iSole aMare: Emma Fenu intervista Cristina Muntoni, l’avvocata della Dea

La rubrica “iSole aMare si propone di intervistare isolani che della propria condizione reale e metaforica abbiano fatto cultura, arte e storia ponendosi in comunicazione con il mondo: nessun uomo è un’isola o forse lo siamo tutti, usando ponti levatoi?

Cristina Muntoni

Sono l’Isola. Ma sono magica e infinita: non mi puoi cingere tutta.

Non mi puoi spostare, non mi puoi unire alla terraferma, non puoi possedermi. Puoi solo essere accolto, sederti alla mensa del mio corpo di sabbia e granito, mangiare dalla mia bocca le bacche del piacere e della nostalgia, fino a inebriarti, fino ad essere anche tu me. Ed allora ti fermerai per sempre, mi guarderai nelle pupille di basalto immerse nel cielo degli occhi e diverrai pietra.

Sarò la tua Medusa, con filamenti trasparenti danzerò per te negli abissi, ti brucerò di passione e non sarai più libero, nemmeno quando te ne sarai andato lontano, remando fino allo sfinimento, e il mare fra noi sarà un siero diluito con sangue di memoria e con lacrime di speranza.

Tu mi hai toccato, ora ti tendo le mani io.

Tu mi hai baciato, ora cerco il tuo sapore su di me.

Tu mi hai guardato: ora scruto l’orizzonte come una Didone abbandonata.

Tu mi hai annusato: ora raccolgo dalle fauci del maestrale il tuo polline per i miei favi.

Tu mi hai seguito: ora calo un ponte levatoio solo per te.

Tu mi hai atteso, ora ti attendo io.”  Emma Fenu ‒ “L’isola della passione”

 

Isole Amare.

Terre Femmine dispensatrici di miele e fiele, con un cuore di granito e basalto e capelli bianchi di sabbia che si spandono nel mare come le serpi di Medusa che, secondo la leggenda, un tempo della Sardegna fu sovrana.

Isole da Amare.

Terre Madri e Spose che squarciano il cuore di nostalgia, tirando il ventre dei propri figli con un cordone ombelicale intrecciato di mito, memoria e identità.

iSole aMare.

Sole che scalda e dà vita oppure che brucia e secca, negando l’acqua.

Mare che culla e nutre oppure che disperde e inghiotte, imponendo l’acqua.

 

La rubrica “iSole aMare” si propone di intervistare isolani che della propria condizione reale e metaforica abbiano fatto cultura, arte e storia ponendosi in comunicazione con il mondo: nessun uomo è un’isola o forse lo siamo tutti, usando ponti levatoi? A questa domanda implicita i nostri ospiti, attraverso parole, note e colori, saranno invitati a rispondere.

La rubrica è stata inaugurata da Paolo Fresu, hanno seguito Claudia Zedda, le fondatrici di LibriamociPier Bruno CossoGrazia FresuCristina Caboni, Maria Antonietta Macciocu, le sorelle Francesca e Marcella BongiornoFranca Adelaide Amico, Anna MarcedduSilvestra Sorbera, Nadia ImperioAnna SantoroSalvina VilardiMarina Litrico, Tatiana PaganoGavino PuggioniGabriella Raimondi, Giuseppina Torregrossa, Francesca Mereu, Francesca Guerrini, Claudia Musio, Paola Cassano, Giulia Baita ed Olimpia Grussu.

Oggi è il turno di Cristina Muntoni, cagliaritana, studiosa di storia, attivista sociale, Ambasciatrice del turismo d’affari del Principato di Monaco e scrittrice. Le piace definirsi Avvocata della Dea perché, dopo aver esercitato per 15 anni la professione forense, si è dedicata allo studio della storia della Sacralità Femminile.

Nei prossimi mesi la sua ricerca sarà pubblicata in un libro che si inserisce in un progetto che sta sviluppando in collaborazione con l’Università di Cagliari nell’ambito del progetto EOS, Emerging Organization-Ship, per i ricercatori e le ricercatrici che intendono avviare imprese partendo dalla propria ricerca.

