“Ninfa moderna” di Georges Didi-Huberman: la demolizione in nome del progresso e del profitto personale
“Si vuole sapere, allora, fin dove la Ninfa è capace di cadere.”

Ninfa e cadere sono in corsivo: significa che sono simboli, cioè qualcosa che, gettato nel mucchio, ammuccia, ammucchia, mette insieme oggetti altrimenti separati.
La Ninfa è un essere velato come lo è la Verità.
Cadere significa scendere dall’alto verso il basso.
Non precipitare, ma scorrere verso una meta obbligata.
Si vuole sapere, allora, fin dove la divinità è intenzionata a venire da noi. Un residuo di Essa è quanto viene concesso all’uomo: “un cencio del tempo”.
Mi pare di leggere un romanzo. Se mi voglio ficcarci dentro, devo farlo subito o mai più. Subito.
Mettendo qualcosa, qualcosa devo togliere. Toglierò un po’ di Didi, e c’infilerò una parte dell’anima, dell’horcrux, di Pioli. Già che ci sono, trasformerò il Didi in Pioli, liberando un paio di fotoni, all’occorrenza.
“Il movimento della sua caduta è, insieme, sensuale e mortifero: finirà, è prevedibile, nel rifiuto e nell’informe.
È il destino degli esseri sopravviventi.”
Dei poveri Dei in dignitosa fuga, davanti all’unico vero Dio.
Una Dea sconfitta pare la Santa Cecilia di Maderno, che tiene il viso reclinato verso il basso, in attesa della decapitazione. La postura “costringe l’osservatore a collocarsi non davanti al sembiante o alla figura intera della santa, ma di fronte al tratto organico del suo sacrificio.”
Si tratta di un’opera miracolosa che ha a che fare con un presunto, e assunto, miracolo.
Il 20 ottobre 1599 fu rinvenuta una bara che conteneva le reliquie di una santa martirizzata quattordici secoli prima, con il suo corpo ancora intatto e intero.
Sembrava che stesse dormendo. Forse per non svegliarla, nessuno osò sollevarne il velo che l’ammucciava. Papa Clemente VII “ordinò di rinchiudere l’antica bara di legno di cipresso in un involucro argenteo disseminato di stelle.”
Si tratta di un miracolo come tanti altri, con una differenza: il suo spirito sarà eternato dall’arte di Maderno, capace di tramutare il mucchio informe di panni in una forma panneggiata.
L’arte ammuccia il reale, camuffandolo, ed eternandolo, dopo averlo ricoperto con delle vesti sacre.
Non importa attestare di nuovo il miracolo, non più rilevabile, sparito dalla contemporaneità. Non c’è più, il sarcofago non è più visitabile dall’occhio umano, solo dalla sua anima.
Comincia un viaggio immaginale, (di cui parla Ficara in “Andata e ritorno”), di una camminata che ha come fine il raggiungimento di un’idealità eterna, connaturata all’idea dell’arte. Quella sacralità non è più soggetta ad alcuna falsificabilità. Nessuno sarà autorizzato alla verifica di quanto videro quegli occhi pii. Ora ciò che si potrà ammirare è una forma scultorea al di là del tempo, in eterna ritirata, ma sempre presente alla vista di colui che visiterà la chiesa e cercherà il conforto di quella santità.

“Cecilia è rivolta al suolo e rinchiusa su se stessa…”. la sua è funzione è ammucciante, termine pixuntiano (anche siculo) che amo e che deriva dall’antico francese mucer, che significa celare alla vista (in arsan ha mantenuto solo quello di ammucchiare).
“Il panneggio gioca un ruolo preminente: fornisce l’operatore di conversione” di dati che appaiono contraddittori, che creano uno scambio fra gli opposti, che aggiungono dinamicità a staticità, mistero a vicinanza, in una visione leggera che non vuole affatto opprimere, che non si nega e che nemmeno vuol essere colta del tutto.
Sto tentando di tradurre con parole mie le idee dell’autore.
Assomiglia alla verità heideggeriana, che è fuggevole, quindi è.
Questa è la funzione dell’arte: creare un legame religioso tra un oggetto e chi lo sta osservando, con quel giusto senso di rispetto. Si chiede protezione alla santa e al contempo gliela si offre. È un rapporto che non sarà mai alla pari, ma che tenderà per l’eternità ad assimilare i suoi attori.
