Oscar 2019: Tutti i vincitori, le riflessioni, le statistiche e le curiosità – #5

Rieccoci per il quarto anno consecutivo a tirare le fila del palmarès hollywoodiano per eccellenza, lasciati decantare i risultati nelle giornate immediatamente successive alla lunga Notte.

Oscar 2019

Esulando da questioni inerenti la struttura e la conduzione della cerimonia, più snella come da scaletta e forse anche per questo capace di stuzzicare la curiosità di circa 3 milioni di spettatori in più rispetto al 2018, nonché tralasciando il vespaio sollevato dalle irrazionali e contestatissime proposte avanzate negli ultimi tempi dall’Academy, focalizziamo l’attenzione su quel che dovrebbe costituire il vero argomento di questo contributo: le opere, le performance e i loro autori, i quali di certo ancora una volta, a differenza dei panegirici e delle condanne su di essi intavolati ma alla valenza artistica degli stessi sostanzialmente estranei, non danno di per sé adito a noie di sorta.

Per cominciare, muoviamo dai numeri usciti dal Dolby Theatre, ossia dall’ammontare delle statuette conquistate dai singoli titoli:

  • 4/5 – Bohemian Rhapsody” (di Bryan Singer);
  • 3/10 – “Roma” (di Alfonso Cuarón);
  • 3/7 – “Black Panther” (di Ryan Coogler);
  • 3/5 – Green Book (di Peter Farrelly);
  • 1/10 – “La favorita” (di Yorgos Lanthimos);
  • 1/8 – “A Star Is Born” (di Bradley Cooper) e “Vice – L’uomo nell’ombra” (di Adam McKay);
  • 1/6 – “BlacKkKlansman” (di Spike Lee);
  • 1/4 – “First Man – Il primo uomo” (di Damien Chazelle);
  • 1/3 – “Se la strada potesse parlare” (di Barry Jenkins);
  • 1/1 – “Bao” (di Domee Shi), “Free Solo” (di Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi), “Period. End of Sentence.” (di Rayka Zehtabchi), “Skin” (di Guy Nattiv) e “Spider-Man – Un nuovo universo” (di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman).

Come l’anno passato, un solo film svetta per (l’identico modico) numero di statuette vinte, alla maniera de “La forma dell’acqua”. A un primo sguardo, è facile notare che intersecando le previsioni delle diverse fonti si otteneva un mese fa un totale realistico anzitutto per “Bao” e “Spider-Man – Un nuovo universo”, quindi per “First Man – Il primo uomo” (al massimo avrebbe portato a casa due premi), “Roma” (al massimo quattro), “Se la strada potesse parlare” (al massimo due) e “A Star Is Born” (id.), mentre “Free Solo” tutt’al più avrebbe ceduto il posto a un altro titolo.

Esiti sotto le aspettative hanno interessato “Vice – L’uomo nell’ombra” (che sarebbe potuto arrivare a un totale di quattro), “BlacKkKlansman” (su un massimo di tre), “La favorita” (id.) e “The Wife – Vivere nell’ombra”, privato della sola speranza che nutriva (Glenn Close protagonista).

Green Book – film

L’unico titolo che ha nettamente scavalcato i confini dettati dai pronostici risulta essere Green Book (il quale si sarebbe fermato a un massimo di due), così come, invece, “Period. End of Sentence.” e “Skin” non erano affatto contemplati come vincitori. A onor del vero, per “Bohemian Rhapsody” e “Black Panther” s’erano in effetti ipotizzate rispettivamente 4 e 3 vittorie, divenute reali (sebbene secondo alcune fonti per entrambi il totale potesse fermarsi allo zero).

Conseguentemente, le case di distribuzione più soddisfatte possono considerarsi la 20th Century Fox, Netflix, la Universal e la Walt Disney (4 premi a testa), seguite dalla Annapurna e la Fox Searchlight Pictures (2); chi ne ha pagato lo scotto restando a bocca asciutta sono state Magnolia (4 candidature) e Amazon Studios (3).

I titoli che più di tutti restano contraddistinti per le semplici nomination sono “Il ritorno di Mary Poppins” (4), “La ballata di Buster Scruggs”, “Cold War” e “Copia originale” (3), “L’isola dei cani”, “Maria regina di Scozia”, “Opera senza autore” e “RBG” (2): non si registra nessuna cocente sconfitta dunque.

Possiamo a questo segno stilare delle pagelline per le note fonti che ci hanno accompagnato in questi ultimi 5 mesi, e di lì passare al commento di ogni singolo riconoscimento. Su un totale di 24, l’Hollywood Reporter ne ha imbroccati 15, AwardsCircuit 13, AwardsWatch e GoldDerby 12 (rispettivamente ben 8 e 7 in meno rispetto all’anno passato).

