Il Sessantotto, stagione fra utopia e realtà
Non è facile raccontare del fenomeno socioculturale che va sotto il nome di Sessantotto. Che, a cinquant’anni di distanza, suscita ancora dibattiti e interrogativi.
Su come si è originato, sugli obiettivi che si era preposto e sull’eredità che ha lasciato. Ma, per capire il significato di cui il movimento è stato investito occorre fare un balzo indietro, lì dove hanno trovato spazio i presupposti che hanno fatto del Sessantotto una stagione di cui non si possono ignorare le conseguenze.
“Il Sessantotto è stato il primo esplicito anticipo dalla globalizzazione”. ‒ Marco Revelli
Era il 1964 quando all’università di Berkeley (California), noto centro di studi e luogo d’élite per definizione, scoppiò una protesta studentesca senza precedenti.
Tumulti giovanili, che unirono studenti dei diversi campus universitari in virtù di obiettivi comuni. Il più urgente dei quali era fermare la guerra del Vietnam, conflitto che si protraeva ormai da troppo tempo.
Iniziato nel 1965, il conflitto che si stava consumando in Asia sollecitava reazioni di dissenso da ogni parte.
Erano in molti a criticare il modello americano che si faceva paladino di tutelare la cosiddetta ‘democrazia’ in zone politicamente difficili, anche se lontane dall’influenza americana.
L’elemento propulsore che diede il via ai primi disordini fu un tragico episodio, tragico più di altri: il massacro di My Lai, villaggio vietnamita dove ebbe luogo una strage che vide i soldati americani uccidere civili disarmati, bambini, donne e vecchi. Episodio che indignò il mondo intero, in conseguenza del quale si reclamava il ritiro delle truppe americane.
Gli studenti americani condannavano l’uso della guerra in toto, quale concetto generale, e nel particolare chiedevano la smobilitazione immediata dell’esercito americano. Ritiro che si compirà soltanto nel 1975 dopo un lungo e inutile conflitto.
A quel punto, la conta di morti e di feriti sarà purtroppo copiosa, sia per i vietnamiti come per gli americani. Con il risultato finale di circa 60mila americani morti, 2milioni di vietnamiti e 300mila feriti.
Accanto alla questione asiatica, di sicuro impatto viscerale, se ne affiancavano altre che, secondo i giovani americani, necessitavano di cambiamento. Problematiche che sollevarono una protesta che non si spense in tempi rapidi, anche perché le questioni riguardavano una moltitudine di gente che avvertiva il bisogno di risanare una società arretrata.
La questione razziale, per esempio, di cui si chiedeva a gran voce il superamento, diventò uno dei principali motivi di scontro.
Già attivo all’inizio degli anni ’60, il movimento per i diritti civili a favore della gente di colore raccoglieva intorno a sé un sentimento di malcontento, convogliato e incanalato dal reverendo Martin Luther King in un tipo di protesta che contemplava il principio della non violenza.
Per gli afroamericani la richiesta di pari diritti coi bianchi era urgente; non era più tempo ormai di procrastinare la totale integrazione dei neri in una società attributo soprattutto dei bianchi.
Obiettivo principe del movimento capeggiato da Luther King era rivendicare il principio di uguaglianza. E perciò l’abolizione di qualsiasi discriminazione attraverso riforme da attuarsi in breve tempo.
Con la nutrita partecipazione di massa alla marcia della pace di Washington del 1963 pareva aprirsi uno spiraglio, un nuovo modo d’intendersi sollecitato solo dalla forza delle idee.
Quello intrapreso dal reverendo, infatti, era un percorso da realizzarsi attraverso la non violenza, tralasciando ogni forma di aggressione. Percorso testimoniato anche dalla sua celeberrima frase: I have a dream.
Parole che suonavano come una dichiarazione di pace per il loro intrinseco contenuto sociale e umano, orientato a difendere le classi più vulnerabili, parte di una società detentrice di molte iniquità.
Ma il sogno in cui credeva King non sarà di facile compimento: perchè nello stesso 1968 una mano armata metteva fine all’ancor giovane vita del reverendo.
Stessa sorte fu riservata a Robert Kennedy, fratello del presidente già assassinato a Dallas nel 1963, che cadeva anch’esso sotto i colpi di arma da fuoco.
Azioni criminose che davano la misura del clima di violenza che si respirava nell’America di quegli anni.
Ma i disordini sociali ed emotivi non erano appannaggio soltanto americano. Dagli Stati Uniti la protesta si spostava in Europa in un’ondata di inquietudini che si diffuse un po’ dappertutto, fino a scuotere molti degli atenei europei.
Herbert Marcuse, Theodor Adorno e Max Horkeimer, con le loro critiche alla società del consumo ebbero una notevole influenza sul Sessantotto; furono, infatti, considerati i padri intellettuali di quello che sarà un fenomeno fra i più variegati del ‘900, oltre che simbolo di una rivoluzione sociale e di costume inedita. Accanto a loro, anche modelli di rivoluzionari di spessore: Rosa Luxemburg o Ernesto Guevara, il Che, fra questi.
