“Hotel Rwanda” film di Terry George: il genocidio degli anni ’90 degli Hutu e Tutsi
“When the world closed its eyes, he opened his arms” ‒ Tagline film
Diretto dal regista Terry George Hotel Rwanda è film che racconta in maniera drammaticamente fedele del genocidio avvenuto in Rwanda negli anni ’90.
Realizzato nel 2004, dieci anni dopo gli avvenimenti che hanno visto le etnie Hutu e Tutsi protagoniste di una guerra civile che ha insanguinato il loro territorio, Hotel Rwanda è tratto da una storia vera.
Ed è attraverso la storia personale del protagonista, Paul Rusesabagina (Don Cheadle), che lo spettatore si addentra nelle vicende politiche e umane di un conflitto grave e insanabile, come quello che ha segnato in maniera indelebile il Rwanda del XX secolo.
Ma, le motivazioni che hanno dato origine a uno dei più crudeli e violenti genocidi di cui si ha memoria non sono di facile identificazione, e neppure interpretabili alla luce di ciò che è stato tramandato in Occidente dai mezzi di informazione.
Hutu e Tutsi, in lotta fra di loro fin dai tempi della dominazione belga, quando i belgi abbandonano il paese sono gli Hutu a detenere il potere; a quel punto fra le due etnie scoppia un sentimento di vendetta inenarrabile.
Quando poi, nel 1994, il presidente del Rwanda viene assassinato, l’episodio diventa la causa scatenante per dare il via a violenti scontri degli uni contro gli altri. Nonostante sul territorio ci sia la presenza dei Caschi Blu dell’Onu per mantenere la pace.
Seppur i torti e le ragioni non siano stati facilmente individuabili, motivo che ancora oggi non ha permesso di distinguere la vittima dal persecutore, perché alcune zone d’ombra avvolgono tuttora la questione, di un fatto si ha certezza: gli Hutu hanno sterminato gran parte della popolazione Tutsi, causando almeno un milione di morti.
“Nessuno verrà a salvarci: non ci saranno forze d’intervento. Possiamo solo salvarci da soli. Molti di voi hanno conoscenze influenti all’estero: per favore chiamate queste persone. Dovete dire quello che ci accadrà. Dite loro addio, ma fatelo come se li raggiungeste attraverso il telefono e gli afferraste la mano. Devono avvertire che se lasciano andare quella mano, voi morirete. Devono arrossire di vergogna. Aiutarci dev’essere un obbligo.” ‒ Paul Rusesabagina
Oltre a riferire della violenza che si è consumata in quella porzione di suolo africano, quello che il film vuole sottolineare è la storia coraggiosa del direttore dell’hotel, Paul Rusesabagina, di etnia Hutu, che non ha esitato a prestare l’albergo, gestito da lui, quale luogo di rifugio per numerose persone. Affinché fosse loro evitata la morte. Facendosi paladino della causa di coloro che non avevano alcun diritto.
Di etnia Hutu, Paul è protagonista e testimone al contempo del dramma che schiaccia il suo paese; ma ciò che lo spinge a prender parte attiva agli avvenimenti, è il fatto che gli scontri toccano da vicino la sua famiglia.
Dapprima, i disordini politici hanno sfiorato la tranquilla vita di Paul e della moglie Tatiana (Sophie Okonedo), fino a quando l’uomo si è trovato coinvolto, suo malgrado, in vicende esterne al proprio contesto familiare.
Nel frattempo l’hotel era diventato anche sede delle forze Onu, arrivate a Kigali, capitale del Rwanda, per sedare la rivolta. Rivolta che è scoppiata in tutta la sua forza virulenta.
Sarà il cognato di Paul, di etnia Tutsi, a far partecipe il direttore dell’albergo di un evento determinante che darà l’avvio a uno dei genocidi fra i più sanguinosi che abbiano bagnato l’Africa: una frase emblematica, dal significato sinistro, sarà il segnale che dà origine al conflitto: poche parole da trasmettersi alla radio. Un ordine perentorio che arriva a sconquassare un territorio già fragile e preda degli occidentali, che hanno messo in atto un’enorme sperequazione.
“Tagliate gli alberi più alti”
Sconcertato e incredulo, Paul non vuole dar credito alle parole del cognato, e frena il suo progetto di fuggire all’estero.
Purtroppo, invece, le parole riferitegli corrispondono a verità.
E saranno queste a incitare la folla che si sente chiamata in causa per partecipare a una violenza delirante e senza confini. Ma, ormai è troppo tardi perché Paul e la sua famiglia possano fuggire all’estero: i disordini si diffondono rapidamente e il paese viene travolto da una guerra civile senza pari.
A essere determinante nello svolgersi degli accadimenti sarà un episodio, significativo, più di altri.
Accade che una sera, tornando a casa, l’uomo venga messo di fronte a una realtà di difficile accettazione: nascosti dalla moglie nella propria abitazione, alcuni suoi vicini di casa hanno trovato rifugio dall’incombere della violenza. Perplesso, Paul non ha intenzione di accettare lo stato di cose, così concentrato soltanto sulla salvezza della propria famiglia che, il mattino successivo, viene arrestata insieme ai rifugiati.
L’uomo cerca in tutti i modi, leciti e meno leciti, il più comune dei quali è corrompere il comandante della polizia, di ottenere la liberazione della sua famiglia.
“Non sia stupido generale! A chi vuole che creda la gente! Se ne sta lì con le sue cinque stelle nel petto…” ‒ Paul…
In cerca di salvezza sono molti i profughi che sfuggono al controllo dei ribelli Hutu, con la speranza di trovare presso l’albergo un rifugio sicuro dalla ferocia Hutu.
