Viaggiatori Arabi nella Sicilia medievale, il naufragio di una nave nello Stretto di Messina narrato da Ibn Giubayr
“La mattina del primo dello stesso mese noi ci siamo trovati di faccia, con gran piacere, il Monte di Fuoco, ossia il famoso vulcano di Sicilia.” – Ibn Giubayr, Rihla (Il Viaggio)
Ibn Giubayr nacque a Valencia nel 1145 dove studiò scienze religiose e letteratura e diventò funzionario nell’amministrazione del wālī di Granada.
Nel 1183, pare a seguito di una crisi mistica, partì da Granada per intraprendere il pellegrinaggio verso la Mecca. Toccò nelle sue tappe Ceuta e da qui si diresse, passando per la Sardegna, la Sicilia e Creta, verso l’Egitto, al fine di dirigersi poi verso la Penisola Araba navigando lungo il Mar Rosso.
Nel 1184, al ritorno dal suo lungo viaggio che lo aveva portato a soggiornare per nove mesi alla Mecca e, quindi, a Baghdad, Mosul e Aleppo passò ancora per la Sicilia, dove a seguito del naufragio della nave su cui viaggiava, soggiornò fino al febbraio 1185.
Nel suo resoconto di viaggio che chiamò Riḥla (“Il Viaggio”) descrisse l’isola, all’epoca sotto dominazione normanna, descrivendo la grande intelligenza e tolleranza del sovrano Guglielmo II detto “il Buono” che (come i suoi predecessori e i suoi successori) non si privò intelligentemente degli importanti apporti culturali e tecnologici garantitigli dai suoi sudditi musulmani.
Il genere di letteratura di viaggio proposta da Ibn Giubayr, divenne tanto famoso nel mondo arabo-islamico da fungere da modello per le successive generazioni di scrittori-viaggiatori, e in particolare per Ibn Baṭṭūṭa, per al-Maqrīzī e per Ibn Faḍlān. Ibn Giubayr, effettuò altri due lunghi viaggi nell’ecumene islamica ma i suoi scritti non ci son pervenuti in lingua italiana.
La traduzione italiana del Riḥla fu eseguita da Celestino Schiaparelli (1841-1919), l’unico allievo di Michele Amari (1806-1889), di cui ricordiamo il libro “Storia dei musulmani di Sicilia”. Grazie all’opera di questi due traduttori arabisti, nel 2001 è stato pubblicato “Viaggiatori Arabi nella Sicilia medievale”, edito da Edi.bi.si.
Attraverso le descrizioni e le osservazioni fatte in prima persona da Ibn Hawqal, al-Idrīsī e Ibn Giubayr, possiamo ripercorrere circa due secoli di storia geografica medievale dell’isola di Sicilia.
Dalla narrazione di Ibn Giubayr del suo secondo passaggio nell’isola, abbiamo selezionato la cronaca del naufragio del veliero che lo riportava da Alessandria d’Egitto verso l’Andalusia assieme ad altri pellegrini e viaggiatori. Il fatto è avvenuto la notte del 9 dicembre 1184 nello Stretto di Messina:
“Giorno 2, mese del riverito ramadhân (del 580 dell’egira = 6 dicembre 1184)
La luna nuova di questo mese comparve la notte del venerdì (7 dicembre) mentre noi si bordeggiava in alto mare di faccia alla suddetta Gran Terra (la penisola italiana).
La mattina del primo dello stesso mese noi ci siamo trovato di faccia, con gran piacere, il Monte di Fuoco, ossia il famoso vulcano di Sicilia.