Le sezioni su cui nessuno ha vaticinato a dovere si sono rivelate essere quelle del miglior film (!), in cui l’ha spuntata infine “Green Book”, della miglior attrice protagonista, in cui è stata eletta Olivia Colman, del miglior cortometraggio, dominata da “Skin”, e del miglior cortometraggio documentario, dove ha sbaragliato la concorrenza “Period. End of Sentence.”.

Quali dunque le vittorie predette con maggior sicurezza? Regia, attore non protagonista, sceneggiatura non originale, film d’animazione, film straniero, canzone, fotografia, trucco e acconciatura e cortometraggio d’animazione; segue queste nove (numero pari a quello dell’edizione passata), con tre fonti a favore, solamente la categoria dedicata all’attrice non protagonista, segno evidente che, in un rilevante numero di casi, quest’anno indovinare i vincitori non s’è rivelato poi così facile.

Oscar 2019 vincitori

Se “Free Solo” come miglior film documentario, “Black Panther” per la scenografia e “Bohemian Rhapsody” per il sonoro condividevano esiti incerti ma suffragati da almeno due fonti, le maggiori sorprese dopo le quattro sezioni citate pocanzi sono invece senza dubbio costituite dai premi a Rami Malek come protagonista di “Bohemian Rhapsody” (pronosticato da AwardsWatch), a John Ottman come montatore di “Bohemian Rhapsody” (secondo la previsione di AwardsCircuit), a Brian Hayes Currie, Peter Farrelly e Nick Vallelonga come sceneggiatori di “Green Book”, a Ludwig Göransson come autore delle musiche e a Ruth Carter come costumista di “Black Panther”, a Ian Hunter, Paul Lambert, Tristan Myles e J.D. Schwalm come autori degli effetti speciali di “First Man – Il primo uomo” e Nina Hartstone e John Warhurst come autori del montaggio sonoro di “Bohemian Rhapsody” (tutti indovinati dell’Hollywood Reporter).

Volendo ora approfondire le singole circostanze, si inizierà dai casi che probabilmente più di tutti hanno spianato la strada a conflittualità, tra sana curiosità e triti pourparler. Certo, in luogo di “Black Panther” sarebbe stato davvero gradito trovare un “First Man”: è forte infatti l’impulso a biasimare un simile atteggiamento di irrefrenabile accondiscendenza nei confronti di un cine-comic che non è realmente tra quelli scritti nel migliore dei modi, eppure salutato come “rivoluzionario” non appena ha fatto di tematiche quali l’integrazione razziale e la pace nel mondo i suoi cavalli di battaglia, senza neppure averle sviluppate in maniera pienamente credibile, non scontatamente elementare, quando addirittura non liberamente raffazzonata.

Al tempo stesso però questo giustificabile rifiuto non dovrebbe offuscare le ragioni (comprensibili) dei riconoscimenti assegnati: l’ambientazione esotica, tutto sommato inconsueta per l’universo Marvel, ha permesso meglio che in altre occasioni l’ideazione di un habitat complesso e stimolante. L’impronta fantascientifica dei costumi di Ruth Carter e delle scenografie di Hannah Beachler (divenuta la prima afroamericana a ricevere la statuetta per la categoria) e Jay Hart ha finito quindi per stupire e ammaliare più dei raffinati merletti e delle sontuose stanze de “La favorita”, similmente a quanto avesse già compiuto il futuristico “Mad Max: Fury Road” (2015) sfidando in entrambe le categorie gli anni ’20 di “The Danish Girl”.

Impossibile poi non soffermarsi sulla colonna sonora approntata da Ludwig Göransson, intelligentemente preferita a quella delicata e romantica di “Se la strada potesse parlare”, nel complesso inserita sotto tono nell’economia della rappresentazione e per questa ragione scarsamente incisiva. Il compositore svedese, avvalendosi della collaborazione di ben sei orchestratori, è riuscito a coniugare il vincente ricorso a un tematismo d’immediata ricezione con l’eccitante interpretazione ritmica e timbrica della cultura, della tradizione e in particolare dei rituali tipici dell’africano Wakanda: ne esce un vero e proprio tripudio musicale generato dal connubio di percussioni dal sapore etnico e fiati suonati con un tale impeto da sconfinare nei colori di una primitiva voce umana, imponenti impasti orchestrali e incursioni nell’elettronica che ammiccano ai generi commerciali più voga presso la gente afroamericana (e non solo).