Identità

Cristina Muntoni – Emma Fenu

Probabilmente questa parola dovrebbe stimolare a parlare di sé, ma a me evoca immediatamente qualcos’altro: la terra in cui abito e il termine “appartenenza”. Vivere in Sardegna significa avere un’identità legata all’isola, come se le persone che la abitano siano, in qualche modo, l’isola stessa. Credo che dipenda da qualcosa di più profondo del campanilismo e sia legato a una consapevolezza che assorbiamo vivendoci, quasi per osmosi. Non so esattamente come avvenga, ma sentiamo che il solo fatto di nascerci e di abitarla ci renda automaticamente depositarie e depositari di un’eredità culturale millenaria che, in qualche modo, forgia la nostra identità. È molto difficile da spiegare a chi non vive in un’isola, ma è come se appartenere a una terra circondata dal mare e da orizzonti diventi parte dell’identità dei suoi abitanti, anche al di là della propria personale unicità. Da adolescente credevo che questo fosse un limite, come se potesse in qualche modo autodefinirmi, costringermi dentro confini che avrebbero limitato il mio essere. Un po’ come se questa identità di appartenenza isolana potesse diventare un’etichetta oltre la quale il mondo non avrebbe potuto guardare e il mio Sé non si sarebbe potuto esprimere liberamente. Ma poi ho capito che, invece, per la formazione della propria identità, l’insularità con tutto il suo bagaglio di valori di appartenenza, è un vantaggio. In fondo, è come nascere avendo già un suggerimento pronto per la grande domanda esistenziale del “chi sono?”. Partiamo già con un pezzo di risposta pronta in tasca: “sono la storia della mia terra e, come l’isola, mi chiudo e mi proteggo dalle invasioni, ma sono anche esposta al mare e al vento, pronta e aperta al cambiamento continuo e in contatto costante con la natura”. Al di là di questo fondamento identitario, il proprio Sé può esprimersi, ma quella base resta forte e chiara. Credo di aver raggiunto la consapevolezza piena che la mia appartenenza all’isola sia un vantaggio in termini di costruzione della mia identità, quando ho letto Grazia Deledda. Non parlo tanto, o non solo, dei suoi romanzi e delle novelle, ma delle sue centinaia di lettere private che ho letto per scrivere di lei nel primo volume di Sardegna al Femminile (ed. L’Unione Sarda e La Donna Sarda). Volevo raccontarla in modo inedito, andando oltre la letteratura. Volevo raccontare la donna e la mia ricerca partiva dalla sua vita e da una mia curiosità urgente. Volevo scoprire come sia stato possibile che una donna con la quarta elementare, cresciuta in un tempo e in un luogo in cui anche solo leggere i giornali bastava a guadagnarsi il sospetto e la riprovazione generale, potesse aver vinto il Premio Nobel per la letteratura. Avere talento non basta, ci vuole un caleidoscopio molto variegato di elementi e circostanze. Come aveva fatto? Qual era il suo segreto? Quello che ho trovato è racchiuso proprio nella parola identità. Coltivava una fittissima corrispondenza con persone che vivevano fuori dall’isola e questo le fece vedere tutto il bagaglio culturale in cui era immersa secondo un altro angolo visuale. Visto dall’esterno, tutto ciò che siamo e che diamo per scontato, diventa improvvisamente speciale e scopriamo che è ciò che ci contraddistingue e ci rende esseri unici. Lei aveva raggiunto questa visione e della sua identità da isolana fece la sua forza. Ciò che a certi occhi poteva sembrare un limite, lei lo trasformò in una grandiosa opportunità. Il suo segreto è stato proprio riconoscere la sua identità, farne un punto di forza e raccontarla con orgoglio e talento costruito sull’equilibrio tra il vederla da fuori, come se ne fosse estranea, e la visione interna legata all’appartenenza. Per me, scoprirlo è stato un viaggio elettrizzante alla scoperta non solo di lei, ma anche di me stessa. Osservarci dall’esterno è un esercizio interessante e molto arricchente. È stato un lavoro di cui sono orgogliosa. E anche questo atteggiamento di riconoscere valore ai propri risultati al di là dell’umiltà a cui, secondo la cultura patriarcale, dovremmo relegare tutti i nostri gesti, è qualcosa che ho imparato da lei. La scrittrice ed editrice Neria de Giovanni, che ho citato nel libro, premiò questo lavoro a Roma e l’artista Stefania Morgante mi dedicò uno dei suoi magnifici foulard dove dipinse il volto della Deledda dichiarando di dedicarlo “allo spirito indomito delle isolane” e di aver pensato a me per realizzarlo. In qualche modo, potrei dire che questi sono stati i miei Nobel.

 

Tradizione

Studiare la storia della Sacralità Femminile mi ha permesso di approcciarmi a diversi livelli di lettura delle tradizioni e di capire quale importanza fondamentale abbiano avuto per la conservazione di antichi Saperi e dell’identità culturale di interi popoli. Per fare un esempio pratico, l’antica tradizione delle donne egiziane fedeli al culto di Iside di allacciare i lembi di stoffa del proprio vestito in modo da formare il tiet, o nodo di Iside, raggiunse la sua massima diffusione proprio quando arrivarono i dominatori stranieri e la civiltà egizia iniziò il suo implacabile declino. Ecco che un dettaglio legato alla tradizione rituale venne amplificato ed enfatizzato per affermare la propria identità e il legame con il proprio credo, la propria religione e la magia, proteggendo la propria storia attraverso il valore simbolico di un gesto. In quel caso c’era la consapevolezza del perpetrare e conservare l’identità attraverso la tradizione. In altri casi avviene inconsapevolmente, come quando c’è il ripetersi ciclico di tradizioni di cui gli stessi officianti hanno perso memoria dei significati originari. Ma anche qui l’importanza delle tradizioni è enorme perché diventano capaci di trasmettere conoscenze antiche attraverso un linguaggio narrativo che va oltre le parole e lo stesso significato che gli viene attribuito da chi le preserva. Il carnevale sardo, ad esempio, è ricchissimo di significati sottotraccia pronti a svelarsi a chi conserva la voglia di coglierli andando al di là di ciò che appare. Questo è un lavoro di ricerca che mi appassiona al punto di averne fatto il centro della mia ricerca e del mio progetto di divulgazione.

