“In my country” di John Boorman: l’apartheid, l’ubuntu e l’appoggio di Nelson Mandela
“Un film bellissimo ed assai importante sulla storia del Sudafrica e sulla Commissione per la verità e la riconciliazione. Interessante non solo per gli abitanti del Sudafrica, ma anche per le persone di tutto il mondo, che saranno coinvolte dai grandi interrogativi dell’umanità quali la riconciliazione, il perdono e la tolleranza…” ‒ Nelson Mandela

È nel percorso degli eventi che hanno portato il Sudafrica ad affrancarsi dall’apartheid che si inserisce il film drammatico In my country.
Diretto dal regista John Boorman, In my country ha avuto un’ampia accettazione da parte di Nelson Mandela, che ha contribuito a promuoverne la visione. Uscito nelle sale cinematografiche nel 2004, la sceneggiatura è stata curata da Ann Peacock, la quale ha attinto al libro di memorie di Antjie Krog, Terra del mio sangue.
Protagonisti del film sono i fatti che sono seguiti all’emancipazione del Sudafrica dalla sopraffazione esercitata dai bianchi sui neri, per cui Nelson Mandela ha pagato un prezzo altissimo. A segnare la sua vita, infatti, sono stati lunghi anni di detenzione e battaglie memorabili, intraprese anche dal carcere.
Da un suo iniziale atteggiamento per fronteggiare una realtà al limite del surreale, con il metodo della non violenza, Nelson Mandela è passato a una diversa forma di ribellione, impiegando quale sistema di lotta lo scontro armato. Per sopraggiungere infine, dopo lunghe e sofferte riflessioni, a comprendere che l’unica via d’uscita per ottenere l’autodeterminazione, sarebbe stata quella della pacificazione. Pacificazione, che contemplava il concetto di perdono per le gravi prepotenze subite.
Una riconciliazione con i bianchi, quindi, voluta da Nelson Mandela e dall’arcivescovo Desmond Tutu. Da mettere in atto per strappare il paese a ulteriori tensioni e scontri fra le diverse etnie, i quali avrebbero funestato un territorio già lacerato e sottoposto a condizioni di degrado umano e sociale indicibili.
Siamo nel 1996 all’epoca dei fatti raccontati nel film, e il passaggio di consegne fra i bianchi, detentori del potere, e gli autoctoni è già avvenuto.
Ma, per evidenziare con maggior chiarezza lo svolgersi degli eventi, è opportuno soffermarsi brevemente sul ruolo che ha avuto la Commissione, organo istituito nel 1996 con uno scopo ben preciso. Non punitivo, onde evitare conseguenti e inutili spargimenti di sangue. Ma il cui compito era, attraverso le dichiarazioni sia dei carnefici come delle vittime, quello di far affiorare i crimini commessi durante gli anni della segregazione razziale.
I lavori della Commissione non erano rivolti a istruire un processo, bensì a raccogliere una serie di testimonianze dei persecutori che dovevano dare prova di aver eseguito gli ordini per motivi di governabilità.
Nel film In my country i testimoni principali che rendono le loro deposizioni sono appartenenti alle forze di polizia che, con le loro testimonianze, in certi casi crude, fredde, senza alcun accenno di partecipazione emotiva, suscitano nei familiari delle vittime che non hanno visto tornare i loro congiunti a casa, amarezza e ribellione insieme.
Coloro che hanno partecipato a sevizie e torture hanno l’obbligo di rendere noto e confessare alla Commissione i reati compiuti, dichiarandosi pubblicamente pentiti delle loro malefatte: unico modo per ottenere l’amnistia.