Bohemian Rhapsody

La seconda “anomalia” corrisponde ovviamente al concorrente più sbertucciato dalla critica americana: il lungometraggio che alimenta certamente l’orgoglio dei Queen (presenti al Dolby Theatre nella doppia veste di performer e spettatori) s’è portato a casa, come evidenziato più sopra, il maggior numero di Oscar. Se sulle categorie dedicate al miglior sonoro e montaggio sonoro è arduo metter bocca (ci limiteremo ad evidenziare come, rispettivamente in un caso e nell’altro, “Bohemian Rhapsody” abbia con la sorpresa di non pochi scavalcato “A Star Is Born” e “First Man”), costituiscono un terreno più fertile i topic del montaggio e dell’attore protagonista.

Entrambi risultano strettamente implicati nell’efficacia comunicativa del film, la quale non a caso, ancor più in questa circostanza particolare (non trattandosi di un kolossal fanta-operistico, di un superhero movie o di un film d’animazione della Disney, della Pixar o della Illumination Entertainment, bensì di un film biografico, seppur su una delle band più celebri della storia), è rispecchiata dai lautissimi incassi, specie oltreoceano (in Italia gravitano attorno i 30 milioni di euro).

Il lavoro di John Ottman non pare dimostrare ambizioni autoriali, non è interessato ad arricchire con sovrastrutture narrative il fluire della vicenda (contrariamente ai colleghi de “La favorita” e soprattutto di “Vice”): esso è al contrario del tutto funzionale a un dinamismo ordinato, che trascini il pubblico nell’indiavolata avventura vissuta dai suoi miti rispettandone in primis l’identità artistica, musicale, quindi ritmica, sincopata.

Quanto a Rami Malek, quasi un novellino nello star system di Hollywood, è riuscito nella sua freschezza per così dire “innocente” a conquistare ogni platea, entusiasmandola e commuovendola senza cedere a un’imitazione caricaturale che l’inesperienza avrebbe potuto incentivare: Freddie Mercury vivrà per sempre attraverso la sua prova, già consegnata alla memoria collettiva.

Nulla viene tolto al titanismo di Christian Bale (“Vice”), attore decisamente più maturo, o alla ruvidezza tragica di Willem Dafoe (“Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità”), disposto a prestarsi a un regista, Julian Schnabel, incline a una drammaturgia inconsueta per un biopic, più criptica e per molti meno appagante del previsto.

Proseguendo la nostra ricognizione, la punta di diamante targata Netflix permette di avvicinare tre fronti: anzitutto quello del film in lingua straniera, categoria per la prima volta conquistata dal Messico, dopo otto tentativi fallimentari operati tra il 1961 e il 2011; quindi quello della fotografia (curata dallo stesso Alfonso Cuarón), che nelle scale dei grigi non trionfava dai tempi di “Schindler’s List” (1993), quest’anno collocato ad un interessante quanto problematico crocevia tra le luminescenti e profonde estensioni del grande schermo e il connaturato depauperamento dovuto all’originaria destinazione, le piattaforme streaming fruite attraverso i piccoli (e piccolissimi) schermi.

Roma – Alfonso Cuarón

Infine, la seconda vittoria per la regia meritata da Cuarón (dopo quella ottenuta nel 2014 con “Gravity”), la più radicale considerando la natura schiettamente autoctona di “Roma” (nonostante il sostegno accordato da Netflix), che diviene il primo film in lingua straniera a salire sul podio della categoria, obiettivo mai raggiunto nemmeno da leggende plurinominate del calibro di Federico Fellini e Ingmar Bergman, parrebbe concludere la non breve parentesi della “riscossa messicana”, la quale, come è già stato notato, annovera altri due rappresentanti illustri: Alejandro González Iñárritu (“Birdman” e “Revenant”, ma anche “Carne y Arena”) e Guillermo del Toro (“La forma dell’acqua”), entrambi premiati per il loro lavoro impiegato in opere dal marchio a stelle e strisce.

Nessuno dei tre dovrebbe fare a tempo dirigere un altro stupefacente lungometraggio da rilasciare entro il 2019: dal 2020 si tornerà quindi a premiare un regista anglofono, oppure lo sguardo ecumenico (e sacrosanto!) che l’Academy sembra stia finalmente esercitando promuoverà un nuovo talento straniero?

Avanziamo un ulteriore appunto sulla questione, utile soprattutto a chi potrebbe travisare il significato dell’accaduto per una carenza di conoscenze in materia: “Roma” costituisce un esempio emblematico dell’innamoramento travolgente che di tanto in tanto coglie i membri votanti per una realizzazione proveniente da oltre confine, quasi questi si accorgessero di punto in bianco della qualità sorprendentemente pregevole delle cinematografie estere.