Dal nulla è riapparso, come sempre mi capita in queste occasioni, il più grande verso mai scritto (che è davvero un’affermazione fideistica): A thing of beauty is a joy for ever.
Un’immagine che val bene qualsiasi messa.
Una sorta di preghiera.
Si passa ora alla strada, il luogo più osceno e melmoso che ci sia, il luogo degli “scarti della Storia”. Via Adua, dove sono nato, due chilometri scarsi, è una strada dritta e alberata, ricavata un secolo fa grazie a una violenza umana fatta alla campagna innocente, diventando la via che porta alla strada vecchia per Correggio, per Gavassa e Budrio.
Fu eliminato brutalmente il vecchio, per far nascere il nuovo. Il vecchio è sopravvissuto soltanto in alcune fotografie ingiallite.
Il distruggere è economico, funzionale, imprescindibile.
L’alternativa è sovraccaricare lo spazio di tutti gli esistenti possibili. Alcuni devono essere eliminati, per necessità, ma nel frattempo si possono, si devono, salvarne le immagini. L’arte, la fotografia, ma anche la pittura, la narrativa, può cooperare in questo sogno salvifico, inutile come gli altri, ma essenziale.
Questo è il mio credo personale.
Quando ciò non accade, si compie l’ignominio di cui nessuno conosce, se non per intuito, i colpevoli. Né si ha piena consapevolezza della gravità del fatto.

In che voragine è scivolata la vasca dei pesciolini della mia infanzia, di fronte al Teatro Municipale?
Quale scempio è occorso (e siamo certi che è occorso?) alla scala barocca e marmorea del palazzo Basetti, che ora ospita il negozio H & M?
L’inclito palazzo nacque su un probabile disegno del Bernini: la Nemesis conosce bene la storia.
La verità è politicamente ammucciata.
Chi sa parli!
Analogamente, quattro secoli fa, uno scempio fu perpetrato quando si distrussero delle statue antiche, per soddisfare i capricci del Potere, perché Gian Lorenzo potesse fondere i suoi bronzei capolavori.
Ha un tragico senso affermare che qualsiasi luogo umano racchiuda in sé la possibilità di essere riciclato e diventare qualcosa d’altro molto differente.
Rientra nella logica prevista dal primo principio della termodinamica, per cui nulla si crea e nulla si distrugge, che presuppone il secondo, che indica la necessità del disordine cosmico, e il tragico terzo, per cui tutto si smorzerà a poco a poco, azzerando la temperatura di ciascun ente.
Ma nel frattempo è necessario salvaguardare la memoria del passato.
Dice l’autore: “Le sopravvivenze corrono ovunque; s’infilano in ogni recesso della storia, in quella dell’arte, ad esempio. Soprattutto esse agiscono negli ‘scarti della storia’: negli abiti smessi, negli stracci, nei brandelli.” Se la strada è testimonianza, non è meno degna di essere ricordata di quanto lo sia il monumento inclito, il Palazzo Reale, la Cattedrale.
Tutto è monu-mentum, atto della memoria. E nulla lo è in misura maggiore del resto.
“La strada, infatti, è un luogo dialettico vivente, palpitante, complesso, in grado di guidare i nostri passi o, al contrario di disorientarci, capace di presentarsi sotto l’aspetto della costruzione o, al contrario, della demolizione.”
Quel luogo che percorriamo quasi senza accorgerci della sua presenza, “la strada ha anche la sua archeologia specifica, il suo spessore storico, il suo humus di anacronismi.”
Chi ha dei dubbi vada a Pompei e giri in lungo e in largo i suoi vichi e le sue vie, dove il “tempo dialettico” lo sorprenderà ad ogni trivio.
Dove il presente vive del passato, e del futuro, e il trivio diventa spazio-temporale.
Tutto accade nel presente delle sopravvivenze.

Andando in via Emilia San Pietro, a Reggio, potevi scorgere l’antica via romana che portava lo stesso nome, dissepolta qualche metro sotto la strada, visibile attraverso un vetro.
Andavi.
