“Ya basta, hijos de puta!” personale di Teresa Margolles: sino al 10 giugno al Pac di Milano
“Lavoro con i corpi/ e con ciò che di loro resta,/ con le loro tracce” ‒ Teresa Margolles, artista
“Ciudad Juaréz è il luogo emblematico/ della sofferenza delle donne” ‒ Rita Laura Segato, antropologa

Ed è proprio da Ciudad Juaréz, città di frontiera tra Messico e Stati Uniti, balzata agli orrori della cronaca per l’interminabile sequenza di donne sequestrate, violentate, torturate, molte mai ritrovate e alcune (soprattutto, ma non solo, le transessuali) neppure mai cercate, che parte il lavoro di Teresa Margolles (Culiacán,1963).
In mostra al Pac di Milano fino al 10 giugno, ci sono 14 installazioni che denunciano un sistema patriarcale di dominio sui corpi, siano essi femminili, femminilizzati o dei migranti, come grimaldello del neo-liberismo e modo di controllo del territorio da parte del crimine organizzato.
Corpi spesso anonimi, come quelli dei migranti morti nel tentativo di attraversare il confine, ricordati nell’installazione Gran America, un memoriale con i ciottoli e il fango del Rio Grande o nell’installazione 57 cuerpos, residui di fili utilizzati nelle autopsie annodati tra loro a costituirne uno unico.
L’artista ha infatti un background di medicina legale ed utilizza materiali assolutamente sinestesici come fluidi corporei (la serie Papeles è composta da 92 fogli di carta da acquerello immersi nell’acqua di scarico che ha assorbito sangue e grasso delle salme) o l’acqua con cui vengono lavati i cadaveri negli obitori: così Mesa y dos bancos (cioè un tavolo e due panche posti di fronte all’ingresso del Pac) sono stati costruiti proprio con l’acqua utilizzata da un obitorio di Città del Messico mentre l’installazione Vaporizacion diffonde acqua vaporizzata con i frammenti di lenzuola funebri di vittime di morte violenta, presi in un obitorio di Milano.
Ma ci sono anche corpi (forse) ancora vivi come quelli di Busqueda, una ricostruzione delle pensiline di Juárez con affissi volantini di donne e bambine scomparse, o di Pistas de Baile, nove fotografie di transessuali sui resti di discoteche ormai demolite in una gentrification che ha provocato solo rovine: ed infatti il curatore della mostra Diego Sileo le definisce: “non come dei “ritratti” ma come elementi del paesaggio di macerie che li circonda”.

In realtà ce ne sarebbero dovute essere dieci: ma Karla, collaboratrice dell’artista e punto di riferimento della comunità transgender, è stata uccisa nel 2015.
A lei viene dedicata un’intera sala rosso carminio con una gigantesca foto in bianco e nero, una pietra (simbolo di quella roccia che le ha fracassato il cranio) e le testimonianze audio di chi ne ha ritrovato il corpo, tradotte e lette per l’occasione da una transessuale italiana.
Una denuncia cruda ed estremamente lucida delle dinamiche criminali in Messico dove la corruzione è diventata a pieno titolo una componente essenziale dello Stato e dove seguendo i corpi delle donne uccise e lasciate ai margini delle strade (ed il titolo della mostra “Ya basta, hijos de puta!” è la frase trovata incisa sul corpo decapitato di una donna a Tijuana, messaggio per “marcare” il proprio territorio) si scoprono le nuove rotte della criminalità.
Una denuncia per creare, prima ancora che indignazione, consapevolezza.
Written by Monica Macchi
Photo by Monica Macchi
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