Dapprima, le contestazioni si concentrarono nelle università che, occupate da studenti e operai, uniti nella protesta contro un sistema sociale in cui non si riconoscevano più, manifestavano la loro avversità al modello capitalistico di stampo americano esportato in tutto il mondo.
In Francia, il movimento di ribellione rimarrà nell’immaginario collettivo come il ‘maggio francese’, emblema di una rivolta estremamente virulenta; tanto che dalle università la protesta si trasferì nelle strade, dove vennero erette barricate che tennero in scacco il governo del generale De Gaulle.
Nel frattempo in Cecoslovacchia intervenivano fatti a determinare un inasprimento dei rapporti fra Unione Sovietica e i paesi suoi satelliti. Sarà la cosiddetta ‘primavera di Praga’ a essere ricordata come un momento di grave crisi istituzionale, quale risposta al tentativo del premier Alexander Dubcek di introdurre nel paese, già d’influenza sovietica, un socialismo dal volto umano.
“Dubcek svoboda…” – “Dubceck libertà…”
Sarà il grido della popolazione ceca, di fronte alla repressione sovietica soffocata nel sangue.
A fare le spese della drammatica situazione, più di altri sarà uno studente: Jan Palach che, quale estrema ratio, al fine di protestare per l’entrata dei carri armati sovietici in territorio ceco, si darà fuoco. Azione che, oltre alla morte del giovane, provocò scontri con la polizia che si conclusero con numerosi feriti, vittime di un inutile massacro.
Se in Francia la protesta era rientrata nei ranghi della normale contestazione, in Italia, invece, si manifestava con un dissenso che diventava elemento di denuncia di una società caratterizzata da un esempio ben preciso di capitalismo: quello americano, in cui interveniva, da parte dell’Italia, anche una sorta di sottomissione psicologica, una reminiscenza dovuta agli aiuti americani ricevuti dal paese per la sua ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale.
Da questo momento la politica entrava nelle case di tutti, cambiavano le dinamiche familiari e lo stile di vita di molti giovani che, vestiti con jeans ed eskimo, erano la rappresentazione plastica dei principi del Sessantotto.
“L’immaginazione al potere…” ‒ Slogan popolare
Il ‘miracolo economico’, che investì il paese Italia negli anni ’60, si era ormai concluso, e molti giovani del sud si spostavano al nord in cerca di un’occupazione impossibile da trovare nei loro luoghi d’origine.
Un’ondata migratoria che creava un ulteriore disagio, innescando una serie di manifestazioni di carattere sociale e politico che, negli anni a seguire, generarono forme di estrema violenza.
La politica era motivo di contestazione perché non rispondeva ai bisogni della gente, ed era rivolta innanzitutto contro i partiti della sinistra tradizionale e contro i sindacati, indicati anch’essi quali responsabili del vigente malessere sociale, perché assorbiti e inseriti nel sistema. Il potere politico manifestava il suo volto peggiore, così veicolato dalla corruzione messa in atto da uomini, non propriamente limpidi, che si affacciavano sulla scena politica italiana.
Gli ideali antifascisti appartenuti alla Resistenza venivano trascurati e sostituiti con quelli di una società sempre più rivolta ai consumi, e basata sul profitto quale principio assoluto.
“Quando il vento della storia arriva, non è mai un vento leggero. È impetuoso, invece, soffia forte. Fa anche danni, ma cambia le vite e la direzione del tempo. Quando arrivò il vento del ’68, una parte dei giovani si fece sospingere da quel soffio, assunse la sua parzialità e diventò protagonista del cambiamento”. ‒ Gianni Barbacetto
Ma, qual era il principio di lotta che i contestatori sessantottini fecero proprio?
Un’azione collegiale orientata alla critica e all’opposizione verso una società e i suoi valori, non soltanto superati, ma frutto del fallimento di azioni politiche volte solo a generare interessi personali e non collettivi.
I movimenti sociali, soprattutto quelli giovanili e studenteschi nati dall’aggregazione spontanea di individui che sconfessavano coloro che li rappresentavano, avevano obiettivi che richiedevano un totale superamento. Perché i giovani si sentivano chiamati, innanzitutto, a rispondere alle loro coscienze; motivo principale che li spinse a scendere in piazza e a manifestare il loro malcontento.
Quindi, fu soprattutto il fallimento della politica, insieme ad un sistema scuola arretrato, a dare il via al proliferare del movimento di protesta in Italia.
I giovani, non soddisfatti da una vecchia concezione scolastica, non adeguata a rispondere a una società in continua evoluzione, occuparono le università, istituzione che meritava uno svecchiamento.
