“Il teatro e il suo doppio” di Antonin Artaud: la crudele magia della Verità
“L’arte non è l’imitazione della vita, ma la vita è l’imitazione di un principio trascendente col quale l’arte ci rimette in comunicazione.” – Antonin Artaud
S.P.: Quando parlavo goffamente di “religione dell’arte” intendevo questo. L’arte è quel luogo sacro dove l’uomo si incontra con il divino. Sto leggendo “Il teatro e il suo doppio” (Einaudi, 1972) di Antonino.
Lettore: Come ti è capitato tra le mani Artaud?
S.P.: Il libro mi stava aspettando da un paio d’anni su un mobiletto del corridoio. Sto intanto leggendo la lunga prefazione di Jacques Derrida.
Lettore: Nulla a che fare con quello che intendo io con l’arte… Mi sembra che sia ormai un autore superato.
S.P.: Se Carmelo e Antonino potessero risponderti dal luogo dove non sono o dove sono in modo infinito, ti direbbero che tutto il resto è superato. Questi due fenomeni hanno distrutto tutto come solo Shiva poteva fare. Ora ci sarebbe bisogno di un Visnù!
Lettore: Artaud subiva il fascino della filosofia orientale. Il binomio che hai indicato non mi pare corretto. Il vero rottamatore fu Joyce, che distrusse l’amato Bene!
S.P.: Già te lo dissi a proposito di un altro caso. Quando dico che due Esseri si somigliano, non intendo in toto o in gran parte, ma almeno in un quid…
La prefazione mi ha conferito molta energia, che è però al momento indefinita.
Quando il pensiero di Antonino, riportato da Jacques, parla di unicità del fenomeno teatrale, io mi so dare finalmente la risposta sul perché non accetti l’idea di rileggere un libro. Perché non riesco a convincermi che l’atto della lettura sia ripetibile.
Ognuno di noi è un unicum, ma un fenomeno, non un noumeno. E tutto il mondo lo è, fenomenico e non noumenico. E il fenomeno Stefano che lesse quel fenomeno libro non è ripetibile.
Questo dovrebbe permettermi di rileggere l’opera ex novo, ma non ci riesco, poiché non ce la faccio ad accettare che lo Stefano che nel 1982 lesse Arthur e colui che scrive queste stupide righe non sia la stessa persona. Non lo è, ma non so farmene una ragione. Intellettualmente lo so, ogni cellula di quel corpo, a parte qualche miliardo di neuroni, si è rinnovata, e mentre scrivo questa mutazione è ancora in atto, ma intellettualmente, umanamente, che brutta parola!, ahimè necessaria!, non mi convincerò mai!
Di taluni libri sento in me ancora l’energia verace che mi trasmisero. Forse, più di tutti, “Tutte le poesie” di Arthur. Finché il movimento non si placherà, non avrà alcun senso rileggerlo daccapo.
Ma ogni tanto scendo a Pixuntum, dove ce n’è un’edizione economica, a cui manca la copertina. E me la riprendo in mano e rivado ogni volta al mio incipit preferito: “Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino, in cui si schiudevano tutti i cuori, scorrevano tutti i vini. Una sera, ho preso la Bellezza sulle mie ginocchia. – E l’ho trovata amara. – E l’ho ingiuriata. Mi sono armato contro la giustizia. Sono fuggito. Streghe, miseria, odio, a voi è stato affidato il mio tesoro! Io riuscii a cancellare dal mio spirito ogni speranza umana. Su ogni gioia, per strangolarla, ho fatto il balzo silenzioso della belva feroce.”
E che dire invece dei tanti libri che ho letto e di cui poco o niente mi rimane? Penso che un giorno li rileggerò. Ma non so, non è fra le mie cogenze.
La mia nevrosi letteraria mi impone di scrivere su ogni opera le due date di lettura, quella di inizio e quella di fine lettura. Inoltre, alla fine di ogni giornata, indico con un asterisco e con una data il punto di scalata raggiunto. Forse è per questo che giudico, leggendo la vita di Antonino, che egli non fosse affatto malato di mente. Essa era lucida e per nulla obnubilata da false idee. Fra compagni di degenza c’è spesso solidarietà.
Quello che mi capita leggendo, lo provo anche nel visitare le città nuove. Desidero tornarci solo con le persone che amo e che non le hanno ancora conosciute, poiché mi parranno nuove nella meraviglia che spero di scovare nei loro occhi!