L’obiettivo primario della Commissione, mettendo a confronto vittime e aguzzini, è quello di generare quasi un rito di purificazione tramite l’ubuntu, termine nobile per il popolo africano.
Ma cosa esprime l’espressione ubuntu?
Ubuntu è espressione che sta a indicare la comunione che dovrebbe scaturire dai rapporti tra gli esseri umani, ed è un principio il quale contempla che le azioni di ciascuno ricadano su tutta l’umanità, nel bene come nel male. Ed è un concetto aderente alla tradizione delle popolazioni nere dell’Africa che racchiude in sé una religiosità e, nel contesto dei fatti in questione, diventa elemento imprescindibile per i lavori della Commissione.
Ma, veniamo brevemente alla trama del film che, sul filo della memoria, percorre gli eventi che hanno fatto da spartiacque fra un prima e un dopo. Dove il prima è rappresentato dall’apartheid, e il dopo è il momento della Riconciliazione.
“Grazie a voi questa terra non ci divide più…”
Langston Whitfield (Samuel L. Jackson), interprete principale, è un giornalista afro americano del Washington Post inviato in Sudafrica per realizzare un reportage sulla Commissione per la verità e la riconciliazione; strumento per cui Nelson Mandela e l’arcivescovo Desmond Tutu si sono battuti oltremodo.
“Nelson Mandela ci ha insegnato queste lezioni… scriva quello che sta succedendo in Sudafrica…”
Ad affiancare il giornalista nel suo viaggio nei meandri dell’apartheid è Anna Malan (Juliette Binoche), poetessa e giornalista anch’essa, incaricata di seguire le fasi processuali e far conoscere al suo pubblico la verità, ovvero i soprusi messi in atto dai bianchi sui neri.
Anna è una donna sensibile e impegnata, ed è attenta a far emergere una realtà che, per quanto scomoda, va raccontata. Al fine di fare del Sudafrica un paese completamente democratico e in grado di intraprendere un percorso di crescita che fino ad allora gli è stato precluso.
Inevitabilmente fra i due si crea una sintonia, un’affinità emotiva che li porta a partecipare in modo viscerale alle deposizioni rilasciate davanti alla Commissione.
Ed è in un’alternanza di sentimenti contrastanti, dove si scontrano attrazione e respingimento, che si consuma la storia d’amore fra Anna e Langston; storia che pare non poter usufruire di un approdo soddisfacente.
“Quando c’è amore non c’è rimpianto, anche se non c’è ritorno”
Nel frattempo, Langston, con il fiuto del buon giornalista, scandaglia la realtà sudafricana fino ad arrivare al colonnello De Jarger (Brendan Gleeson), ex-militare e acceso sostenitore dell’apartheid.
Da lui ottiene un’intervista esclusiva, durante la quale il colonnello dichiara di non essere pentito delle atrocità commesse. L’uomo si mette a nudo con il giornalista con l’unico scopo di beneficiare dell’amnistia, che però la Corte di Città del Capo gli rifiuta, in quanto colpevole di numerosi omicidi.
“Non prova niente colonnello per le persone che ha trucidato? Che diceva a sua moglie tornando a casa?…” ‒ Langston Withfield
“Ho ucciso per il mio paese…” ‒ Colonnello

Mentre in un crescendo emozionale si sviluppa la storia sentimentale fra i due giornalisti, altre scomode verità, che riguardano anche il fratello di Anna, si palesano fatalmente.
“Io l’ho fatto per noi, per la nostra gente, Anna…”
In conseguenza della quale la giovane donna cade vittima di un grave stato di prostrazione. Anche se afrikaaner, la donna è vicina alle vittime, da lei considerate come la sua gente, e vive intensamente la loro tragedia di popolo sottomesso.
“Hai le mani sporche di sangue…” ‒ Anna
Ma non è solo Anna ad accusare uno stato d’animo negativo, anche Langston è preda di un conflitto interiore che mette in discussione il suo presente, così sbigottito di fronte a un tipo di giustizia pronta a perdonare malefatte di così vasta portata.
Sconcertato, si interroga sul suo ruolo di giornalista, di uomo e di afro americano; elemento quest’ultimo che lo rende maggiormente sensibile e partecipe al dramma che ha colpito la gente del Sudafrica.
In my country è un film verità che invita a profonde riflessioni, e che ricorda in parte la pellicola Nelson Mandela, il cammino verso la libertà.
È film che accompagna lo spettatore per mano con lo scopo di fargli conoscere ciò che ha rappresentato l’apartheid, e la difficile evoluzione per uscire da quel crogiuolo di inaudita violenza che ha fatto numerose vittime.
“Una persona è tale grazie ad altre persone…”
Written by Carolina Colombi