dei lobi prefrontali del cervello, per dirla con le parole giuste.
Julian Barbour, Lee Smolin, Carlo Rovelli limitano la loro appassionata ricerca non al tempo inteso nel modo che tanto appassiona lei. Rovelli afferma che, senza la variabile tempo, le equazioni matematiche risultano più corrette. Del libro di Julian ricordo che il tempo risultava non tanto un fardello inutile quanto un dato errato da evitare. È come portare a mano una pesante valigia di osmio, dopo averla colmata di assurdità.
Quando “il fisico Albert Einstein e il matematico Hermann Minkowski, all’inizio del XX secolo, concepirono il tempo come quarta dimensione dello spazio” hanno compiuto una logica matematica funzionale a un’idea fisica, al fine di rappresentare concettualmente una serie di fenomeni che esistono e che in tal modo rinvengono una loro identità fisica, che è confermata dalla sperimentazione.
Il tempo è un’entità ineffabile. Ognuno, dal suo punto di vista, mirato e limitato, ha la facoltà di tradurlo come meglio crede. Questo vale sia per l’uomo della strada che per lo scienziato. Entrambi possono e in un certo senso devono dare un senso temporale a quello che intendono rappresentare a se stessi e agli altri.
Lo stesso succede per la biologia, e lo afferma lei stesso: nessuno ci può spiegare perché un’aggregazione di interazioni particellari e di molecole complesse diventi Leonardo da Vinci, e un altro si trasformi in un politico sbruffone e un altro nel Monte Bianco. Così è, se vi pare. Il mondo è bello, non solo perché è vario, ma perché permette una serie quasi infinita di visioni particolari, di relativismi speculativi che forse sono tanti quanti gli umani interessati alla conoscenza del mondo esterno.
Lei potrebbe, se si sofferma un attimo ad ascoltarsi, anzi, dovrebbe sentire una consapevole affinità tra il suo approccio scientifico e quello di Julian Barbour, ed entrambi dovreste essere riconoscenti dell’opera altrui, quando è ispirata da un’analoga passione speculativa. Ed ora, per essere veramente pedante, le ricordo che kam’a indica in sanscrito la passione, e da tale vocabolo derivano le parole amico e amante, ed è qui che va cercata l’energia necessaria per ogni forma di gnoseologia.
Del settimo capitolo, colgo soprattutto la differenza fra Government Time e Personal Time. Il GT è quello prodotto dal cervello mediante una sua invenzione, l’orologio, che tenta di rendere quanto più stabile e (relativamente) certa la misurazione del tempo (interessa il fisico quando è tale). Il PT è il tempo soggettivo e personale (psicologico), inevitabilmente variabile (interessa il fisico quando è un uomo). L’autore definisce assoluto il GT, ma sarebbe più appropriato definirlo generale, di tutti, convenzionale, oppure relativamente assoluto.
Nel resto del capitolo sono esaminati vari accadimenti temporali, in relazione a vari fenomeni, ad esempio quello musicale. Un pensiero mi ha colpito: il quarto tempo della nona sinfonia di Mahler “è molto diverso se suonato in 28 minuti con la direzione di Claudio Abbado o in 15 minuti con quella di Bruno Walter.” Ognuno ha il suo relativistico modo di sentire il tempo.
L’esperienza del tempo è l’argomento dell’ottavo capitolo: “il chirurgo non ha il senso dello scorrere del tempo; 2 ore possono sembrare un minuto. Dopo l’ultimo punto di sutura, riparte il senso del tempo normale.”. Tutto questo dipende dalla concentrazione dominante riversata sugli atti che deve compiere, senza distrarsi affatto dall’ambiente esterno.
Nel nono capitolo lei insiste: “la fisica ha unito spazio e tempo e nega la realtà del tempo.”
Mi permetto di contraddirla, prof: alcuni fisici teorici affermano che in talune loro equazione la variabile tempo non serve; mentre in altre, è collegata ad altre grandezze, fra cui la gravità.
Il secondo principio della termodinamica è legato alla freccia del tempo, per cui l’entropia, il disordine cosmico, cresce con esso. Non le è perciò consentito dire che la fisica neghi la realtà del tempo, semmai che non la sappia gestire con certezza.