A quel punto, anche se titubante, Paul sente di dover rispondere alla propria coscienza e si impegna per ospitare quante più persone possibili nella struttura alberghiera. Certamente corre un grosso rischio, perchè stabilire con i soldati, in maggioranza Hutu, un dialogo ragionevole non è cosa facile.
Con l’Onu invece si confronta con il colonnello canadese Oliver (Nick Nolte) che ha a cuore il destino dei rifugiati; i due, in una sinergia d’intenti, si affrontano in un dialogo diplomatico, per risolvere una situazione che pare senza soluzione.
Nel frattempo, due reporter, a cui è stato impedito di riprendere gli avvenimenti, usciti dall’hotel filmano la carneficina che si sta consumando per le strade di Kigali; realtà che raggiunge l’Occidente ma che, a livello internazionale, non tocca le coscienze. Anzi, Onu e USA pongono il veto sulla questione.
Dunque, soli e barricati nell’albergo, è Paul che deve assumersi una responsabilità che non gli compete e scendere a compromessi con i ribelli, al fine di traghettare i profughi.
Mente con ogni mezzo cerca di ottenere protezione dalla polizia per sé e per i rifugiati, attraverso anche la compagnia belga proprietaria dell’hotel.
Ma, in seguito alla diminuzione delle forze Onu, l’uomo capisce che il legame del Rwanda con l’Occidente si sta per spezzare, lasciando alle vittime ben poca speranza di sopravvivenza.
Quando l’Onu riesce a predisporre un aereo per evacuare parte dei rifugiati, fra cui Paul e la sua famiglia, il direttore, cosciente della ‘missione’ di cui adesso si sente completamente incaricato, non parte.
Attaccato dagli Hutu, che ne vogliono impedire la partenza, l’aereo sembra non poter decollare, ma grazie a una brigata dell’esercito e al contingente Onu i ribelli vengono fermati.
Ancora in prima linea, in difesa dei rifugiati, Paul tratta con il capo della polizia che vorrebbe altro denaro ma, impotente di fronte alla richiesta, Paul gli promette soldi e whisky. A quel punto il capo della polizia vorrebbe darsi alla fuga insieme a lui.
Ma sarà con un velato ricatto che Paul risolve la drammatica situazione, e salva i profughi da morte certa.
Sarà infine in un’equazione d’affetti che si conclude la vicenda umana di Paul e della sua famiglia.
Gli esterni di Hotel Rwanda sono stati girati a Kigali, mentre gli interni a Johannesburg, in Sud Africa.
Paul, il protagonista, ha partecipato in qualità di consulente alle riprese filmiche.
Il personaggio del colonnello Oliver si ispira alla figura del generale Romeo Dallaire, ufficiale canadese dell’Onu.
“Quando la gente, cari telespettatori, mi chiede ‘perchè odi i Tutsi’, io rispondo: leggete la nostra storia. I Tutsi erano collaboratori dei coloni belgi, avevano preso le nostre terre e ci avevano preso a frustate, ora questi ribelli sono tornati e sono scarafaggi, sono assassini. Il Rwanda è terra degli Hutu, noi siamo la maggioranza…” ‒ Dall’introduzione a inizio film
A conclusione del commento, qualche riflessione su di una pellicola cui sono stati tributati numerosi e importanti riconoscimenti.
Non c’è alcuna intenzione polemica alla comunità internazionale nel film Hotel Rwanda, semmai, attraverso le vicende personali di Paul Rusesabagina si parla alla coscienza del singolo, dello spettatore in questo caso. Gli antefatti geopolitici, peraltro complessi e di non facile interpretazione, sono stati volutamente trascurati nel film, in cui vengono mostrati, invece, i fatti degli anni ’90, palesati in tutta la loro crudezza, e affatto edulcorati.
Un elemento che più di altri si evince dalla narrazione filmica è, che dalla visione, la quale racconta di un Olocausto per certi aspetti simile a quello degli Ebrei, si fa largo una considerazione sul sistema dell’informazione in genere. Lo spettatore è infatti portato a interrogarsi sulla funzione della cosiddetta ‘libera informazione’, che forse libera come si vuole far credere non è.
Perché la narrazione di fatti storici importanti, come appunto quello del genocidio in questione, è stata volutamente trascurata dal sistema dell’informazione occidentale.
Infine, un’ulteriore domanda, forse scomoda, ma necessaria.
È stata necessaria una pellicola, di straordinaria valenza testimoniale, per far conoscere una realtà che avrebbe dovuto essere presa maggiormente in considerazione? Se non altro quale deterrente, perché vicende di tale inaudita crudeltà non si ripetano più.
La storia personale ed emotiva di Paul Rusesabagina porta alla memoria un altro film, anch’esso testimonianza del disgraziato XX secolo.
Quello che racconta delle vicende di Oskar Schindler, nell’intensa pellicola Schindler’s list. Quindi, confronto assolutamente legittimo, vista l’assonanza dei due personaggi portati sullo schermo.
Anche se di contesto ambientale e storico diverso, le pellicole sono legate da un unico filo conduttore: quello del sopruso di uomini su altri uomini, e salvati dal buon cuore del singolo.
Anche Oskar Schindler, come Paul Rusesabagina, ha risposto prontamente alla sua coscienza che gli suggeriva, rischiando la vita, di sollevare un numero considerevole di ebrei dalla follia nazista, che ne aveva decretato una morte certa.
Esempi da seguire di uomini coraggiosi, perciò. E insegnamenti di cui fare memoria, al fine di non dimenticare.
Written by Carolina Colombi