“Enrico Dandolo” di Maria Carolina Campone: una biografia mancata

A questo punto, la sua biografia – a meno di non volerla confondere con una storia di Venezia tout-court – entra in una fase in cui è ben difficile distinguerla dal contesto che le fu proprio, così come individuare con esattezza le sue responsabilità dirette” – Maria Carolina Campone

Enrico Dandolo

Enrico Dandolo fu il quarantunesimo doge della Repubblica di Venezia, eletto in tardissima età, il 21 giugno 1192. Sfruttando al massimo l’occasione offerta dalla IV crociata, riuscì prima a riconquistare Zara e poi a prendere Costantinopoli, gettando le basi dell’impero coloniale veneziano.

Saranno tuttavia delusi i lettori e gli studiosi di storia che leggendo il titolo si aspetteranno una biografia del doge Dandolo, al quale solo nel 4° capitolo vengono dedicate poche pagine dall’autrice Maria Carolina Campone, PhD in storia e critica dell’Architettura, docente a contratto presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, e docente di lingue classiche presso la Scuola Militare “Nunziatella” di Napoli.

Il libro presentato da Graphe.it Edizioni, nella collana “I Condottieri” si rivela piuttosto un saggio storico che condensa il ruolo della Repubblica Serenissima nella IV Crociata, attraverso l’analisi degli storiografi veneziani come Martino da Canale (XIII sec.), e un approccio analitico ma poco critico alle interpretazioni degli storici dell’ultimo secolo, in una visione pienamente eurocentrica e venetocentrica, che poco considera la contestualizzazione negli assetti politici e mercantili del Mediterraneo e soprattutto del Medio Oriente dell’epoca, quando nel 1170 il doge Vitale II Michiel nominò Enrico Dandolo, allora settantasettenne, bailo di Costantinopoli.

Qui Enrico giunse accompagnato dal fratello Giovanni, dopo aver lasciato l’amministrazione dei beni di famiglia alla moglie e a Filippo Falier della parrocchia di San Tomà. Venne ricevuto dall’imperatore Manuele I Comneno, che gli concesse il titolo onorifico di protosevasto.

Il 21 marzo 1171, però, l’Imperatore decise improvvisamente di porre fine al sempre più arrogante controllo commerciale veneziano ordinando l’immediato arresto di tutti i Veneziani presenti nei territori bizantini (10.000 residenti nella sola colonia di Costantinopoli) e la confisca dei loro beni e delle loro navi.

Stando alle cronache, nel corso della fuga da Costantinopoli, Enrico Dandolo avrebbe perso parzialmente o totalmente la vista. Secondo altre fonti, ciò sarebbe accaduto nel corso di un’accesa discussione con l’Imperatore, in cui sarebbe rimasto ferito a un occhio.

Questa menomazione non impedì tuttavia al Consiglio della Serenissima di nominarlo doge della città il 21 giugno 1192, già ultraottantenne, di salute cagionevole, e ormai quasi totalmente privo della vista.

L’autrice vuole vedere in lui “un prototipo di riscatto moderno in una temperie di pieno medioevo, in cui la caducità del fisico denotava scadimento morale con conseguente emarginazione sociale. L’attualità di Dandolo, per la contemporaneità odierna, è piuttosto inverata dall’opposizione crescente nel corso del Medioevo, tra Occidente e Oriente”.

Una elezione moderna e illuminata? Una scalata al riscatto sociale e al potere in chiave moderna? Niente affatto. In una Venezia in cui le famiglie patrizie mercantili nutrivano diversi interessi e numerose rivalità, acuite dalle ostilità di Costantinopoli verso i mercanti veneziani, si erano formati dei “partiti” per i quali il possesso della carica dogale poteva fare la differenza.

Enrico Dandolo parlamenta con Alessio V Dukas – Gustave Dorè

Per contro, il Consiglio, che aveva il reale controllo della città e della Repubblica, tendeva sempre più a ridurre il peso della figura del doge, neutralizzandone di fatto ogni mira egemonica. Per questo venivano nominati dei candidati deboli e privi di carisma, circondandoli da un consiglio severissimo che ne limitava le mosse con una serie di vincoli che venivano formalizzati con le “promissio”, sulle quali il doge doveva giurare e sottoscrivere prima di poter assumere la carica.