Per quanto riguarda l’unione fra spazio e tempo, e della connessa gravità, l’idea einsteiniana funziona, senza che si capisca perché. Come già sottolineava Newton ormai le teorie fisiche sono comprovabili, ma inesplicabili.
In Il mistero sotto i nostri piedi – L’enigma della gravità, opera che le consiglio di leggere, Richard Panek afferma: “… Newton conclude che non c’è necessità di sapere come funzioni la gravità. Sappiamo che funziona perché possiamo vedere i suoi effetti, possiamo derivare la sua matematica, possiamo giungere a leggi che possiamo generalizzare all’intero universo.”
Non arrivo a dichiarare né a pensare che la neurobiologia sia una materia semplice, ove le risposte sono univoche e certe, dopotutto anche un neurobiologo è un homo sapiens sapiens inscius, ma sono certo che lei, che dimostra una conoscenza abbastanza elevata della fisica, non possa non comprendere che essa combatte in arene che a volte non ci sono, oppure che non sono rilevabili, come ad esempio lo spazio di Planck, dove non sono ammesse previsioni. Tutto questo non capita, per fortuna, almeno per il momento al tuo campo d’indagine. Il matematico, fisico e cosmologo Roger Penrose ha esemplificato una serie di stranezze al momento ineffabili, che egli chiama Z misteri.
Nel decimo capitolo, colgo una frase stimolante: “La nostra percezione, di regola multisensoriale, è l’integrazione (veramente perfetta) delle informazioni provenienti dalle varie modalità sensitive.” Lei parla poi di varie compressioni della percezione del tempo di origine esistenziale, e la esemplifica nei versi petrarcheschi:
“… pensando al viver mio, nel quale
stamani ero un fanciullo e ora sono vecchio.
Che più di un giorno è la vita normale?”
Non meno icastico fu il nonno di mia moglie, di Pixuntum (leggi Pisciotta, SA), che un giorno fu sentito lamentarsi: Riterza iucava a strummulu, e mu me su fattu viecchiu: l’altro ieri giocavo con la trottola, e ora mi son fatto vecchio.
Nell’undicesimo capitolo lei descrive l’approccio sapiente che in natura esiste con il tempo, lo spazio e il numero. Esempi mirabili, quelli delle formiche e delle tèrmiti contadine, dei colibrì della coda rossa e di altri simpatici animaletti. Il capitolo è uno dei più godibili dell’intera opera.
Il dodicesimo capitolo riguarda Il senso del tempo durante il sonno. Al fine di ricordarmi il senso di quanto esposto, cito due fra i casi da lei indicati.
“Per 6 settimane un marito doveva somministrare alla moglie ogni 2 ore un medicamento senza il quale lei sarebbe stata in pericolo di vita.” L’amorevole coniuge riuscì nella sua missione. Conoscendomi, essendo affezionato alla mia consorte, l’avrei immediatamente affidata a una clinica.
“Una conferma che il meccanismo del tempo è attivo durante il sonno è la capacità di molte persone che vengono svegliate di valutare con uno scarto inferiore ai 15-20 minuti che ora sia.” Mi piacerebbe sapere se questi signori siano i soliti volontari, oppure dei suoi familiari che (obtorto collo) abbiano accettato di essere sottoposti a sperimentazione.
Il capitolo successivo parla delle deformazioni della consapevolezza della misura del tempo in caso di malattie, per lo più tumorali. Essa varia in aumento o in diminuzione a seconda del caso, anche in proporzioni notevoli. Quello che mi resterà maggiormente dei casi riportati è la descrizione della cosiddetta “sindrome del neglect”, che probabilmente (idea personale, non dell’autore) colpisce il 96,3% dei parlamentari PD. Occorre leggere l’opera (o almeno il tredicesimo capitolo) per capire la battuta.
Quasi all’inizio del quattordicesimo capitolo lei ribadisce: “il tempo è un contenuto della coscienza creato da meccanismi cerebrali.” Poi continua la polemica, in cui ormai ho deciso di intervenire, contro la fisica: “E perché i fisici teorici, che negano il tempo sulla base di equazioni, continuano da oltre un secolo a ignorare (non a confutare, si badi bene) i dati della neurobiologia sul tempo, che si riferiscono non a equazioni ma a eventi reali?”