Un libro letto cessa di essere un libro, ma diventa una persona, la sua coscienza viva, la cui esistenza è trascorsa, insieme alla mia, per un determinato numero di giorni, e poi di anni, di decenni, e per tutta la vita. Non è più possibile per me immaginare la mia vita senza la presenza sempiterna di Guido, che quando uscì di casa vide dissiparsi il genere umano, o senza la tenace indifferenza di quel Mersault, cui quel genere non interessava più. Essi sono vivi e, al contempo, giacciono nelle loro tombe. I libri letti sono ormai dei cippi funebri, che testimoniano il martirio. I libri sono delle tombe, cioè gli oggetti più vitali e orgogliosi che esistano, più ricchi di pietas, che più inducono ad amare la vita.
Poco fa, mia figlia, conoscendo la mia innaturale inclinazione a difendere l’identità oggettuale dei libri, mi ha chiesto se, in caso di un libro da regalare, chieda di coprire con un pennarello il costo dello stesso. La risposta è, ovviamente, no. Il libro non dev’essere marchiato volontariamente. Ci penserà l’avventura umana del povero lettore a mutarne le forme. Molti fra i libri miei sono macchiati, spiegazzati, mal ridotti, ma ogni loro ferita è casuale, come le sbucciature al ginocchio che si procura un moccioso. Indica che l’esistenza di quel libro fu brigosa e interessante.
Ricordo con affetto i due testimoni di Geova a cui lessi, su loro richiesta, un passo biblico e che, notando il mio volume malridotto, fecero un sorriso e poi mi chiesero se l’avessi letto tutto. Sì, risposi, quando avevo diciassette anni. E ogni tanto lo riprendo in mano, aggiunsi, ogni qual volta mi viene un dubbio o una curiosità da soddisfare. Non credo che tanto interesse per il Libro per eccellenza alberghi nelle famiglie cattoliche, in genere assai ignoranti in materia.
Amo i libri usati, molto più che i nuovi, non solo perché più economici, ma in quanto hanno vissuto di più e in più luoghi ed hanno girato per più mani. Con interesse leggo a volte le dediche di sconosciuti ad amici altrettanto sconosciuti, oppure gli eventuali commenti e sottolineature. Non ho mai creduto che un libro sia un quid intoccabile, esso deve essere sfogliato, trasportato, manipolato, anche lordato da scritte, io per timidezza uso la matita, ed esso deve vivere con noi, dentro e fuori di noi! E, a volte, malgrado noi!
A questo libro mancano delle pagine, dissi alla signora che vendeva libri usati all’interno del Mercato Coperto. E lo riposi. Me lo dia, per favore, che lo getto! Non lo faccia, signora! Nessuno lo comprerà mai, capisce? Nessuno?, io sarò quel Nessuno! Fu così che salvai la vita a quell’essere!
“Abbiamo bisogno che lo spettacolo a cui assistiamo sia unico e che ci dia l’impressione di essere imprevisto e irripetibile come qualsiasi atto della vita… Ad ogni allestimento di spettacolo, è per noi in gioco una partita grave… Lo spettatore che viene da noi saprà di venire a sottoporsi a una vera e propria operazione, dove non solo è in gioco il suo spirito, ma i suoi sensi e la sua carne… Egli dev’essere ben convinto che siamo capaci di farlo gridare…”
Io sono arrivato ad odiare e ad augurare una morte fra i più atroci tormenti al mio maestro Henry, mentre leggevo il suo primo “Tropico”. Era già il mio maestro e già non lo sopportavo, pur amandolo come forse mai nessuno.
Tutto questo per rispondere al capitolo: “Basta coi capolavori” e alla frase: “La poesia scritta vale una volta, e poi sia distrutta.” La frase ha senso se è intesa nel modo: “L’energia di chi legge la Poesia deve bruciare all’interno del suo spirito.” Energia che si trasforma, ma che mai si ricrea.
Il teatro di Antonino è uno “spettacolo integrale” che obbedisce al “principio di attualità”, “vita che si rinnova attraverso la sensibilità attuale… di tempo come di luogo… Quel che cerchiamo è l’emozione interessata. Un certo potere di deflagrazione connesso ai gesti, alle parole. La realtà vista contemporaneamente al dritto e al rovescio. L’allucinazione vista come principale mezzo drammatico.”
