“Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì: l’agropastorale, le chiudende e le premonizioni delle donne
“Colpì la fantasia popolare il fatto che i due poveretti, conosciuti come onesti padri di famiglia, fossero stati giustiziati per un reato commesso circa quarant’anni prima, cioè al momento in cui, nel 1820, la famigerata legge delle chiudende era andata in vigore.” – Giuseppe Dessì

“Paese d’ombre” è un romanzo pubblicato nel 1972 dallo scrittore villacidrese Giuseppe Dessì (Cagliari, 7 agosto 1909 – Roma, 6 luglio 1977).
Il romanzo mette in accordo la storia di fine Ottocento dell’areale di Villacidro (Norbio, nel romanzo), la storia di fantasia del protagonista e le memorie personali di Dessì, fondendoli in quello che poi sarà ricordato come il suo romanzo di maggior successo, la cui peculiarità sta nel far intendere al lettore un carattere autobiografico senza dichiararlo apertamente.
Il tempo della storia è cronologicamente collocabile e si dipana a cavallo tra il 1880 e il 1915, ossia tra l’esecuzione di Pantaleo Mummìa, un pastore del paese di Norbio, nome di fantasia in cui viene chiaramente descritta la topografia dell’antica Villacidro.
“Pantaleo Mummìa, il pastore che circa quarant’anni prima (tanto era durata la sua prigionia nel carcere di Cagliari, prima che la sentenza venisse eseguita) era stato uno dei capi della rivolta contro la Legge delle chiudende del 1820; legge, come si sa, frutto del riformismo sabaudo, mirante ad introdurre nell’Isola il principio borghese della proprietà perfetta. […] i moti popolari contro la legge erano durati, per tutto quel tempo, con varie pause e riprese, tenendo vivi la paura e l’odio dei nuovi proprietari, che il Re non si voleva alienare. E fu per questo che, dietro consiglio di insigni giuristi, la grazia chiesta a Vittorio Emanuele da Fulgheri per i suoi assistiti, venne respinta inesorabilmente.” – Giuseppe Dessì
L’antefatto storico serve a introdurre la figura di Don Francesco Fulgheri, un nobile di Norbio che in qualità di avvocato aveva difeso il pastore Mummìa, reo di essersi ribellato alla legge del 1820 emessa dal Re Vittorio Emanuele I tramite la quale si permetteva a tutti coloro che avevano la possibilità di farlo di impadronirsi della terra, fino ad allora libera e autogestita dalle comunità locali cancellando di fatto l’antico diritto delle terre comuni per il pascolo e per lo sfruttamento dei boschi.[1]
“Fulgheri continuò a scrivere e a parlare contro la legge delle chiudende, si batté contro gli abusi e le ingiustizie, col solo risultato di confermare l’opinione di coloro che lo consideravano un pericoloso sobillatore e un giacobino. Fondò anche un periodico che dirigeva, scriveva e pagava da solo, per dibattere a fondo i problemi agricoli ed economici dell’isola e in particolare di Parte d’Ispi; attaccò il governatore, i giudici della Regia Udienza, fu ammonito, querelato e infine processato e condannato a una lieve pena detentiva, che scontò nel carcere di Buoncammino, a Cagliari, ma non appena rimesso in libertà riprese la sua inutile battaglia. Intanto era stata proclamata l’unità del Regno […]” – Giuseppe Dessì
Don Fulgheri considerato dai suoi pari un pericoloso rivoluzionario, prese in simpatia il piccolo Angelo Uras, figlio di una vedova che svolgeva il compito di donna di servizio nella sua casa.
Vittima di una vendetta, Francesco Fulgheri muore tragicamente, lasciando come erede universale il piccolo Angelo e scatenando le ire della famiglia Fulgheri.
Il corpo centrale del romanzo si dipana tra le vicende personali di Angelo, vero protagonista del romanzo, della madre Sofia e della giovane sposa Valentina in un paese in cui ogni singola pietra sembra avere una storia da raccontare e nelle case, dietro alle imposte delle finestre, ognuno sa tutto di tutti e la vita scorre fra pettegolezzi e omertà.
Grazie alla sua nuova posizione agiata e di una spiccata intelligenza Angelo viene notato dall’ingegner Farris, piemontese e responsabile della fonderia mineraria la quale, tramite bandi di gara e concessioni operava un disboscamento spregiudicato nel massiccio del Monte Linas, sino alle foreste di Mazzanni.
Sarà Angelo come vedremo più avanti a fare da tramite fra il mondo agropastorale pesantemente danneggiato da questi sfruttamenti e dai dissesti idrogeologici provocati dai disboscamenti e la società mineraria, riuscendo a imporre una politica di salvaguardia del territorio nei limiti del possibile.

