“L’Arte romantica” di Charles Baudelaire: la modernità
“In una parola, affinché ogni modernità sia degna di diventare antichità, occorre che la bellezza misteriosa che la vita umana vi mette involontariamente ne sia stata estratta.” – Charles Baudelaire

Nel 1945 la Gentile Editore Milano pubblicava “L’Arte romantica”, una raccolta di varietà critiche e letterarie del poeta francese Charles Baudelaire (Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867). In Italia la raccolta era inedita, salvo due saggi tradotti da Enrico Somarè: “L’oeuvre et la vie d’Eugène Delacroix” e “Le peintre de la vie moderne”. Il volume curato da Renzo Bertoni con l’ausilio di Laura Mazza per la traduzione in lingua italiana, presenta oltre ai saggi poc’anzi nominati “L’arte filosofica”, “Morale del balocco”, “Riccardo Wagner e il Tannhäuser a Parigi”, “Consigli ai giovani letterati”, “I drammi e i romanzi onesti”, “La scuola pagana”, “Riflessioni su alcuni contemporanei”, “Critiche letterarie”.
Il titolo della raccolta proviene da due pubblicazioni di Baudelaire, la prima nel 1852 e la seconda nel 1869, gli altri saggi compresi in questa fortunata pubblicazione sono stati pubblicati separatamente, per esempio la critica su Wagner nel 1861, le parti che compongono “Il pittore della vita moderna” nel 1863, “Morale del balocco” nel 1853 e riscritto nel 1869. Possiamo dunque ritenere “L’Arte romantica” un insieme di carattere occasionale legato da un nesso estetico preciso e continuo.
“Il pittore della vita moderna” è composto da 13 brevi saggi per un totale di circa cinquanta pagine. Dopo la lettura de “L’artista, uomo di mondo, uomo delle folle e fanciullo”, nel quale Baudelaire racconta di un pittore che ha scelto di restare anonimo e che descrive come “uomo di mondo” piuttosto che “artista”, si è deciso di proporvi come lettura il quarto paragrafo intitolato “La modernità”.
Il breve saggio esplora il significato di “modernità” e di “antichità”, l’amato poeta parigino è incredulo davanti ai pittori che per ritrarre una donna prendono ispirazione non dal reale ma da epoche che non hanno mai vissuto e che mai vivranno essendo ormai passate da secoli. Nell’ottocento il gusto del passato ha portato la cecità dell’occhio del pittore che dovrebbe invero tratteggiare il presente così che questo presente diventi poi dopo secoli l’amata antichità che tanto ci attrae.
Il pittore della vita moderna
La modernità
Così egli va, corre, cerca. Che cosa cerca?
A colpo sicuro quest’uomo, così come l’ho dipinto, questo solitario dotato di una immaginazione attiva, sempre in viaggio attraverso il gran deserto degli uomini, ha un fine più elevato di quello di un semplice curioso, una mèta più generale, oltre il piacere fuggitivo della circostanza.
Cerca quel qualche cosa che ci verrà concesso chiamare modernità; perché non si presenta termine migliore per esprimere l’idea in questione. Si tratta, per lui, di liberare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nello storico, di trarre l’eterno dal transitorio.
Se buttiamo un’occhiata sulle nostre esposizioni di quadri moderni, siamo colpiti dalla tendenza generale degli artisti a vestire tutti i personaggi di costumi antichi. Quasi tutti si servono di mode e di mobili del Rinascimento, come David si serviva delle mode e dei mobili romani. Con questa differenza, però: che David, avendo scelto dei soggetti particolarmente greci o romani, non poteva fare diversamente che informarli allo stile antico, mentre in pittori attuali, scegliendo soggetti di una natura generale attribuibile a tutte le epoche, si ostinavano a rivestirli dei costumi del Medio Evo, del Rinascimento o dell’Oriente.
È segno, evidentemente, di una grande pigrizia; perché è molto più comodo dichiarare che tutto è assolutamente vile nel costume di un’epoca, piuttosto che impegnarsi ad estrarne la bellezza misteriosa che può esservi contenuta, per minima o lieve che sia.
La modernità, è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte: l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. Esistette una modernità per ogni pittore antico; la maggior parte dei bei ritratti che ci restano dei tempi remoti sono vestiti secondo la foggia della loro epoca. Sono però di un’armonia perfetta, perché il costume, la pettinatura, e anche il gesto, lo sguardo, il sorriso (ogni epoca ha il suo tratto, il suo sguardo, il suo sorriso) formano un blocco di completa vitalità. Questo elemento transitorio, fuggitivo, le cui metamorfosi sono così frequenti, non avete il diritto di disprezzarlo o di non curarvene.
Sopprimendolo, cadrete forzatamente nel vuoto di una bellezza astratta e indefinibile, come quella dell’unica donna prima del primo peccato. Se al costume dell’epoca, che necessariamente si impone, ne sostituirete un altro, vi renderete responsabili di un controsenso che non può trovar scusa fuor che nel caso di una mascherata voluta dalla moda. Così, le divinità, le ninfe, e i sultani del XVIII secolo sono dei ritratti moralmente rassomiglianti.