Anche il libro, qualunque libro, lo è o lo può diventare. Il libro lo si legge qui ed ora e, dopo averlo letto, ti rimbalzano nel cervello le sue provocazioni, ancora scoppiettano i suoi piccoli e grandi mortaretti, che hanno in parte distrutto e in parte provocato la ricostruzione della tua anima, come invece capitò a quegli sventurati che portarono i soccorsi alla città di Messina nel 1909, che usarono maldestramente la dinamite per far crollare gli edifici, finendo per distruggere la città. Il libro ti provoca delle visioni. Mentre lo leggi, sogni, non sei in te. Il libro è ricco di icasticità, anche quando pare noioso e ripetitivo od ossessivo, come il “Tristram Shandy”, l’immenso ed incommensurabile, e infatti mai misurato completamente, capolavoro di Sterne.
Antonino vuole attori “coscienti”, non vittime del caso, ma fautori dello stesso, determinati a determinare, a giocare alla chiusura di ciò che non si può chiudere, a ripetere ciò che non si può ripetere. È un jeu de massacre necessario perché qualcosa possa significare “qualcosa”. È un errare che prevede anche l’errore, una ricerca che conduce da qualche parte. È in quella parte che, coscientemente, si deve andare. Tutto avviene solo se sorge, da un caso fortemente individuato, la “sorpresa”, base necessaria, secondo Poe, della creazione artistica. La coscienza dev’essere stimolata dalla violenza che sveglia e induce ad andare innanzi.
La medesima funzione sarà svolta dagli stupefacenti, qualche anno più tardi, alla fine degli anni ’50, presso il popolo beat. “Allargate l’area della coscienza!” strepitava lo strepitoso Allen Ginsberg.
Nella stessa “stupefacente” ambascia gioca, ognuno col suo ruolo, il regista, l’attore e lo spettatore. E l’autore? È stato dimenticato nel tritatutto, insieme a quella che Carmelo definiva, senza disprezzo, ma pragmaticamente, scrittura scenica. Eliminando le pastoie, formattando il testo, purificandolo, nettandolo cioè delle pesantezze verbali e letterarie, togliendo il superfluo, si crea il nuovo habitat della rappresentazione, in cui può finalmente crescere e riprodursi l’improvvisazione cosciente, anche alzando il tono ad un livello superiore al normale, perché qui l’unica norma è di non averne.
“L’intonazione è trovata all’interno, spinta all’esterno dall’impulso ardente del sentimento, e non ottenuta per imitazione”.
Il micillo che ci ha adottato recentemente, qui a Marina Campagna, digrigna giocosamente i denti, come usa fare la sovrana della foresta indiana, la Tigre. La differenza è che il gioco di questa fiera è tragico e inquietante. Il micillo fa “Mmmmmhhh” e a volte “Mmmiaaaaooooo”, la tigre fa “Aaaaaarrrrrggggh!”. Il primo fa sorridere, scodinzolando, e allieta, la seconda ti smuove la coscienza, preparando l’attacco mortale. Questo è, in sintesi, il segreto carpito da Antonino.
Egli diventa un ricercatore antropologo con fini terapeutici, quando propone all’Europa i suggestivi esempi del teatro balinese, così terrificante, o la musica taumaturgica degli Indiani d’America o degli stregoni africani, con la loro metafisica danza della pioggia, per giungere alla creazione di quel miracolo che è il teatro, che svolge una funzione che si assimila all’empatia che si produce tra i fedeli che affollano la città di Lourdes. “Una specie di suggestione collettiva capace di ricondurre, a lungo andare, l’ordine nelle coscienze, e insieme con l’ordine interiore una specie di pace esterna da cui trarranno giovamento tutti gli spiriti.”
Come scrive il caro Antonino? Lo ignoro, ma mi provoca l’insorgere nell’anima di un’energia necessaria e sufficiente a scrivere queste illazioni, fra cui l’ultima: se mi fossi chiamato Albert e avessi vissuto negli anni ’40, dopo aver letto il primo capitolo de “Il teatro e il suo doppio”, avrei scritto “La peste”!, orrida infezione, che colpisce il cervello e i polmoni e che, come il teatro, “è dunque un formidabile appello a forze che riportano con l’esempio lo spirito alla fonte dei suoi conflitti… Il teatro essenziale è come la peste… perché… è rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito.”
