“Più donne che uomini” di Ivy Compton-Burnett: dramma e consapevolezza di una donna di altri tempi
“E ti pareva poco, quel sentimento che ci vedevi vivere ogni giorno? Quell’affetto monotono, ostinato, che avevi sempre sotto gli occhi? Credi che a un matrimonio si possa chiedere di più? Che ciò che state immaginando possa riservarvi dell’altro? Davvero, povero ragazzo, povero ragazzo mio?”
Conoscevo l’autrice, inglese, i romanzi da lei scritti sono davvero tanti, ma non avevo letto niente prima d’ora e mi incuriosiva. Sono rimasta perciò un po’ delusa quando ho cominciato “Più donne che uomini” (Fazi Editore, marzo 2019) e mi sono sentita in qualche modo spaesata.
Cosa erano tutti quei dialoghi e questi personaggi interessanti ma all’apparenza così autonomi e privi di legami?
Non mi sono arresa e proseguendo ho compreso che i dialoghi sono la base dei romanzi della Compton-Burnett (1884-1969) e che “Più donne che uomini” somiglia ad un’opera teatrale nella quale tutti hanno un ruolo preciso ma un personaggio spicca sopra ogni altro, fisicamente ed emotivamente.
Ma andiamo alla trama.
Siamo agli inizi del Novecento, in un collegio femminile diretto da Josephine Napier, donna austera in ogni suo abito, espressione e commento verbale. Tutti ruotano intorno a lei, dal corpo docente alle studentesse, dal marito Simon, succube della moglie, al figlio adottivo Gabriel.
Al gruppo si unisce improvvisamente Elisabeth, amica di vecchia data rimasta vedova accompagnata dalla giovane figlia Ruth. Si parla tanto, ci si osserva, si insegna e ci si domanda quale sia il reale valore del lavoro. Una tragedia rompe questa routine e da quel momento nulla sarà come prima: disordine e dolore riveleranno gli aspetti più nascosti delle personalità dei diversi protagonisti e finalmente le maschere verranno tolte.
“Non sono gli abiti degli altri. Sono i vostri. E c’è da vergognarsi, invece, di cose come la povertà, la vecchiaia e la morte. Sono irrimediabili: in questo sta l’umiliazione. Dover accettare delle condizioni che ci sono imposte non può che essere oltraggioso.”
L’umorismo si mescola al dramma ed è quest’ultimo che porta i protagonisti a mostrarsi con sincerità mai rivelata prima, la stessa Josephine è differente dopo la disgrazia, i lati spigolosi del suo carattere divengono ancora più appuntiti e la trama si fa più interessante ed intrigante.
“Mio caro Simon, come potremmo separare una madre e una figlia, quando la prima è vedova, e la seconda appartiene al sesso debole? Tu non sei un mostro, né lo sono io; sarebbe inutile fingere di esserlo, per quanto comodo possa tornarci. E non guardarmi come se lo fossi. È da un po’ che hai quell’espressione, che trovo del tutto fuori luogo. Devi capire che, in questa circostanza, ciò che vorremmo noi non conta nulla.”
Le convenzioni, gli abiti, i dialoghi ci riportano in quell’Inghilterra edoardiana, quasi romantica, che si stava rinnovando profondamente tentando di scacciare l’eccessiva serietà e severità vittoriana. Sono anni importanti durante i quali le donne rivendicano la loro indipendenza e il diritto di voto.
Sono aspetti che si colgono in questo romanzo ed è interessante ‘ascoltare’ Josephine, donna dalle idee precise le cui parole spesso cozzano con il pensiero. La supremazia era femminile ma con la consapevolezza che non fosse possibile esprimerla apertamente andando oltre le convenzioni della società.
Un inizio lento, una storia che si mostra in tutta la sua potenzialità con il susseguirsi delle pagine.
Un romanzo che racconta un’epoca e delle sue donne, con ironia e leggerezza sormontate a sprazzi da una inevitabile drammaticità.
Written by Rebecca Mais