“Perché insegnare l’italiano ai ragazzi italiani. E come” di Paolo E. Balboni: sapere, saper usare, saper riflettere

Paolo Ernesto Balboni, oggi decano dei docenti di lingue nelle università italiane, è nato nel 1948 a Sestola, in provincia di Modena. Studioso di glottodidattica, autore di numerosi saggi sulla didattica dell’italiano come L”, ha fondato il Laboratorio ITALS Italiano come Lingua Straniera.

Perché insegnare l’italiano ai ragazzi italiani. E come

Al suo impegno nel campo dell’educazione linguistica, nella ricerca di nuove modalità e strumenti, si deve l’ampia diffusione delle unità didattiche intese non più in senso tradizionale, consequenziale, ma flessibili e relazionate in una rete di unità che consentano l’apprendimento senza sequenze prestabilite. È direttore del Centro di Ricerca sulla Didattica delle Lingue presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e presidente mondiale della Fédération Internazionale des Professeurs de Langues Vivantes.

Nasce e vede le stampe nel 2017 il nuovo saggio del prof. Balboni Perché insegnare l’italiano ai ragazzi italiani. E come, edito da Marsilio nella collana Elementi. 2017, anno denso circa lo status dell’insegnamento e della conoscenza della Lingua italiana tra i giovani italiani; forse non più denso di altri, ma certo animato da appelli e risposte consegnati a un pubblico mirato, di esperti, ma nel contempo anche a uno più vasto, mediante la forma scritta, ufficiale, irrevocabile, da affondare, in qualche modo.

Partiamo, dunque, nell’analizzare la struttura dell’opera, dalla sua Appendice, costituita da due documenti che hanno offerto un ulteriore spunto propulsivo per la pubblicazione del lavoro di Balboni: in primo luogo, datato 4 febbraio 2017, l’“appello dei seicento” (Gruppo di Firenze) indirizzato a presidente del Consiglio, Ministro dell’Istruzione e Parlamento, firmato da seicento docenti universitari.

Non è la prima volta che i docenti si trovano a riflettere sulla conoscenza della lingua dei ragazzi italiani che spesso giungono all’Università senza saper padroneggiare le abilità di lettura, scrittura e comprensione di testi, nonché nella difficoltà di una corretta ed efficace comunicazione orale.

Così i docenti universitari, denunciando l’annosa problematica, sottolineano come alcuni atenei da tempo abbiano anche attivato dei corsi di recupero che consentano ai giovani di colmare le lacune linguistiche che, trattandosi di una lingua madre, non dovrebbero nemmeno essere contemplate in ambito universitario.

Si lamenta la carenza di interventi da parte del Governo in materia e la loro inadeguatezza, quando vi siano stati. L’attenzione viene posta sulla necessità che si raggiunga un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base al termine del primo ciclo scolastico.

Pertanto la richiesta avanzata è che si provveda a una revisione delle indicazioni nazionali, si introducano verifiche nazionali periodiche negli otto anni del primo ciclo, con la partecipazione alle verifiche da parte di docenti dell’ordine di scuole immediatamente superiore per stimolare un confronto professionale.

Il 7 febbraio 2017 viene trasmessa la risposta della Società di Linguistica Italiana, mediante la persona della prof. Maria G. Lo Duca che, forte di decenni di insegnamento di Lingua italiana tra scuole medie inferiori, superiori e università, esprime parziale dissenso circa i contenuti dell’appello dei seicento.

Questo perché essi partono dall’assunto che le strutture della lingua si debbano apprendere e consolidare tra i 6 e i 14 anni circa, con un apparente disinteresse sul dopo. Invece l’apprendimento della lingua, soprattutto delle abilità complesse (…) non si dà una volta per tutte: è un processo lungo e complesso che riguarda tutta la vita scolastica di un individuo, starei per dire tutta la vita di un individuo.

L’analisi lucida prosegue con l’individuazione di ciò che a livello universitario si dovrebbe fare nel campo della formazione a una scrittura specialistica, per esempio, o della preparazione di futuri docenti di lingua italiana nelle scuole. Al riguardo è gravissima la quasi totale assenza di insegnamenti quali Lingua italiana o Grammatica italiana, come pure della Didattica dell’italiano.

Così il prof. Balboni, partendo dalla considerazione che i rilievi, mossi dai seicento docenti delle più varie discipline, provengano da inesperti della natura, dei fini, dei contenuti e dei modi dell’educazione linguistica, considera comunque utile l’ennesima lamentela sulle competenze linguistiche dei giovani perché ha dato voce a un comune sentire, giustificato o ingiustificato, nonché per il fatto di aver provocato la risposta di esperti, glottodidatti e linguisti, che ha avuto, però, poca eco sulla stampa.

Paolo E. Balboni

Per Balboni manca una riflessione sulla natura dell’impoverimento linguistico, l’analisi delle cause è spesso banale, ridotta ad additare la scuola lassista, la mancanza di dettati e di analisi grammaticale, logica, del periodo (…).

Balboni, con lucidità scientifica indica come invece sia fondamentale capire se ci sia stato davvero un impoverimento della competenza comunicativa in italiano, e in tal caso capirne il perché e studiare come invertire la tendenza.

Il piano dell’opera, quindi, pur frutto di un trentennio di studi, andando a inserirsi in un ampio e variegato dibattito, è stato articolato su due livelli, uno più accessibile anche ai non addetti ai lavori, l’altro, più specialistico e scientifico, i cui contenuti sono inseriti nelle note.

Si affronta in prima battuta la questione fondamentale: cosa si intenda con “sapere l’italiano”, per passare a individuare in che cosa debbano consistere le motivazioni allo studio dell’italiano da parte di un preadolescente che già usa l’italiano. Ciò deve necessariamente passare attraverso la disamina dei livelli, delle modalità, delle finalità dell’usare la lingua, appuntando l’attenzione sul ruolo dell’insegnante, da un lato, e sulla figura dello studente, nelle sue variabili individuali.

La dimensione cognitiva, dunque, viene affrontata nelle sue differenti componenti, dal riflettere, all’analizzare, al classificare.

Attraverso blocchi tematici chiari, schematizzati anche attraverso diagrammi e tabelle, Balboni torna, poi, al nodo della questione: “insegnare l’italiano” ha due significati: insegnare a usare l’italiano e insegnare come funziona l’italiano.

Nel primo caso l’ostacolo è di tipo motivazionale, in studenti che fin dalle scuole medie posseggono strumenti linguistici in maniera sufficiente a soddisfare le loro esigenze comunicative, rivolte sempre più al gruppo dei pari, per cui non interessati da particolari sfide di qualità ed efficacia della comunicazione. Il percorso dovrà quindi partire dalla presa d’atto dell’incompletezza delle capacità di comprendere, produrre, manipolare la lingua.

Nel secondo caso, invece, si dovrà lavorare sulla qualità dell’italiano, compreso, prodotto o manipolato, analizzando e classificando il lessico, arricchendo la competenza, sensibilizzando alla necessità di maggior precisione, a cogliere sfumature più sottili. Individuati differenti atti comunicativi, poi, classificare espressioni sarà utile all’aumento delle capacità funzionali, dando importanza alla scelta di un adeguato registro linguistico.

Le ulteriori riflessioni sulla lingua (morfologia e sintassi di frase e periodo) se non migliorano nell’immediato la qualità linguistica degli studenti, sono indispensabili nell’educazione cognitiva.

Dunque, dall’apparente contraddizione sorge, invece la motivazione più logica: lavoriamo sull’italiano proprio perché lo sai già, perché è nella tua mente.

 

Written by Katia Debora Melis

 

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