Episodi del genere si registrano nel recente passato, si veda i casi di “Amour” (2012) e, pur non trattandosi di un film del tutto autonomo dall’industria hollywoodiana, di “The Artist” (2011); ma disseminati nei decenni più addietro non passano inosservati successi clamorosi come quelli de “La vie en rose” (2007), “Il labirinto del fauno” (2006), “Parla con lei” (2002), “La tigre e il dragone” (2000), “La vita è bella” (1997), “Il postino” (1994), fino a “Fanny e Alexander” (1982), “Il vizietto” (1978), “Pasqualino Settebellezze” (1975), “8½” (1963), “Divorzio all’italiana” (1961), “La dolce vita” (1960) e altri.

“Roma” perciò non si deve ingenuamente credere di necessità il film messicano per antonomasia, il migliore mai realizzato: vale notare piuttosto la debolezza (o, se preferite, la rarefazione) della concorrenza nel caso specifico dell’edizione corrente (dove, accanto agli unici due statunitensi, hanno trovato spazio, di certo non in maniera accidentale, anche un greco alla guida di un film anglo-americano-irlandese e, soprattutto, un polacco alla guida di un film polacco), e il contesto di ebollizione socio-politico-culturale in cui è stata presentata ed efficacissimamente promossa la vicenda narrata.

Prima di concludere con alcune considerazioni sul vincitore assoluto dei 91esimi Academy Awards, dedichiamo una serie di paragrafi ai concorrenti che hanno portato a casa una sola statuetta.

Volgendo al termine la cerimonia, “La favorita” sembrava ormai destinato a uscirne a mani vuote, dato per scontato un riconoscimento alla meravigliosa Glenn Close di “The Wife – Vivere nell’ombra”, di gran lunga la più anziana, scafata e rispettata tra le concorrenti, giunta alla sua settima nomination.

Olivia Colman – Photo by Rob Latour

Ma l’Academy ha sorpreso tutti premiando Olivia Colman, mai candidata in precedenza, neppure ai Golden Globe o ai BAFTA nelle sezioni riservate alle produzioni non televisive: e improvvisamente ci si è scoperti concordi nell’acclamare una donna che ha saputo tratteggiare con tragica ironia e in un numero limitato di scene (si potrebbero infatti parimenti considerare protagoniste Emma Stone e Rachel Weisz) un personaggio complesso, grasso e imbruttito, sgradevole ma perversamente attraente sia sul piano esteriore che su quello interiore.

Un trionfo per così dire “umile”, che sa di onestà e gratifica un puro, meditato talento. Ampiamente annunciata, al contrario, la migliore attrice non protagonista: la madre tenace interpretata da Regina King in “Se la strada potesse parlare” ha prevalso principalmente sulle donne virtuose della corte reale (Stone e Weisz).

Altre due vittorie date da tempo per assodate riguardano la corsa del travolgente, elettrizzante, illuminato “BlacKkKlansman”, che si è fermata a questa prima e unica sezione, la sola sulla cui conquista da parte di Spike Lee, David Rabinowitz, Charlie Wachtel e Kevin Willmott non fosse stata ventilata alcuna ipotesi contraria, e quella dell’altrettanto travolgente, elettrizzante e illuminato “Spider-Man – Un nuovo universo”, che affidato alla perizia dei registi Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman e dei produttori Phil Lord e Christopher Miller è riuscito a seguire la scia lunga originata, come analizzavamo il mese scorso, dal primo “Shrek” (2001), concentrato di esuberanza creativa, messo a confronto con “Monsters & Co.”, ora “Gli Incredibili 2”.

Il testa a testa fra “Free Solo” e “RBG” per il titolo di miglior film documentario è stato vinto dal primo, rappresentato dai registi Jimmy Chin ed Elizabeth Chai Vasarhelyi e dai produttori Shannon Dill e Evan Hayes; per quanto riguarda i cortometraggi invece, come già anticipato, le fonti sono state assecondate nel caso di “Bao”, gioiellino iperrealista della Pixar diretto da Domee Shi e prodotto da Becky Neiman-Cobb, mentre sono state prese clamorosamente in contropiede in quello di “Skin” (diretto da Guy Nattiv e prodotto da Jaime Ray Newman), preferito a “Detainment” o piuttosto a “Marguerite”, o ancora a “Mother”, così come infine in quello di “Period. End of Sentence.” (diretto da Rayka Zehtabchi e prodotto da Melissa Berton), di fronte al quale hanno desistito “Black Sheep”, “End Game” e “A Night at the Garden”.