Qui mi va di ribadire l’allegoria della valigia di osmio. Io non credo che i fisici, da Einstein a Rovelli, neghino nella loro professione il GT, né nella loro vita privata il PT. Le riporto una frase che lei ha scritto nel settimo capitolo: “Carnap racconta come Einstein, a Princeton, gli avesse che il problema del now, del presente, lo angustiava seriamente.”
“Se il tempo non esiste, come sostiene la fisica…” – questa frase è certamente vera se riferita a Rovelli e a Barbour; ma non a Catalina Curceanu, prima ricercatrice dell’Istituto Nazionale di fisica Nucleare di Frascati. Per cui, credo, sia il GT che il TP abbiano un valore importante sia nella sua vita che nella sua professione.
Chiarisco: non sono uno scienziato, semmai l’analogo dello storico che, armato di binocolo, assisteva alle battaglie dal pallone aerostatico. Questo m’impedisce di capire compiutamente ogni singolo fatto, ma non di aver una visione globale del fenomeno descritto.
“Il tempo, di cui la fisica si occupa illudendosi di espellerlo dalla realtà, è la creazione del sistema nervoso per dare una dimensione del reale, presente in tutto il mondo reale. Per le neuroscienze è impossibile capire cosa significa che il tempo è deviato dalla forza di gravità di un buco nero e capire in virtù di che cosa esso si fermi alla velocità della luce.”
L’incapacità del neuroscienziato è la stessa mia, e alla luce di quanto riportato da Newton, nessuno è in grado di capire quel che ciò voglia dire esattamente. Ora le ripeto la frase di circostanza di poco fa: facciamocene una ragione…, ma aggiungo: “al momento…”
La domanda che ci si deve porre è: si tratta di una teoria di tipo religioso oppure scientifico? Su questo i dubbi calano, pur senza svanire del tutto: mi pare si tratti di una teoria falsificabile, quindi scientifica.
Lei definisce la fisica quantistica “una disciplina che esclude il tempo dalla natura”, e riporta l’ennesima affermazione di Smolin che “l’eliminazione del tempo non è una visione profonda della realtà, ma la conseguenza del metodo della fisica di selezionare frammenti dell’Universo in un subsistema di studio.”
La fisica non esclude affatto il tempo della natura, salvo gli esempi suddetti (Barbour e Rovelli ed epigoni), ma lo contempla come un mistero. Sto parlando del GT. Per testare la deformazione del tempo sono stati usati degli orologi atomici posti su un aereo supersonico. È notevole che uno scienziato come Smolin, accortosi dell’incongruenza, abbia il coraggio intellettuale di porre il problema. Come anche Bell, di cui lei riporta l’affermazione in cui si pone seri dubbi sui risultati della fisica “per la completa assenza, negli esperimenti esistenti, del fondamentale fattore tempo.”
Il problema esiste e non è risolto. Io credo, ma non ne sono certo, che anche Barbour e Rovelli mantengano dentro di sé l’ipotesi di un piano b (temporale), perché non credo siano così supponenti di essere certi al 100% di tutte le loro teorie.
Notevole è l’onestà intellettuale manifestata dalla fisica Sabine Hossenfelder, di cui lei riporta il concetto “che i fisici teorici sono responsabili del vicolo cieco in cui la fisica delle particelle è finita, per aver cercato e preferito la bellezza delle equazioni alla loro corrispondenza con la realtà. Il tempo è stato eliminato dai fisici perché t disturbava l’eleganza delle loro equazioni.”
Anche su questa frase, cercherei di sentire la controparte. La Hossenfelder, che io sappia, è una fisica teorica che studia, come Rovelli, la gravità quantistica. La sua dichiarazione potrebbe però rappresentare una specie di autocritica costruttiva.
Lei ribadisce: “Secondo Smolin, l’errore capitale, a partire da Einstein, è la negazione del tempo, sostenuta non con lo studio della realtà, ma con i risultati di equazioni.”
La fisica, contrariamente alla neurobiologia, non prevede volontari. Se anche ci fossero, non sarebbero ligi come i suoi. Se si spara una particella, non si sai mai dove arriverà: altro Z mistero. L’ultimo suo tratto di strada prevede una probabilità ricavabile unicamente da un’equazione. Stesso dicasi per altri fenomeni, quali l’energia oscura, la materia oscura, il buco nero, l’eventuale buco bianco che, secondo Hawking e Smolin, si formerà nell’Al Di Là Del Tutto. Esiste anche la faccenda delle particelle virtuali, che forse non esistono, ma che servono nei calcoli. Il tutto pare come un’escamotage, che però ha il buon gusto di funzionare!