Facemmo vela da que’ paraggi con vento propizio; se non che la sera del sabato, due del mese anzidetto, il vento, ringagliardito, diè alla nave tale spinta che portolla di peso alla bocca dello Stretto, in sul far della notte. In questo Stretto, il mare si restringe tanto che [la distanza] tra la Gran Terra e l’Isola di Sicilia si riduce a sei, ed in un posto anco a tre miglia. Serrata in sì angusto spazio e forte incalzata, l’acqua cala con sì furiosa corrente da rassomigliarsi a quella dell’inondazione di ‘Al Arim e bolle come fosse in una caldaia posta sul fuoco. Assai difficile, pertanto, riesce alle navi il tragitto. La nostra continuava il suo orso, cacciata dal vento meridionale tra la Gran Terra a destra, e la Sicilia a manca, quando verso la mezzanotte della domenica, tre di questo mese benedetto, arrivati presso la città di Messina, dell’isola suddetta, levaronsi improvvisamente le grida de’ marinai: che il vento ci trasportava di forza all’una o all’altra spiaggia, e che il legno correva a dare in secco. Comanda il pilota di calar le vele incontanente; ma quella dell0albero che chiamiamo ‘al ardimûn (artimone), non volle venir giù: vi s’arrabattavano e non ne venivano a capo, tanto gagliardo soffiava il vento. Accortosi che i marinai non poteano, il pilota si mette con un coltello ad affrappare la vela a pezzo a pezzo, sperando di riuscire. Tra questo armeggio il legno toccò terra con la chiglia ed anco co’ suoi due timoni, che sono come le gambe su le quali si reggon le navi. Scoppia allora a bordo un grido spaventevole: e in vero ci sovrastava il gran caso, lo strappo che noi non potevamo risarcire, il corpo fatale contro cui non ci valeva il coraggio. Indi i Cristiani a tapinarsi disperatamente; i Musulmani a rassegnarsi tranquilli al decreto del Signore: che non si potean appigliar, né affidare ad alrto che alla fune della speranza d’una vita futura. Già il vento e le onde assalivano il fianco della nave: spezzossi un timone. Il pilota, gittò una delle ancore che avea, sperando potersi reggere su quella, e com’ei vide che non giovava, corì troncò risoluto il calumo e lasciò l’ancora in mare. – Ibn Giubayr, Riḥla (“Il Viaggio”)
L’autore esordisce subito con dei dati precisi sulla data, riportata nel suo diario, e, cosa molto importante per ricostruire la scena dell’incidente, sulle osservazioni riguardanti la luna: Il pilota si è avventurato nello Stretto di Messina con la luna nuova, in piena marea sizigiale, ossia nel momento in cui l’escursione fra l’alta e la bassa marea è al massimo livello.
Ciò è provocato dall’avvicinamento della Luna al pianeta Terra, ma anche in occasione del plenilunio o del novilunio. In queste condizioni, la Terra, la Luna e il Sole risultano allineati, col risultato di far sommare le forze d’attrazione gravitazionale dei due corpi celesti sul nostro pianeta.
Quella notte, la corrente di marea era la più forte che il pilota potesse incontrare. Non siamo a conoscenza della classe di imbarcazioni a cui apparteneva la nave su cui viaggiava l’autore, ma Ibn Giubayr ci dà degli importanti dettagli tecnici: il veliero armava un doppio timone laterale, e un artimone, una vela quadra che si armava sotto al bompresso, a prua della nave, e che serviva a dare maggior governabilità e aiutare i timoni.
Compiendo una grande imprudenza, al buio completo, per sfruttare la marea, e forse per scampare a qualche dazio, il pilota ha decretato la fine della sua nave: il forte vento, e un problema nella manovra dell’artimone son stati fatali. Probabilmente, dopo aver urtato il fondale, la nave ha cominciato a imbarcare acqua sino ad incagliarsi, gettando nel panico l’equipaggio e i passeggeri.
Prosegue poi la narrazione dei fatti:
“Fatti certi che l’ora era venuta, ci levammo, preparammo gli animi alla morte; fissammo i pensieri ad affrontarla con coraggio e si stette ad aspettare il mattino, o l’ora estrema. I bambini e le donne levavan più forti le strida chiamando soccorso; mancava già in tutti costoro la rassegnazione ai voleri divini.
Vedendoci sì vicina la terra, or pensavamo di buttarci a nuoto per afferrar la riva, or ci parea meglio aspettare se mai la salvezza ci venisse da Dio con lo spuntare del giorno.
I marinai aveano accostato l’usciere[1] alla nave per trarne ciò che loro più premea, gli uomini loro, le donne, la roba: e lor venne fatto spinger a terra quella barcaccia la prima volta; non però di ricondurla alla nave: l’onda la buttò a terra e se la riprese fatta in pezzi. Allor sì che ci parve perduta ogni speranza per le nostre vite.”
L’equipaggio tenta di evacuare la nave utilizzando il piccolo battello di servizio della nave, ma disgraziatamente, questo si è infranto sugli scogli. Non viene riportata la sorte dei naufraghi della scialuppa. Impossibilitati ad abbandonare la nave, a bordo la disperazione cresce sempre più.
