“La Tempesta” di Shakespeare diretto da Daniele Salvo con Ugo Pagliai e Melania Giglio in scena al Globe di Roma
“Our revels now are ended. These our actors,/ As I foretold you, were all spirits and/ Are melted into air, into thin air:/ And, like the baseless fabric of this vision,/ The cloud-capp’d towers, the gorgeous palaces,/ The solemn temples, the great globe itself,/ Ye all which it inherit, shall dissolve/ And, like this insubstantial pageant faded,/ Leave not a rack behind.” – William Shakespeare – The Tempest
Il Teatro di Shakespeare è una combinazione magistrale di estratti di realtà: non propone mai un surrogato, ma un sapiente distillato. Mesce, questo è certo, umori, riflessioni sapienziali, filosofia e pragmatismo: la sua è una reazione umana all’umanità di chi vive in scena.
Sarebbe ingiusto, forse un po’ ingenuo, credere davvero che Shakespeare non si serva degli attori per parlare d’altro, per parlare, cioè, della realtà senza fare però naturalismo, benedetto com’è dalla sua purezza pre-borghese.
La grazia di Shakespeare è come un monte la cui sommità rimane nascosta dalle nubi: parrebbe impossibile raggiungerla, ma il desiderio di scorgerla e di affacciarvisi è così potente da rendere qualsiasi ostacolo, storico e metastorico, una sfida irrinunciabile da attraversare e da cui farsi attraversare.
Da questa grazia sembra avvolta la messinscena de “La Tempesta” diretta da Daniele Salvo, in scena al Silvano Toti Globe Theatre di Roma dal 21 settembre al 7 ottobre 2018. L’impianto scenico straniante di Alessandro Chiti propone una lettura shakespeareana intensa, sospesa tra le pieghe oniriche delle vele di una nave che naufraga, senza però schiantarsi davvero tra gli scogli e tra la concretezza di un tempio sacro che si spezza, crolla, solleva la polvere dei libri che custodiscono il segreto del potere sul tempo e sullo spazio.
Prospero, che Ugo Pagliai rende concreto, robusto, aggrappato alle parole come se fossero le pietre dell’isola di cui è divenuto il master (o magister) in contrasto con la sua vocazione e tensione spirituale, sta in scena per sancire la fatica estrema del drammaturgo e del direttore di scena, di quello che noi italiani chiamiamo il regista.
È davvero la realtà che si lascia condurre? O è piuttosto la farsa della conduzione a condurre i conduttori?
Il gioco è questo, oggi più attuale che mai: quante volte ci si lascia dominare, credendo di essere i dominatori, da rivelazioni e prospettive alterate, interpretazioni astratte di una realtà assai più semplice di ciò che ci piace credere?
È il giocatore a condurre il gioco? O ne è giocato?
Pagliai rende questa contraddizione dando a Prospero sguardi rapidi, presenza non statica, ma assolutamente radicata: mentre costruisce la trama addosso agli altri personaggi, il Duca di Milano destituito si prepara a lasciare la scena, a cedere il passo a quella razionalità ricompositiva tanto cara a Shakespeare. Come se, con questo suo ultimo salto attraverso le forze del bene e del male, Shakespeare stesso si prepari a fare un passo indietro per poter osservare meglio le dinamiche, non più certo, fino in fondo, della possibilità di scindere le due forze in campo.
Perché, più che un congedo vero e proprio, quello che si delinea è un mutamento di intenzioni. Prospero non cede mai, sino alla fine gestisce il movimento della tempesta, ma nel finale muta il proprio talento: la sua smania di costruzione si fa azione contemplativa del nuovo equilibrio.
E il gioco, il play, in questo caso non ha trame parallele: l’unità temporale, quella spaziale, labirintica, si fonda sulla distanza, relativa, falsata che i naufraghi dilatano nel tentativo di sciogliere l’incanto. Spetta ad Ariel, non a caso spirito e soffio, incarnazione del metateatro stesso, del servilismo innocente che nasconde la tragicità dell’azione, il compito di muovere, burattino-burattinaio, le sorti degli altri personaggi.
Melania Giglio attinge ad una ampia gamma di vibrazioni vocali, di movimenti leggeri, testimoni di quella grazia tutta shakespeareana che sta nascosta tra le nubi, complice la coreografia di Micha Van Hoecke: si fonde con il corpo di ballo, se ne stacca con un passo più fluido e più scattante del precedente.
La medesima leggerezza della scenografia che drappeggia vele scosse dal vento si trova nei costumi di Gianluca Sbicca che valorizzano l’essenza e contestualizzano ciascun ruolo.
In particolare, l’uso delle maschere rende gli spiriti ambigui come angeli e impalpabili come demoni: prole di un pensiero che riconosce nella più lieve fantasia del sogno, l’ombra lugubre dell’incubo.
Si amalgamano così anche le musiche originali di Marco Podda.
Proiezioni sofisticate complici dell’ampio volo della Giglio sono anche le luci di Umile Vainieri, forse sovrabbondanti in alcuni casi, perché troppo aderenti a ciò che Prospero o Ariel raccontano e attraversano con il corpo, probabilmente nella volontà nobilissima di mostrare realisticamente l’azione demiurgica del teatro sulla realtà.
Le creature di tenebra sono colte in tutta la loro comicità disarmante, nell’umorismo dissacrante di Calibano (un duttile Gianluigi Fogacci che usa al meglio la pasta della propria voce), ingenuamente corrotto dal vino di Trinculo (Marco Simeoli) e Stefano (Mimmo Mignemi): i tre attori si fondono trovando una intonazione puntualissima, mai eccessivi, porgono con la giusta misura quella malinconica necessità, proprio tutta umana, di sofisticare il retrogusto più amaro in un sorriso beatamente forzato.
Il gruppo dei nobili naufraghi possiede la medesima misura nel delineare il disincanto delle dinamiche di corte: Simone Ciampi, Martino Duane, Mauro Marino e Carlo Valli mantengono alta la tensione in un contrappunto davvero riuscito.
Nel complesso, ciò che rimane è la piacevole omogeneità ritmica e sonora in cui tutti gli attori sono coinvolti: sì, il play regge perché tutti fanno la propria parte con disinvolta consapevolezza, e ciò consente di capire e godere dell’allusione metateatrale shakespeareana anche se, paradossalmente, di Miranda (Valentina Marziali) si colga poco l’essenza multiforme e visionaria (si spengono presto gli spasmi indecifrabili in una dolcezza abbozzata in modo pulito ma convenzionale) e in Ferdinando (Tommaso Cardarelli) sfugga la profonda tensione erotica che nel testo muta in un impegno matrimoniale e politico sacralizzante.
Written by Irene Gianeselli
Photo by Marco Borrelli
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