Quando, nel successivo capitolo, Antonino allude al teatro alchemico, si riferisce alla necessità di inserire nel corpo teatrale gli enzimi necessari per catalizzare le reazioni bio-chimiche che mutino l’essere di chi appartiene al fenomeno teatrale, regista, attori, pubblico. Solo in tal modo l’inerte opera potrà essere trasformata in oggetto artistico, capace di variare l’essenza del mondo. Tutto il resto pare ed è cosa vana.
Nel suo capitolo dedicato al teatro balinese, di cui ogni esegesi risulterebbe fiacca e inconcludente, per cui bisogna leggerlo e nient’altro!, l’autore insulta quello occidentale, definendolo balbettante. E tutti sappiamo che non lo è. Una delle opere messe in scene da Antonino è il pirandelliano “Sette personaggi in cerca d’autore”. Io non so cogliere una grande differenza psicologica fra le opere teatrali e quelle letterarie di Luigi. Ognuna, in effetti, poteva essere rappresentata, oppure letta, con poche ed opportune variazioni.
La scelta operata dal sommo agrigentino fu operata in base ad esigenze strutturali, funzionali, ma non spirituali. Ibsen non balbetta mai. E non lo fa Goldoni, né Moliere. Eppure, che il teatro occidentale possa essere un pur geniale balbettio privo di senso, lo prova Samuel, col suo “Aspettando Godot”. Ora che ci penso, ho letto integralmente i quattro geni del teatro greco, i cui nominativi è inutile indicare. Eppure, in tanti anni, ho assistito ad un’opera soltanto, “Le troiane”, all’interno dell’antica città di Elea, recitato e, soprattutto, mimato e fatto “esplodere” dalla compagnia di teatro itinerante di Nini Scolari, fantastica rappresentazione che senza il precedente di Antonino forse non sarebbe stata mai concepita. Terenzio scrisse le sue opere senza aspettarsene una rappresentazione. La scrittura era fine a se stessa. Il teatro balinese è assordante ed abbagliante.
L’autore non esiste più, essendo probabilmente deceduto da secoli, e il testo è incomprensibile e urlato. Quello che conta è ormai il gruppo di danzatori e il loro “regista”. Lo spettatore europeo soffre, soprattutto per la sua fatale ignoranza. Ne intuisce la grandezza, ma i suoi sensi sono ormai inerti e ottusi! Scorge i gesti, scruta i geroglifici degli abiti, avverte qualcosa di immenso e di eterno, ma non comprende granché. Però è sommosso. È spinto, suo malgrado, altrove. A inventare un teatro nuovo. A cercare di ricreare qualcosa dal pressoché nulla. Il teatro balinese stupisce, no, sconvolge lo spettatore con le sue “grida strazianti, gli occhi stralunati, la continua astrazione, il fruscio di rami, i rumori di legna tagliata e fatta rotolare – tutto, nello spazio immenso dei suoni diffusi in ogni direzioni e scaturiti da parecchie fonte, tutto contribuisce a far sorgere nel nostro spirito, e a cristallizzare una nuova concezione, che oserei definire concreta, dell’astratto.”
Gli opposti cessano di essere tali, il vuoto diventa pieno, il fuori è dentro, lo spirito è il corpo. È un unico doppio.
Antonino Artaud, tu riesci a interessarmi anche quando vaneggi, quando accomuni Arthur e Lautréamont al marasma di idee poetiche da rottamare. Ti prendo per il bavero della giacca e ti ingiurio, ti faccio violenza, affinché tu realizzi cosa intendo dire. Non esistono idee morte, ma idee che conducono alla vita ed anche alla morte, che della vita è il momento culminante, sine qua non la si capirà mai.
Tu affermi che occorre dire basta coi capolavori. Leggendo ho avuto parecchi fremiti, e te ne ringrazio, ma altrettanti, se non di più, a leggere il “Battello ebbro” e “Vocali” di Arthur, il quale, non dimenticare, non ha rottamato nulla, a differenza di te, ma col suo sacrificio ha reso santo e perfetto il suo grande predecessore, di cui ti ricordo solo il nome, Charles, ed anche il cognome, Baudelaire, ma non il codice fiscale, che non rammento.
Entrambi questi due ministri, cioè servi, del culto poetico, hanno reso l’umanità più infelice, ma più grande, un po’ come quello che tu hai tentato di fare. Senza di loro, non ci sareste stato un genio di nome Antonino Artaud, detto Nino.