Per tentare di capire (anzi, di carpire) tutto questo non rimane quindi che la matematica (e l’immaginazione). Non mi pare che i fisici teorici siano degli esteti, nemmeno gli stringhisti, che maggiormente insistono sulla bellezza delle loro equazioni. Né credo che sia mai esistito un fisico teorico sano di mente che abbia eliminato una variabile per motivi edonistici.
Sempre teoricamente, è stato individuato il tempo di Planck, cioè il tempo che un fotone ci mette a percorre lo spazio di Planck. Su questi due concetti si può solo dire che sono le massime minimità del cosmo. E null’altro. Sono cifre, valori ipotizzati, non dati dimostrati sperimentalmente. Sulla loro eventuale realtà non è possibile formulare alcuna ipotesi scientifica (e sono ardue anche quelle religiose).
Come si vede, il concetto di tempo non è andato perduto, in fisica. È soltanto ammucciato. “Per Smolin, l’eliminazione del tempo a opera della fisica, con equazioni e ignorando la realtà, è un’illusione.”
Certo, c’è, per dirla con Schopenhauer, un velo di maya che ammuccia la realtà. Questo, diciamo a Reggio, l’è pôch ma sicûr.
In GT e in PT “i meccanismi nervosi del tempo collocano l’esistente”. Io sono rimasto al cartesiano cogito ergo sum, a cui però aggiungerei un fortasse.
La dicotomia che c’è, a suo dire, fra fisica e biologia sul tempo, è immotivata. Ponga il caso che Rovelli giunga a convincere il mondo (e lei) che il tempo assoluto non esista, ma che si tratti di una misera finzione culturale; non credo che cesserebbe la necessità della neuropsichiatria, ove predomina il TP, ma che una grande importanza, nella rivelazione dei risultati, è data dal GT.
Aggiungerei, a questi due Tempi, un terzo, che potrebbe essere falsificato, senza inficiare gli altri: il tempo assolutamente assoluto, di natura pressoché divina, anch’esso ammucciato, all’interno di quel che non prevede l’interno, che non è il tempo e nemmeno lo spazio di Planck, che in qualche modo l’uomo è riuscito a intuire.
Prima del suo Finale, le racconto una freddura, che in fondo se la merita.
Cocuzzolo dell’Himalaya. Due santoni immobili e taciturni. Cielo terso per trentasette anni dietro fila. Finché, timida, s’affaccia all’orizzonte una nuvola. A uno dei due atarassici scappa detto: Potrebbe anche piovere!, il che dopo un’ora accade puntualmente. Passano altri quarantadue anni. E l’altro risponde: Vabbè, c’hai preso! Ma se sei venuto qui per rompere le p…, puoi anche andartene!
Quindicesimo capitolo: nel commiato, le scappa l’ultima citazione del solito Smolin, a cui credo stiano fischiando le orecchie: “La fisica, per Smolin, si perde in drastiche approssimazioni della realtà, vittima di un’autoreferenzialità che l’ha portata in un vicolo cieco in cui si trova da anni.”
Essa non dà certezze, ma i suoi risultati tendono alla precisione e all’accuratezza, senza mai sperarla di massimalizzarla. Ciò rende i fisici consapevoli della loro inadeguatezza. Probabilmente in loro sorge il pensiero: se siamo approssimati noi, che abbiamo delle equazioni così linde e pinte, immaginiamoci i neurobiologi!
A parte gli scherzi, frequentando vari studenti di fisica nei gruppi social, ho notato una certa alterigia da parte di alcuni, ma non nella maggior parte di loro.