“Rosseggiando l’aurora, venne da Dio l’aiuto e lo scampo. “È egli vero o non è vero?” noi si dicea, vedendoci di faccia, a men di mezzo miglio, la città di Messina, dalla quale al far della notte eravamo sì lungi!
Levatosi il sole ci vennero ad aiutare de’ barchetti; corse il grido del pericolo nostro per la città intera; lo stesso Guglielmo re di Sicilia venne in persona, accompagnato da’ suoi grandi a vedere il miserando caso.
Ci volevamo noi affrettare a scendere ne’ barchetti; ma le onde non li lasciavan accostare alla nave: talchè lo sbarco pose suggello al grande spavento durato, e il nostro salvamento dal mare può rassomigliarsi al caso di Abû Nasr quando campò al destino. Si perdette della roba, ma il piacere di ricogliersi a casa fe’ dimenticare la ruberia sofferta.
Ammirevol fatto di beneficienza in quest’incontro ci fu narrato. Il re Cristiano, di cui testè abbiam detto, s’accorse che i Musulmani poveri aspettavano lì su la nave pericolante non avendo di che pagare i barcaiuoli, i quali avean rincarato il prezzo di lor opera, or che si trattava di salvar la vita.
Guglielmo informossi del caso e saputolo, largì a quegli infelici cento ruba ‘î della sua moneta a fin di pagare lo sbarco: e così egli liberò tutti i Musulmani, senza averne pur un saluto. Eglino dissero bensì “lode a Dio signore dei mondi”.
Al secondo giorno i marosi ruppero la nave in pezzi e la gittarono a terra: singolare spettacolo ai riguardanti, e miracolo a chi ci riflettea sopra. Mirabile in vero ci parve il nostro salvamento dal naufragio.” ‒ Ibn Giubayr, Riḥla (“Il Viaggio”)
Nella sfortuna, tuttavia, il veliero naufragato fu avvistato, e alcune imbarcazioni giunsero in soccorso. I naufraghi vennero tratti in salvo dietro pagamento del trasbordo. Sembra l’ultima beffa, ma il gruppo di naufraghi approda in terra amica: Guglielmo II in persona, che si trovava a Messina, si recò sul luogo del naufragio, e pagò personalmente il salvataggio dei naufraghi.
Guglielmo II era il successore di Ruggero II d’Altavilla, che attrasse intorno a sé i migliori uomini di ogni etnia, come il geografo maghrebino al-Idrīsī, lo storico Nilus Doxopatrius, il poeta ʿAbd al-Raḥmān al-Itrābānishī che ricopriva anche il ruolo di segretario e altri eruditi ancora.
Alla sua corte vediamo uomini come l’anglo-normanno Thomas Brun nella Curia, il greco Cristodulo nella flotta e il bizantino Giorgio di Antiochia, che nel 1132 fu fatto amiratus amiratorum (Ammiraglio Comandante in capo della flotta).
L’atmosfera che regnava nella Sicilia di Guglielmo II d’Altavilla non era per tanto ostile agli ambienti interculturali, e il nuovo Re mantenne nel regno una completa tolleranza per tutte le fedi, razze e lingue. Come il padre, anche Guglielmo fu servito da uomini di ogni nazionalità tanto che l’arabista e storico siciliano Michele Amari affermò nei suoi scritti:
“E pur l’universale della popolazione non aborriva per anco i Musulmani (…) la voce del muezzin non facea ribrezzo nelle grandi città (…) onde gli eunuchi, gaiti o paggi che dir si vogliano, esercitavano gli ufficii di corte sotto quel velo sottilissimo d’ipocrisia che li facea apparire cristiani (….) Guglielmo accogliea con onore i Musulmani stranieri, medici e astrologhi e largìa denaro a’ poeti (…) i Musulmani soggiornavano in alcuni sobborghi senza compagnia di Cristiani; un qâdî amministrava la loro giustizia; frequentavan essi le moschee e ciascuna era anco scuola: fiorivano i loro mercati (…)”
Ancora Ibn Giubayr, nella sua Riḥla (Il Viaggio), ricorda come nel terremoto del 1169, egli s’aggirasse nella reggia affermando ai suoi diversi servitori:
“Che ciascuno preghi il Dio ch’egli adora! Chi avrà fede nel suo Dio, sentirà la pace in cuore”.
Written by Claudio Fadda
Note
[1] Piccolo battello di servizio, atto allo sbarco.