 

Innovazione

Mi appassiona molto lo studio dei simboli e spesso mi ritrovo a collegare le parole ad immagini e viceversa. Questa parola per me è legata fortemente alle altre due che mi hai chiesto di descrivere. Tutte assieme mi fanno pensare alla figura dell’albero in cui le radici (che simboleggiano il passato e la memoria che possiamo vedere anche nella tradizione) e le sue fronde (simbolo dell’evoluzione, del futuro e della proiezione del Sé) sono connesse tra loro dal qui e ora della nostra identità. Sono molto legata alla figura simbolica dell’albero, sia per lo studio cabalistico dell’albero della vita che per il fatto che sia il simbolo della mia famiglia e lo porto sempre addosso perché è l’incisione di un anello che non tolgo mai. È come se il simbolo dell’albero ci suggerisse un equilibrio tra tradizione e innovazione per trovare il modo di esprimere il nostro essere e che tutti questi elementi siano legati e interconnessi. Nessuna fronda può essere rigogliosa se non ci si prende cura delle radici. Nessuna radice ha ragion d’essere se non si lavora per farla evolvere innovando se stessi.

 

Isola

Vivere in un’isola mi ha insegnato che i limiti sono opportunità. Sono nata e cresciuta davanti al mare che, se da un lato è un limite alla libertà di movimento fisico, dall’altro è un enorme stimolo al movimento interiore e intellettuale perché, anche in un modo inconsapevole, l’orizzonte ti spinge a desiderare di scoprire cosa ci sia al di là, ti spinge alla conoscenza e ti fa crescere un fuoco indomabile per il bisogno e il desiderio di connetterti con l’altrove, a recepirlo come un nutrimento e a comunicare quello che sei, che vuoi e che hai appreso. L’isola è una lente di ingrandimento sul proprio Sé e sull’Oltre. L’orizzonte ci circonda completamente, non ti lascia scampo e ti costringe a farci i conti di continuo. Questo non puoi ignorarlo quando ci vivi davanti. È come un foglio bianco in cui si manifesta tutta la dimensione del possibile e del potenziale del nostro essere. È una tensione continua e stimolante tra l’essere e il divenire. Questo mi porta ad amare la mia isola in un modo vivo, esattamente come se fosse una persona in carne e ossa. Ne conosco l’odore, l’umore, i tratti con cui non sono d’accordo e quelli di cui non posso fare a meno. Ne riconosco tutto il valore, mi affligge non vederlo pienamente celebrato e lavoro per farlo conoscere. Sto dedicando la mia vita a un progetto che sto sviluppando con l’università tramite il quale voglio far conoscere la Sardegna al mondo come isola della Dea. Ho iniziato a raccontarlo con una rubrica video che si chiama Le Storie della Dea, con pubblicazioni (come la rubrica #sacredwoman su ShoppingMag) e presto inizierò con incontri che vorrei fare anche fuori dalla Sardegna oltre a molte altre novità che piano piano svelerò nei miei canali social e nel sito. Abbiamo una storia millenaria legata alla Dea Madre che è un tesoro inestimabile, ma noi stessi non ne abbiamo piena consapevolezza. Se fosse diverso, vivremmo di turismo tutto l’anno e non esisterebbero luoghi di incredibile interesse storico abbandonati a se stessi come le Domus de Janas per salvare le quali sto collaborando col Centro Studi di Identità e Memoria della professoressa di Storia e Protostoria della Sardegna, Giuseppa Tanda, per far sì che siano riconosciute come Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco (creando una petizione oltre ad aver attivato la procedura istituzionale che speriamo superi il severo vaglio della Commissione). Abbiamo l’abitudine di pensare all’isola come un punto fermo, chiuso, immobile e distante dal resto, dimenticando che la sua origine etimologica rimanda al movimento, all’agitazione e allo scorrere dei flutti. In questo senso possiamo collegarla al pantha rei di Eraclito e al suo elogio del divenire. Isola è movimento, è identità che nasce dall’oscillazione continua fra tradizione e innovazione. Chi la abita le assomiglia.

 

Written by Emma Fenu

 

Info

Rubrica iSole aMare

Sito Cristina Muntoni

Facebook Cristina Muntoni

Petizione Domus de Janas

Sito ShoppingMag

 

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