La vecchiaia e la cecità, affiancate da una grande esperienza nei territori bizantini, rese Dandolo il candidato ideale per succedere al doge Orio Mastropietro. Nella sua promissio, Enrico Dandolo si obbligava a governare con il consenso del Maggior Consiglio e della maggioranza dei membri del Minor Consiglio, e di non intromettersi mai nella scelta del Patriarca di Grado e dei vescovi lagunari, a non avere rapporti diretti con le potenze straniere, e ad armare a sue spese dieci navi da guerra.

Una realtà che ridimensiona assai l’immaginario collettivo, in cui la tradizione ci ha trasmesso la figura dogale come di un essere onnipotente che si occupa in prima persona di ogni cosa ed in ogni campo. Nell’analisi dell’autrice, non sfuggono tuttavia le mire espansionistiche veneziane, e la strategia di Enrico Dandolo.

Quando Papa Innocenzo III indisse la quarta crociata, Venezia accettò di appoggiare i Crociati con la sua flotta, per la cifra di 87.000 marchi, come riporta lo stesso messo crociato Goffredo di Villehardouin, inviato a trattare a Venezia, il quale poi si unì alla spedizione militare.

L’occasione è ghiotta, e il piano del Consiglio è pronto a scattare: il doge accetta a patto che lui e metà dei cittadini in armi della Repubblica, possano unirsi alla spedizione, con la possibilità di reclamare la metà del bottino di tutto ciò che sarebbe stato conquistato.

Quando i Crociati arrivarono a Venezia, tuttavia, i denari pattuiti non erano stati ancora ottenuti dalla Serenissima. Fu compito del Conte delle Fiandre e del Marchese di Monserrato raccogliere quanto più denaro possibile.

Dandolo ‒ qui scatta la sua genialità ‒ rinuncia alla sua quota di denaro, e, in cambio dello sconto economico, reclama dei servigi militari da parte dei Crociati. La flotta, composta da 50 galee, conquista così Trieste, Muggia, e la Dalmazia con la presa di Zara. Proprio a Zara, il deposto principe di Costantinopoli Alessio IV, promette ai Crociati denaro e terre se fosse stato aiutato a tornare sul trono. La flotta viene prontamente dirottata su Costantinopoli, e, alle porte della città, lo stesso Goffredo di Villehardouin riporta quanto dichiarato da Dandolo durante l’assemblea dei capi, prendendo di fatto il coordinamento delle operazioni militari: “Signori, io conosco molto più di voi lo stato di cose di questo paese, poiché ci son stato già tante volte”.

Durante i primi burrascosi mesi dalla conquista della città, Enrico Dandolo, pur ormai vecchissimo e debilitato dal lungo viaggio via mare, riuscì ad ottenere ampi vantaggi per Venezia, stando sempre attento a non far coinvolgere eccessivamente la Repubblica nella situazione politica interna dell’ormai decadente impero bizantino.

Maria Carolina Campone

Le vicende relative alle riforme monetarie di Enrico Dandolo, alla sua morte, ai patti stretti con le armate straniere, alla presentazione dello stesso Dandolo nella storiografia medievale, sono invece – inspiegabilmente per una biografia – relegate in tre schede alla fine del libro.

Enrico Dandolo morì a Costantinopoli all’età di 98 anni. Fu sepolto nella galleria del matroneo della basilica di Santa Sofia. Secondo i racconti popolari costantinopolitani, dopo la conquista della città da parte dei turchi nel 1453, la sua tomba fu aperta e le sue ossa furono gettate in pasto ai cani.

Così Goffredo di Villehardouin descrisse Dandolo che guidava l’assalto veneziano:

“Stava ritto tutto armato a prua della sua galera, con davanti lo stendardo di san Marco, ordinando a gran voce ai marinai di portarlo prestamente a terra, o li avrebbe puniti a dovere; sicché quelli approdarono subito, e sbarcarono con lo stendardo. Tutti i veneziani seguirono il suo esempio: quelli che stavano nei trasporti dei cavalli uscirono all’aperto, e quelli delle navi grandi salirono sulle barche e presero terra come meglio poterono.”  ‒ Goffredo di Villehardouin

 

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