Il romanzo è accompagnato da spaccati della vita quotidiana di un paese della Sardegna del primo ‘900 fra drammi personali, vicende storiche, scene di vita agropastorale che Dessì aveva l’abilità di raccontare la in un perfetto italiano frutto dei suoi studi classici senza tralasciare l’inserimento di alcuni modi di dire, toponimi e nomi sardi difficilmente sostituibili e utili a contestualizzare il racconto.
Risulta a livello etnografico particolarmente brillante un aspetto della società cagliaritana del primo ‘900 durante una visita di Angelo in città:
“[…] furono circondati da un nugolo di picciocus de crobi, i piccoli facchini cagliaritani, scalzi, vestiti di stracci e vispi come passeri, con le loro gialle corbule di giunco, sempre pronti a trasportare qualsiasi merce per pochi centesimi…” – Giuseppe Dessì
O ancora la mescolanza tra la nobildonna cagliaritana Maria Luisa Boy e l’avvocato Loru, della quale Dessì racconta:
“Donna Luisa Loru, nata Boy, teneva molto ai titoli gentilizi, proprio perché lei, che veniva da una famiglia di altezzosi nobilucci, aveva sposato un plebeo paesano che si era fatto da sé e che, per mantenersi agli studi era stato persino maiolu, cioè servetto, in casa di un nobile cagliaritano, secondo l’antica tradizione spagnuola. L’ormai ricco e potente senatore, titolare della cattedra di Diritto romano dell’università e Rettore Magnifico, era stato da ragazzo a servizio in casa di Donna Alfonsa Brondo di Valdaura dei Marchesi di Norbio.”
Riguardo alla topografia di Norbio/Villacidro, Dessì ancora spiega che il punto in cui il rio Fluminera si allargava (oggi il fiume è completamente tombato e scorre sotto il manto stradale del paese) ed era più profondo veniva chiamato “[…] Bau de sa Madixedda [guado della cutrettola, un piccolo volatile dal caratteristico ventre giallo zolfo], benché quando è in piena nemmeno un branco di tori riuscirebbe a guadarlo […]”
Un altro tema che merita di essere attenzionato è legato alla tradizione popolare sarda e villacidrese: la capacità di accedere al sogno, al trarne premonizioni e segnali, specialmente da parte delle donne.
Lo stesso titolo del libro è richiamato dal sogno di Sofia Curreli la notte seguente alla morte di Don Fulgheri:
“[…] tornò a letto sotto la pesante e calda coperta. Si addormentò dolcemente, ma il sogno di poco prima ritornò nel suo sonno. La casa era tutta circondata dalla nebbia bianca e la nebbia non era più sospesa nell’aria, ma aveva preso la forma di una folla che camminava e si agitava brulicando. La folla riempiva il cortile, il vicolo e traboccava nello stradone. Era tutta la gente di Norbio trasformata in fumo bianco: uomini, donne e bambini, tenuti per mano dai padri o dalle madri. C’erano anche cani e cavalli e due carri a buoi, che si mossero cigolando su per lo stradone troppo stretto dietro al canonico Masala, l’Arciprete, che montava un cavallo e indossava i paramenti neri e gialli dei servizi funebri. Andavano tutti a prendere il corpo dell’avvocato Fulgheri” – Giuseppe Dessì
Il sogno torna ancora nei presagi funesti di Valentina e della piccola sorellina Dolores:
“Dolores, quando erano soli, riusciva anche a farlo parlare. Erano, per lo più, discorsi da bambini. Lei parlava tranquillamente di Valentina, diceva di averla vista in sogno e di aver parlato con lei. – Se tu vuoi chiederle qualcosa, non hai che da dirmelo e io domani o dopodomani ti do la risposta, perché la sogno sempre che voglio.” – Giuseppe Dessì
È l’emergere della componente più ancestrale della cultura popolare sarda con le sue superstizioni, quella delle coghe trasformate in alberi secolari per maledizione nelle leggende villacidresi:
“Attilia e Potenzia erano inoltre fattucchiere, cogas, come si dice ancor oggi, professione assai redditizia in un paese superstizioso: facevano “fatture”, combinavano matrimoni con filtri magici, predicevano l’avvenire e davano consigli a chiunque li chiedesse, per cui erano sempre inforate in anticipo di quanto avveniva nel paese, comprese le bardane che Luca Cabeddu e i suoi accoliti continuavano a fare, spostandosi spesso in paesi lontani. Sia Attilia che Potenzia erano fedeli custodi di tutti i segreti di Norbio. Sapevano che il silenzio era la condizione necessaria a mantenere il proprio prestigio e a conservare la fiducia.” – Giuseppe Dessì

La fama di persona saggia che Angelo riesce a ottenere, cresce. Persa la madre, ammalatasi di cancro al fegato tre anni dopo la morte di Valentina, Angelo sposa in seconde nozze la contessina Margherita Fulgheri, confermando con questo matrimonio il suo ingresso definitivo nell’élite di Norbio: siamo ormai intorno al 1895 quando i prinzipales lo fanno eleggere sindaco all’età di circa quarant’ anni.