Ora non più. Qualcuno con la Q insindacabile ha deciso di celare il passato.
Non potrà farlo, però, col futuro.
Esso è lassù, intangibile, e se non lo vedi, vuol dire che non t’interessa.
Alcuni valenti fotografi decidono di ritrarre la strada, puntando la loro attenzione su stracci, “mucchi di stoffa ripugnante”, dimenticando quel che ora è di moda, cercando di ri-valorizzare quel che è gettato, che è démodé. Quel che non serve più ha la possibilità di ri-diventare libero, di affrancarsi. Si tratta di oggetti liberti, svincolati dal bisogno, pensionati. L’orario diventa tempo infinito, illimitato.
“Valore anacronistico di cui l’‘Ora’ forse svelerà l’‘immagine intima’ per eccellenza.”
È un atto di fede non più sublime e miserando di altri.
“Il presente della strada sarebbe quindi l’immagine più viscerale di Ciò che è Stato…”
Altrove Didi cita Hugo (e io entrambi): “Il mucchio di immondizie ha di buono che non mente”.
Prima ha citato Baudelaire, per cui il canale di scolo “trasporta i segreti gorgoglianti delle fogne”.
Ora io cito solo lui: “Ecco l’antropoformismo della città-organo, ridotto alla dissomiglianza di una cosa che si rimescola, che riguarda gli uomini, ma che non ha forma umana.”
È un altro simbolo-madre, che possiede tutto “il suo effetto di intrusione o di disturbo.”
Il fango che risale sui marciapiedi “è la memoria che rifinisce”, che a lungo svanito (in realtà solo ammucciato), “risorge nel presente, sotto la forma… di un cencio, di un brandello, di uno straccio.”
La reliquia moderna: “un miscuglio tra l’impurità dell’alcova e l’impurità della morte.” Dove impurità significa fisicità della materia, quest’essere ognora transeunte e sudante, destinato alla continua perfezione e conseguente rinascita e ritorno alla sempiterna trasformazione di energia e di massa.
È quell’energia che ha entropicamente trasformato l’oggetto in pattume, che ora potrà finalmente essere utilizzato come opera d’arte. È anche un sintomo, dice Hugo, e lo riporta Didi e infine Pioli, di un male oscuro che cova di sotto.
“Il nostro ‘strofinaccio’” è “l’accessorio in movimento” come venivano definiti “i veli ondeggianti che avvolgevano le ninfe” (Warburg-Didi-Pioli).
Purtroppo non è sempre così, caro Didi. A Reggio qualcuno, due secoli fa, in nome dell’utilità collettiva, o di un suo profitto personale, fece distruggere le mura cittadine che, altrove, tanto rendono soave la città di Soave.
Un taxista messinese m’informò che il terremoto di inizio ‘900 distrusse assai meno di quanto fece la volontà iconoclasta dell’uomo, che ordinò di abbattere palazzi antichi che si potevano ancora salvare, in nome del progresso e di chissà quali interessi.
Chi si reca in Birmania può invece visitare paesi grandi come Bagnolo in Piano, adornati da decine di templi, ognuno fatto erigere dal sovrano di turno, che rallegrò il suo Io, senza distruggere il ricordo di chi l’aveva preceduto.
Guardare su ciò che si cammina: si tratta di un viaggio da fare a piedi. Come succede nell’immaginare, dove passo dopo passo i contorni delle figure si delineano, purché si adotti un passo umano e non macchinale.

Rinnstein di Moholy-Nagy: “La piastra del tombino, il getto del canale di scolo, il panno inzuppato formano, pur nella miseria del soggetto, uno stupefacente gioco d’artificio di ritmi e tessiture.”
Lo stesso mi capitò quando quasi calpestai un’opera d’arte tra Ercolano e Portici, poco dopo essere uscito dalla città romana. Sentii il bisogno di fotografare quello scempio chimico e in tal modo di eternarlo.
Tempo dopo mi diressi a Casaletto Spartano, ove ammirai la cascata detta “dei capelli di Venere”, e ne catturai senza esitare l’imago, che ancor oggi posso ammirare nella sua prodigiosa bellezza.