Senza dubbio è lodevolissimo studiare gli antichi maestri per imparare a dipingere, ma non sarà altro che non un esercizio superfluo se il vostro scopo è quello di comprendere il carattere della bellezza presente. I drappi di Rubens o di Veronese non v’insegneranno certo a fare del moerro antico, del raso alla regina o qualunque altra stoffa delle nostre fabbriche, crineline, o gonne di mussola inamidata. Il tessuto e la grana non sono gli stessi delle stoffe dell’antica Venezia, o di quelle portate alla corte di Caterina. Aggiungiamo poi che il taglio della gonna e del corpetto è assolutamente diverso, che le pieghe sono disposte in un modo nuovo, e infine che il gesto e il portamento della donna moderna dànno al suo vestito una vita e una fisonomia che non sono quelle della donna antica. In una parola, affinché ogni modernità sia degna di diventare antichità, occorre che la bellezza misteriosa che la vita umana vi mette involontariamente ne sia stata estratta. A questo si dedica in particolar modo G.

Ho detto che ogni epoca ha avuto il suo portamento, il suo sguardo, il suo gesto. Soprattutto in una vasta galleria di ritratti (quella di Versailles, per esempio) questa premessa si può facilmente verificare. Ma ancor più lontano essa può estendersi. Nell’unità che si chiama nazione, le professioni, le caste, i secoli introducono la varietà, non soltanto nei gesti e nelle maniere, ma anche nelle forme positive del volto. Un tal naso, una tal bocca, una tal fronte occupano uno spazio di tempo che non intendo determinare qui, ma che certamente può essere sottoposto a un calcolo. Queste considerazioni non sono abbastanza familiari ai ritrattisti; e il gran difetto di Ingres, particolarmente, è quello di voler imporre ad ogni tipo che gli càpiti sotto l’occhio un perfezionamento più o meno dispotico, improntato al repertorio delle idee classiche.
In siffatta materia, sarebbe facile e anche legittimo ragionare a priori. La correlazione continua di ciò che si chiama anima con ciò che si chiama corpo spiega molto bene come tutto ciò che è materiale o emanazione dello spirito rappresenta e rappresenterà sempre lo spirito da cui deriva. Se un pittore paziente e minuzioso, ma di mediocre immaginazione, dovendo dipingere una cortigiana di questo tempo, s’ispira (è la parola ormai d’obbligo) a una cortigiana di Tiziano o di Raffaello, è infinitamente probabile che creerà un’opera falsa, ambigua e oscura. Lo studio di un capolavoro di quel tempo e di quel genere non gli apprenderà né l’attitudine, né lo sguardo, né l’espressione, né l’aspetto vitale di una di queste creature che il vocabolario d’uso ha successivamente classificate sotto i titoli banali o faceti di impure, di mantenute, di lorettes, di cocottes.
La stessa critica si applica rigorosamente allo studio del militare, del dandy, perfino dell’animale, cane o cavallo, e di tutto quanto forma la vita esteriore di un secolo. Sventurato chi studia nell’antico altro che l’arte pura, la logica, il metodo generale! Per troppo applicarvisi, perde la memoria del presente; sacrifica il valore e i privilegi forniti dalla circostanza, perché ogni nostra originalità deriva dall’impronta che il tempo scava nelle nostre sensazioni. Il lettore comprende subito che io potrei saggiare facilmente le mie asserzioni su molti altri oggetti che sulla donna. Che cosa direste, per esempio, di un pittore di marine (spingo l’ipotesi all’estremo) che, dovendo riprodurre la bellezza sobria ed elegante di una nave moderna, affaticasse i suoi occhi nello scrutare le forme sovraccariche, massicce, la poppa monumentale di una nave antica, e le vele complicate del sedicesimo secolo? E che cosa pensereste di un artista, che voi abbiate incaricato di fare il ritratto di un purosangue, celebre nei fasti dell’ippodromo, se questi andasse a regalare le sue contemplazioni nei musei, se si accontentasse di osservare il cavallo nelle gallerie del passato, in Van Dyck, Bourguignon o Val der Meulen?
G., guidato dalla natura, dominato dalla circostanza, ha seguito una via tutta diversa. Ha cominciato col contemplare la vita, e soltanto tardi si è adoperato a studiare i mezzi per esprimere la vita. Ne è risultata un’originalità affascinante, in cui quanto può restare di barbaro e di ingenuo appare come una nuova prova di obbedienza all’impressione, come una lusinga alla verità. Per la maggior parte di noi, soprattutto per gli uomini d’affari, agli occhi dei quali la natura non esiste, se non nei suoi rapporti di utilità con i loro affari, il fantastico reale della vita è singolarmente smorzato. G. l’assorbe senza tregua; la sua memoria e i suoi occhi ne sono pieni.
Bibliografia
Charles Baudelaire, “L’arte romantica”, Gentile Editore Milano, 1945. Curato da Renzo Bertoni.
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