Siamo ormai agli inizi del ‘900 quando Angelo ha già tre figli da Margherita, il maggiore dei quali ha tredici anni. Da sindaco del paese Angelo riuscì nel tempo a far costruire l’abbeveratoio, il lavatoio comunale, migliorare il ponte sul Rio Fluminera impegnando sia la manovalanza locale priva di impiego e facendo giungere ulteriore personale dai bacini minerari di Buggerru.
Mentre si compiva tutto ciò, all’orizzonte si prospettavano nuovi disordini. La zona mineraria del Sulcis fu sconvolta dalle agitazioni dei minatori, che culminarono con l’eccidio di Buggerru del 4 settembre 1904, in cui furono coinvolti anche alcuni minatori villacidresi.
Contemporaneamente Francesco Fulgheri (fratello di Margherita), divenuto ufficiale del Regio Esercito partì per l’Africa dopo essersi fidanzato con Maria Cristina, figlia di Angelo e Valentina.
Angelo, che resterà sindaco del paese per vent’anni, ha dimostrato un senso di uguaglianza ed efficienza straordinarie.
Il popolo è con lui: il suo progetto di attuare una forma di giustizia amministrativa culmina nell’acquisizione al patrimonio comunale delle vaste foreste del Monte Linas e nasce così la sua leggenda. I paesani giunsero a considerarlo una sorta di eroe locale.
Nelle poche pagine che costituiscono l’epilogo ritroviamo Angelo ormai vecchio, mentre Marco, il nipote preferito, figlio di Maria Cristina e di Francesco Fulgheri, ha circa l’età che aveva lui agli inizi del racconto. Il bilancio che il vecchio trae della sua vita ha molte ombre, rese più cupe dalla tragedia della Prima guerra mondiale in cui è coinvolto anche Francesco.
La scena finale, come fa osservare il critico sassarese Claudio Varese (Sassari, 23 agosto 1909 – Viareggio, 10 dicembre 2002), “ha un forte carattere simbolico, di compendio dell’intero significato del libro. È ancora una scena di violenza, sullo sfondo di un ultimo giorno di carnevale, festa che in Sardegna ha ovunque alcunché di funebre, nella sua sfrenatezza […]” e che a Norbio scriveva Dessì “finiva sempre con risse mortali”.
Mentre Angelo affrontava la folla avvinazzata, il giovane lampionaio del Comune, nella confusione generale, viene accoltellato; il piccolo Marco, che ha visto tutto, sta per indicare il colpevole, quando una mano gli tappa la bocca: è Aurelia, la ragazza del ferito, che gli impone il silenzio.
Così il cerchio si chiude: tanti anni prima un altro bambino, Angelo, è stato testimone di un delitto ed anche a lui è stato imposto di tacere: si trattava dell’assassinio di Don Fulgheri.
Continua Varese: “Questo balletto della beffa e dell’omertà di un carnevale di morte, questi contadini e pastori che non riconoscono l’invito razionale del loro ex-sindaco, nemico delle loro sanguinose mascherate, sono un segno e un simbolo: l’ombra grava ancora sul paese e la realtà storica e morale della Sardegna è ancora ferita.”
Il romanzo fu insignito del prestigioso Premio Strega nel 1972.

La Casa Dessì a Villacidro è diventata oggi un museo gestito dalla Fondazione Dessì, nata nel 1989 grazie all’iniziativa della Regione Sardegna e del Comune di Villacidro.
La Casa fu acquistata dal generale Francesco Dessì, padre dello scrittore, al termine della Grande Guerra. Nella dimora di famiglia Giuseppe Dessì ha trascorso gli anni dell’infanzia e della giovinezza e qui ha compiuto la sua prima formazione.[2]
Casa Dessì oltre ad essere sede della Fondazione Dessì è anche il luogo in cui si svolge il Premio Letterario Giuseppe Dessì oltre ad altre numerose manifestazioni culturali e artistiche.
“Il bambino bussò al cancelletto di legno, ch’era in tutto simile a quello della casa di sua madre nel vicolo del Carrubo e aspettò in silenzio; dopo un poco la voce potente e rauca di Don Francesco Fulgheri si fece udire – dall’interno della casa: – Chi è? – Sono io! – strillò Angelo con la sua vocetta […]” – Giuseppe Dessì
Note
[1] “Regio editto sopra le chiudende, sopra i terreni comuni e della Corona e sopra i tabacchi, nel Regno di Sardegna” del 6 ottobre 1820.
[2] Fonte Sito Fondazione Dessì
Bibliografia
Giuseppe Dessì, Paese d’ombre, Mondadori