“Nessuna fotografia, per Franz Roth, può ridursi a una semplice ‘copia’ oggettiva della realtà. Ogni immagine è espressiva non foss’altro che per ‘l’angolazione, il campo inquadrato, la luce, ma soprattutto per il soggetto scelto.”
Di fatto tali caratteristiche ineriscono (verbo caro a Didi) sia al fotografo che all’oggetto catturato, che diventano correlati, entangled, come direbbero i fisici delle particelle.
Da non sottovalutare nemmeno gli effetti del principio d’indeterminazione di Heisenberg, per cui ciascuna osservazione muta la cosa osservata, e nessuna conoscenza è soltanto approssimabile.
Questo reca a una conclusione: il fotografo conosce solo in parte non solo l’oggetto studiato e ripreso, ma anche le proprie intenzioni, a sua volta mutate dall’oggetto.
Si tratta di un fenomeno dialettico, nella sua immanenza: “la cattura meccanica del mondo visibile dentro l’apparecchio fotografico non rinchiude niente di esso. Al contrario, esso apre enormemente il campo percettivo dei ‘godimenti tratti dalle cose’.”
L’evento, per accadere, richiede carburante, e questo non manca mai né al reattore, né al reagente. Io sto tentando di fotografare Didi e sto restituendo al mondo l’energia da lui spesa.
Per farlo mi occorre un catalizzatore, il pathos. Solo in presenza di esso, sarò espressivo, sarò sopravvivente e capace di far risorgere il passato.
“Moholy-Nagy definì con un termine preciso questo processo formale, produttore d’intensità espressiva o patetica: ‘contro-composizione’”: si tratta di un processo di entanglement favorito dal rinnovato incontro di due oggetti che mai furono separati, due enti venuti a contatto almeno una volta, ab origine.
Esistono, solo a metà, nel cosmo delle entità che non appaiono, né sono verificabili, ma che legittimano l’esistenza di ciò che esiste: sono virtualità che l’artista può percepire, che gli permettono di entrare in contatto e di interagire con l’Altro. Grazie a queste semi-particelle può accadere l’effettualità.
Non si tratta solo di spostare “il punto di vista” – con ogni sorta di rotazione, in particolare l’inversione dall’alto e dal basso, la negazione di ogni tipo di sguardo regolato sull’orizzonte – ma addirittura di suggerire la motricità che lo spostamento in quanto processo implica: non solo la visione spostata, ma addirittura la visione in spostamento. Ciò rivela il primato del camminare, la caccia dell’immagine aperta dal flâneur sui marciapiedi delle grandi città.”
Il flâneur, bighellonando, ri-crea ciò che va ri-prendendo mentre sta scorrendo via.
Non so se Didi si sia mai chiesto perché “Il centro s’apre, tutto cade a terra, a terra, a terra…”
Il tutto sembra cadere perché cade, perché esiste una forza attrattiva dal centro della Terra. Si chiama, credo, gravità.
Ed è lì che possiamo trovare ogni cosa: è il destino di ciascun ente. È il catomestôt, il ritrovarsi tutti quanti lì, presso quella singolarità da cui si uscì oltre sette mila milioni di anni fa.
“Ma la distanza è mostrata in modo che a noi sia reso sensibile il movimento di inclinazione dello sguardo – un clinamen della visione stessa – che s’accosta sempre più alla cosa.”

Clinamen è la deviazione spontanea degli atomi nel corso della loro caduta nel vuoto in linea retta, casuale, sia nel tempo sia nello spazio, e che permette agli atomi di incontrarsi e di correlarsi.
Così il fotografo-cacciatore esprime la vita interiore, non di sé, non dell’oggetto, ma del rapporto che viene a stabilirsi con l’oggetto ripreso-catturato.
Ho letto, ingurgitato e meditato il libro del filosofo francese. Che mi ha fatto reagire a ruota libera. Mi ero imposto delle regole, che sono saltate quasi subito. Avrei potuto sintetizzare le sue idee, ma erano troppe. Ho deciso di interpretarle, come farebbe Dylan Dog che cerca di stonare il meno possibile il Trillo del diavolo di Giuseppe Tartini.
Se rileggerò queste righe fra qualche anno, farei senz’altro fatica a dividere le mie idee e i miei viaggi immaginali da quelli di Georges Didi-Huberman. Mi auguro per lui un’analoga fatica.