Per fare un confronto, amico caro, ti sei mai rapportato a un paracadutista della Folgore?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Arnaldo Benini, Neurobiologia del tempo, Raffaello Cortina Editore, 2020
Info
Plotino, Enneade III “Eternità e Tempo”
“Diario intimo” di Henri-Frédéric Amiel: il tempo è un movimento dell’eternità
Biografia autore by Il Libraio
Arnaldo Benini (Ravenna, 1938) è docente di neurochirurgia e neurologia all’Università di Zurigo ed è stato primario di neurochirurgia alla Fondazione Schulthess di Zurigo. Ha pubblicato saggi su Mieczyslaw Minkowski (di cui ha tradotto il saggio sull’afasia dei poliglotti), su Vesalio, sulla fisiologia del dolore di Cartesio, sul medico napoletano D. Cotugno, che per primo ha descritto la sciatica, su Oliver Sacks. Ha curato l’edizione italiana di due libri di Karl R. Popper. Ha scritto saggi sull’eutanasia nella coscienza del medico, sui problemi etici della genetica e sullo stato vegetativo permanente. Inoltre sul giovane Benedetto Croce, su Thomas Mann, su Jakob Wassermann (di cui ha tradotto l’autobiografia) e sulla questione ebraica nella Germania del primo dopoguerra.
Invitato a commentare, scrivo. Tutte le volte che qualcuno prova a spiegare il vissuto (temporale in questo caso) con le categorie oggettive delle scienze naturali (qui la fisica e la neurobiologia), si finisce in un ginepraio di aporie. Il perché di questa fine va ricercata nell’operazionalismo e nella filosofia delle pratiche.
Riesci a sintetizzare con parole semplici il tuo pensiero?
Nella fattispecie ho rilevato un problema di accettazione, quasi di comprensione, da parte di un pur valente neurobiologo delle teorie della fisica. I quali nemmeno si sognano di interpretare il tempo da un punto di vista neurobiologo. È questa specie di disarmonia fra due scienze così preziose che mi stupisce e mi ha fatto reagire. Grazie.
Conosco il libro di Benini ed è molto interessante. Si colloca all’interno di un filone di ricerca che ha tra alcuni precedenti illustri neuroscienziati come Libet (penso ad esempio a Mind Time, che Benini ha ben presente). Dal punto di vista dei presupposti epistemologici il saggio ha certo qualche punto debole. Ad esempio, la prospettiva di Benini è quella di un parallelismo pisico-fisico alla Spinoza che tende però verso il riduzionismo, in quanto nella relazione coscienza-cervello l’autore privilegia la materia (il cervello) e sembra considerare la coscienza del tempo come mero epifenomeno di processi materiali. Tuttavia, come molti neuroscienziati – e di questo non gli si può fare una colpa perché esula dal suo campo di indagine – non si pone il problema di come sia possibile che processi materiali (in questo caso lesioni in alcune zone cerebrali o disfunzioni elettrochimiche) possano produrre fenomeni coscienziali. Si tratta del vecchio problema ereditato dalla filosofia moderna, ossia come un fenomeno quantitativo (un’alterazione del funzionamento del cervello) possa generare un fenomeno qualitativo (un’alterazione della percezione del tempo). Come dicevo, Benini non affronta il problema, ma, visto che ha cercato di dare al suo testo anche un taglio filosofico, avrebbe forse dovuto confrontarsi almeno con alcuni dei filosofi che hanno tematizzato la questione. Penso ad esempio a Bergson o Raymond Ruyer. Inoltre, un altro punto che Benini non prende in considerazione è il rapporto evento-tempo. Anche ammettendo che il tempo sia una costruzione del complesso cervello-mente, è evidente che senza gli eventi mondani non potrebbe esistere nessun fenomeno di temporalizzazione. Il tempo, come temporalità della coscienza, temporalizza gli eventi, gli incontri tra il nostro corpo e l’ambiente. Anche questo aspetto che dalla prospettiva di un scienziato può sembrare scontato, da un punto di vista filosofico è invece importante. Gli eventi del mondo sono in sé atemporali e siamo noi a temporalizzarli (come pensava ad esempio Spinoza) o seguono una logica temporale diversa accessibile solo al linguaggio fisico-matematico? Ma il linguaggio fisico matematico non è pur sempre un linguaggio umano che è figlio di quella temporalità che vuole provare a spiegare in modo oggettivo? Comunque, ripeto, queste debolezze del testo di Benini sono presenti in tanti testi di neuroscienziati famosi. Anche in Gazzaniga o in Edelman si trovano gli stessi problemi concettuali. Tuttavia questo genere di ricerche mi sembra comunque molto stimolante per la riflessione scientifica e filosofica.
Grazie, Salvatore. Molto interessante quanto hai scritto