I capolavori sono i punti di accoglienza, ma non di ristoro, bada bene, in cui noi viandanti della poesia troviamo un misero ricettacolo. Senza di loro il mondo sarebbe, non meno energetico, primo principio della termodinamica, ma assai più entropico, secondo principio della stessa. Ma concordo con te, caro Tonino, che un gesto di violenza fa maturare, a volte, più di un sorriso delicato, e a volte meno, però. Devo soltanto ringraziare i ceffoni e le righe sulle dita unite ricevute dal mio maestro Paoli, che oggi sarebbe inquisito e costretto al licenziamento per violenza ai minori. Grazie alla sua severità, mista a generosità, ho ampliato le mie conoscenze su tutto quel che si muove. Ed è grazie a lui che non fumo. – Non fumerò mai!, Maestro. – Promettilo! – Sì, Maestro! – E i suoi occhi duri mi sono rimasti attaccati al cervello tutta la vita!
Il teatro, caro Tony, dev’essere quello che tu suggerisci, e lo è in gran parte, oggi, grazie a te. È un pugno che viene dato per rinforzare i muscoli addominali, non per recare vomito. Lo è stato con Carmelo, più che con altri. Lo era poche ore fa, nella piazza maggiore di Pixuntum, con Enzo Avitabile e la sua tribù di scalmanati. Per tutta la durata del suo concerto, il mio corpo ha reagito ai suoi sapienti schiamazzi, alla chitarra napoletana, alla botte perforata da percuotere con la mazza, alla tamburriata ultra-energetica, mentre la mente coglieva di tanto in tanto qualche rara parola… Mare, mare, mare!!! Terra mia, terra mia, terra mia!!! Ho reagito per due ore, “scutuliandomi sano sano”, continuamente! Te lo ripeto urlandoti nell’orecchio, fino a farti uscire l’acufene: il teatro, la poesia, la pittura può essere questo, ma anche tanto altro! Può essere anche Sergio e il suo piccolo bambino che piange sommesso!
Finito or ora di leggere la raccolta di scritti di Antonino. Un bilancio? No. Sempre e solo una reazione.
Senza questo eterno ragazzo, mai del tutto cresciuto, sempre sull’orlo della malattia e dell’annegamento, non capirei Carmelo. Provo tuttora per questi, da sempre, quella venerazione che in genere si riserva ai santi. Hai capito mai qualcosa del suo “Riccardo III”, del suo “Manfred”? No. Ora, grazie ad Antonino ho capito che Carmelo non va capito, analizzato, ma assunto, coi cinque sensi spalancati. Carmelo è ingiustificabile. Senza di te, Antonino, ignoro se questo genio avrebbe trovato la sua strada. Non significa che egli sia il tuo continuatore, ma forse nessuno come lui ha gridato come tu desideri gridi un attore e ha fatto gridare come tu desideri faccia gridare un regista.
È grazie al suo urlo che ho fatto mio, ed è da allora una sacra parte di me, “Canti orfici” di Campana, che lessi svogliatamente qualche anno fa. Solo grazie alla Voce di Narciso di Carmelo sono riuscito ad assorbirlo. Questa, caro mio, è la prova che non potremo mai fare a meno dei capolavori, perché essi siano poi urlati e rimbombino per sempre, come un tragico acufene, nei nostri miseri padiglioni auricolari. Piangerei dalla rabbia, quando penso che Carmelo non potrà ormai più inocularmi il Verbo di Arthur. Mi auguro che un’altra Bocca Divina un giorno riesca in quell’intento.
Ti chiedo solo un’ultima cortesia, caro amico, mi spieghi i motivi del tuo orrore per gli spazi vuoti, per le assenze, che invece tanto onorano l’arte di Carmelo? Ma non lo sai, amore mio, che tu, Carmelo, gli attori, i geroglifici che affollano le loro antiche vesti, le vesti stesse, la scena ingombra di oggetti, e persino il sottoscritto, siamo vuoti al 99%, e che se il nucleo dell’atomo fosse un pallone messo al centro del campo di calcio, gli elettroni più vicini orbiterebbero in tribuna e quelli più lontani nel lontano stadio della squadra ospite?
Che, insomma, tutto il pieno che invochi è una mera e pia illusione?
E che quel che conta è dare un calcio qualsiasi a quel pallone qualsiasi? Ed ora, per finire, Buona Notte, caro!
“Non si può continuare a prostituire l’idea di teatro, poiché il suo valore risiede esclusivamente in un rapporto magico e atroce con la realtà e con il pericolo.”
Written by Stefano Pioli