Significherebbe che qualcosa sono riuscito a raccogliere della sua anima, e a tenere assai caro per tutta la vita, dopo essermi ammucciato in lui.
Fechner formula il legame che collega “la fotografia in quanto ‘registrazione della realtà immediata’ con quella cosa che egli chiama la ‘registrazione della realtà dell’inconscio’.”
Mi domando perché. Senz’altro si tratta di un incontro fra due immagini. Sono entrambe casuali e automatiche? Credo che dipenda dal fotografo. Riccardo Masoni dice di non lasciare nulla al caso, e che bisogna ritrarre ciò che si vuole fin dal principio vedere. Ma anch’egli è transeunte ‘n coppa a’ sta terra e soggetto al Dio più imprevedibile, quello che dona l’indeterminazione.
E poi: esiste davvero questo principio? Dipende da un evento interno o da uno esterno? O da un misto di entrambi?
La registrazione dell’inconscio necessita di alcune tecniche che solo a volte funzionano.
Le “cose che si trasmettono nelle sopravvivenze diventano, e ridiventano, sempre più impure.” Tendono “a decomporsi sempre di più”, diventando sempre più informi, diventando il motivo della correlazione fra umano e informe. Così ridotte ai minimi termini, diventano assimilabili, eternamente identici.
“Rifluisce la materia”, “rifluisce la memoria”.
Tanto più naufraga la coscienza, tanto più approda il simbolo nascosto.
Per Baudelaire, l’arte “ha ripreso la piega della morte”.
Si giunge poi all’agghiacciante frase “la morte come amico”.
Io diffido di questo apparente culto di Thánatos, ma lo rispetto, anche in ossequio al detto arsan: ôgni cajòun a gh’à la so passioun. Chi omaggia la morte non è meno coglione di chi venera la vita. La prima ha un pregio: è ferma, e facilmente riprendibile.
Ma essa non lo è, in effetti, in quanto un cadavere brulica di enti sempre più macroscopici che ne divorano la materialità, trasformandola in un oggetto non dissimile da quella ninfa caduta di cui si parlava, a quella Santa racchiusa dai suoi veli.
La morte consente un’apertura verso l’Altro, creando una confidenza che in vita non c’era. E non è mai definitiva, anzi, è in quello stato che il corpo evapora con più celerità la sua sostanza. Per cui diventa un essere in movimento, che però non scapperà più, essendo più facilmente gestibile, sia da qua che da là.
Solo allorquando Euridice, finalmente!, cessò di vivere, senza alcuna chance di agitarsi, ed agitare, in un modo imprevedibile, il povero Orfeo, egli modulò quel meraviglioso canto in suo onore.
Leggo con sorpresa le pagine che Didi dedica ai panneggi-travestimenti oppure del sudario, dello “straccio formato dal corpo stesso”, e non riesco ad aggiungervi nulla, tanto mirabili sono.
Vorrei tanto sapere, Didi, il significato del termine: restaurazione. Del perché di questa corsivazione interna.
Poco fa hai accennato al declino dell’aura, che “mantiene la sua possibilità di mostrare il suo volto luminoso quando la ‘bellezza misteriosa che la vita umana vi mette involontariamente’ nel più piccolo straccio di strada sarà ‘estratta’.”
La mia, più che una curiosità è una mezza provocazione. Tirem innanz!
Realizzare capolavori con quel che è socialmente o biologicamente concluso, diventa un coraggioso atto anacronistico.
“L’antico panneggio dei greci è caduto ammucchiato nei canali di scolo delle grandi città. Alcuni fotografati hanno amorevolmente raccolto la sua caduta senza abbellirla.”
La esibiscono com’è, “adottando il movimento della sua esuberanza formale.”

Come assomiglia, caro Didi, la foto di anonimo 1925, intitolata: Mucchio di pneumatici usati, a Untitled (Tangle) di Robert Morris, 1967.
Letto d’un fiato l’ultimo capitolo.
“… la storia stessa fabbrica i propri vuoti, le proprie lacune, le proprie censure.”
La storia è anche discontinua. Chi pensa che sia un continuum a regolarla e a determinarla è probabilmente affetto da una fede incurabile nella positività dello spazio-tempo.