Il trionfo dell’ormai celebre “Shallow” (da “A Star Is Born”, musica e testo di Mark Ronson, Lady Gaga, Anthony Rossomando e Andrew Wyatt), che potremmo dunque definire la degna erede dell’“Evergreen” cantata da Barbra Streisand nel lontano 1976, è stato anticipato dall’intensa performance datane da Bradley Cooper e la stessa Lady Gaga nel corso della cerimonia; spazio riconosciuto come tradizionale che però quest’anno è divenuto un vero e proprio privilegio considerando l’assenza dell’altrettanto spettacolare “All the Stars” che apriva i crediti di coda di “Black Panther”, esclusa per “questioni logistiche” (o piuttosto per la violenza verbale del testo, che avrebbe magari scatenato i pruriti dei benpensanti in frac).

I due premi tecnici restanti sono andati in un caso a un film che, differentemente dal favorito “Avengers: Infinity War” (il quale, in caso di vittoria, sarebbe diventato il secondo cine-comic del millennio a vincere nella categoria, dopo “Spider-Man 2”, 2004), non persegue una spettacolarizzazione del racconto attraverso mirabolanti effetti speciali, bensì riproduce in maniera apparentemente fedele i caratteri fisici (qui addirittura astronomici) e gli eventi drammatici al fine di raggiungere una soddisfacente illusione di realtà (stiamo parlando di “First Man – Il primo uomo”, curato da Ian Hunter, Paul Lambert, Tristan Myles e J.D. Schwalm).

Vice – L’uomo nell’ombra

Nell’altro caso l’ha spuntata, come previsto, “Vice – L’uomo nell’ombra”, il cui primattore trascorreva gran parte delle notti durante i periodi di shooting a farsi truccare dal leggendario Greg Cannom, assistito da Kate Biscoe e Patricia DeHaney, finché venisse ricreata una smaccata somiglianza col “Satana” che egli era chiamato a impersonare, Dick Cheney.

Chiudiamo il nostro percorso approdando all’ultimo titolo: candidato come miglior film, come tutti i suoi sette sfidanti ha vinto almeno un Oscar (a partire dal 2010, quando è stato aumentato da 5 a 10 il numero di lungometraggi che potessero accedere alla rosa dei candidati, questa singolare circostanza si è verificata ancora nella sola edizione del 2015, l’anno di “Birdman”).

Le statuette conquistate da “Green Book”, come si ha avuto modo di appurare in apertura, sono tre: il pianista colto e riservato Mahershala Ali, vincitore per la seconda volta dopo la sua memorabile performance in “Moonlight” (2016), è stato subito paragonato a un celeberrimo attore afroamericano, Denzel Washington (due Oscar per “Glory – Uomini di gloria”, 1989, e “Training Day”, 2001), ma lo si può affiancare anche a Michael Caine, Melvyn Douglas, Anthony Quinn, Jason Robards, Peter Ustinov e, nel decennio corrente, a Christoph Waltz, tutti premiati in due occasioni nella medesima categoria.

Sul piano della sceneggiatura originale, Brian Hayes Currie, Peter Farrelly e Nick Vallelonga hanno inaspettatamente spiazzato gli autori del caustico copione de “La favorita” sfoderando un lungo, bilanciatissimo scambio di opinioni, “rispetti e strambotti” fra due personaggi diversissimi e proprio per questo godibilmente complementari.

È chiaro, a questa brillante sceneggiatura (e conseguentemente al fresco, intrigante soggetto) va gran parte del merito di aver fatto innalzare al grado più alto il film prodotto da Jim Burke, Charles B. Wessler e gli stessi Currie, Farrelly e Vallelonga, un buddy movie canonico e rassicurante, edulcorato nella trattazione di una tematica delicata come la discriminazione razziale, che molti pubblici differenti, più o meno smaliziati, saprebbero apprezzare.

“Green Book” non era stato tuttavia preannunciato con tanta convinzione: i riflettori erano puntati piuttosto sulla “folle, oltraggiosa, incredibile storia vera” di “BlacKkKlansman” e sulla vicenda poetica e personalissima di “Roma”, che assurgeva, pacifica e malinconica, a rappresentare valori universalmente riconoscibili pur definiti da un punto di vista culturale in maniera assai precisa.

C’era anche chi sperava si tornasse ad osannare un cinema disturbante e scandaloso, come quello tentato con indubbio successo da “La favorita”. Resta dunque un interrogativo d’importanza capitale, forse destinato a rimanere insoddisfatto: a distanza di anni, quando ricondurremo la mente ai 91esimi Academy Awards, Green Book” sarà fra i primi titoli che busseranno alla porta della nostra memoria?

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

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