Democrito intuì l’esistenza dell’atomo indivisibile, e la sua teoria non è stata ancora falsificata, semmai enfatizzata dalla scoperta di particelle sempre più elementari.
Inoltre, sotto un limite molto breve, e lo chiamano spazio di Planck, Nulla accade come noi riusciamo ad immaginare, Tutto è fuori di logica!, e forse Tutto o Nulla non accade proprio.
Di per sé l’esistente esiste a scatti, per cui la sua fluidità è illusoria, essendo avvolta da un velo che ben si confà a una ninfa: quello di Maya. Che fa credere che gli oggetti così siano come appaiono, mentre si riesce a scorgerne solo il manto che le ammuccia.
Quando ti poni il problema di cosa fare di questo “principio d’incertezza”, fingi di risponderti come fece la scuola di Copenhagen, di cui Heisenberg e il maestro Bohr furono le punte di diamante: “Procedere soltanto sul terreno verificabile, limitarsi agli enunciati sostenuti da fonti incontestabili, come se le fonti non fossero a loro volta passibili di revisione storica, se non di confutazione.”
Per cui “le ‘precauzioni’ di questi positivisti si rivelano, in questo campo, particolarmente disastrose. Per cui tu arrivi a definirli vili.
L’unica salvezza sta nel vivificare sempre di più l’esigenza della domanda, anche se non esiste una risposta che non sia diversa da quella filosofica.
Se le domande riguardano le immagini, a loro dobbiamo rivolgere la nostra attenzione.
Citi Baudelaire: “L’immaginazione è una facoltà quasi divina che coglie immediatamente, al di fuori dei metodi filosofici, i rapporti intimi e segreti delle cose.”
Jiddu Krishnamurti dice che bisogna cogliere la realtà come se fosse un cobra, senza costrutti e preconcetti, semplicemente osservandola, senza concentrazione, ma con attenzione, ma forse è meglio dire con contemplazione.
Panofsky: “occorre cogliere questa configurazione nella sua mobile globalità, nella sua realtiva indeterminazione.”
Ogni immagine contamina l’altra e la trasforma.
Parli di “funzionamento epidemico delle immagini”. Come le ciliegie, una tira l’altra, perché una assomiglia all’altra. Se l’intero cosmo è un unico frattale, tutto si assomiglia e nel suo intimo è celata la risposta alla domanda più grande, qualunque essa sia, ineffabile ma a cui ci si può continuamente approssimare.
Si tratta di una forza attrattiva simile a quella di un buco nero, che prima o poi catturerà il corpo incosciente, ma che a un osservatore esterno parrebbe per sempre immobile, come se il tempo si fosse bloccato.
“Il panneggio caduto ci parla dell’abbandono e del declino, quel particolare modo che hanno le cose amate di cadere al suolo.”

Vorrei tentare di entrare nella tua mente, caro, e chiederti: Perché sei così affascinato dai drappi, dai veli e da tutto quello che morbidamente racchiude e avvolge l’esistente?
Perché esso è esteticamente tenuto ad essere curvaceo e non lineare.
Mi sono visto costretto a scorrere per l’ennesima volta le immagini del primo capitolo, passando dalla Ninfa a Venere, dalla Dea a una Santa, che ha il viso reclinato verso il basso, logo mistico che attrae sia lei che la nostra immaginazione.
Lo sai, caro mio, che un tedesco-svizzero-yankee di nome Albertino scoprì che lo spazio è curvo e che viene ricomposto continuamente, integrando tutti i punti di vista esistenti?
È che ogni particella si muove come un’onda, la quale impedisce a chiunque di verificare con certezza il suo tragitto finale, consentendo solo di attestare una sua probabilità? E che non si potrà mai giungere all’ultima risposta, ma soltanto reiterare all’infinito l’assurda e mai invariata domanda?
Didi, perché mai la Maya desnuda di Goya, m’affascina più di quella fastosamente adornata?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna, Abscondita, 2004
(La casa editrice Abscondita a dicembre 2019 è stata acquistata da Electa, nata nel 1945 per intuizione dello storico dell’arte Bernard Berenson. La nuova presidente di Abscondita è l’archeologa Rosanna Cappelli)