In mano ai cosiddetti baroni, che detenevano il potere da troppo tempo, l’università era un’istituzione da stigmatizzare. Anche perché l’insegnamento non era più in grado di trasmettere un sapere capace di plasmare consapevolezza al fine di esprimere giudizi critici, un sapere che non fosse soltanto nozionistico. Comunque, non era solo la scuola a essere l’elemento debole della catena sociale.
I giovani ritenevano che anche il modello famiglia non fosse più in grado di rispondere alle nuove esigenze. Veniva criticata in maniera accesa la morale dell’epoca, intrisa di una forma di ipocrisia.
Divise fra una realtà che appariva obsoleta e bisognosa di innovazione, spinte dal sogno di un mondo migliore, le nuove generazioni incanalarono la loro protesta in una contestazione di ampia portata, le cui conseguenze sociali erano all’epoca imprevedibili, oltre che inarrestabili. I giovani, inoltre, manifestavano ribellione all’autoritarismo e all’imperialismo, quello americano, in primis.
La protesta per la guerra del Vietnam, che continuava a mietere vittime innocenti, si fece sempre più vivace anche in Italia, come nel resto del mondo.
I ragazzi ambivano ad essere parte di una società non regolata solo dalle leggi del profitto, ma basata su valori essenziali e importanti: una convivenza civile pacifica regolata da un’equa distribuzione della ricchezza, innanzitutto, dove uguali diritti per tutti fosse l’elemento prioritario.
“Il ’68 fu una rivoluzione culturale. O ‘antropologica’, per dirlo in modo più impegnativo: un gigantesco spostamento nel vissuto quotidiano, negli stili di vita”. ‒ Marco Revelli
Era il 7 marzo del 1968 quando a Valle Giulia, a Roma, presso la facoltà di architettura, nascevano accesi tumulti.
Quella che i giovani si trovarono ad affrontare fu una vera e propria battaglia, fermata con idranti e lacrimogeni da parte della polizia. La protesta sarà biasimata da intellettuali quali Pasolini, che avrà da dire di stare dalla parte dei poliziotti, in quanto figli di povera gente e non piccoli borghesi come coloro che protestavano.
La repressione arrivò e fu durissima. Sia per gli studenti come per i lavoratori, che nell’autunno del 1969, ricordato come ‘autunno caldo’, daranno voce alla loro rivendicazioni salariali con maggior forza.
La battaglia di Valle Giulia e quelle che si consumarono in molti degli atenei italiani avranno gravi ripercussioni nei tempi a venire. Fra i quali la formazione di gruppi extraparlamentari che stravolgeranno gli obiettivi che il Sessantotto si era preposto.
Le Brigate Rosse furono un gruppo terroristico fra i più attivi nel mettere in pratica operazioni di guerriglia urbana, che fecero più di una vittima fra magistrati, giornalisti, appartenenti alle forze dell’ordine e imprenditori. Vittime eccellenti, cadute a causa dell’obiettivo di cui i loro carnefici si sentivano investiti: scardinare i ruoli istituzionali da loro ricoperti. Falcidiati in nome di una supposta legge non scritta, ma ben chiara nella mente di chi, guidato da mani invisibili, riteneva essere dalla parte giusta. Mentre gruppi di destra tornavano in auge con atteggiamenti nostalgici di matrice fascista.
Terrorismi, entrambi, che daranno il via alla cosiddetta ‘strategia della tensione’, che occuperà lo spazio lasciato vuoto dalla politica.
Aspetto positivo di una stagione di grande fermento fu una nuova sensibilità per le problematiche sociali, per i diritti civili, correlati al movimento femminista.
Fenomeno da definirsi anch’esso, a ragione, come rivoluzionario, il femminismo si fece promotore dei diritti della donna, fino ad allora calpestati o riconosciuti solo in parte.
Nato sulla scia di movimenti di antico retaggio, già presenti nei paesi anglosassoni, il femminismo anche in Italia sarà destinato ad assumere un ruolo sempre più di rilievo.
Le donne puntavano il dito sulla loro condizione di persone sottomesse, e a gran voce chiedevano la parità di diritti con i maschi, mettendo in luce, al contempo, il ruolo marginale occupato da loro fino a quel momento. Nel 1968 le donne diventavano un soggetto forte, in grado di far sentire la loro voce e, in quanto autoreferenziali, chiedevano dignità e parità con gli uomini.
“Tremate, tremate, le streghe son tornate!” ‒ Slogan femminista
Oggi, a 50 anni di distanza, le ripercussioni sociali del ‘68 suscitano ancora dibattiti e discussioni. Da una parte, si considera il fenomeno come responsabile della crisi di valori in cui è intrappolata la società degli anni Duemila: eccessiva libertà dei costumi, ribellione all’autorità, uso di stupefacenti, palliativi per fronteggiare una realtà di non facile identificazione e dove, per i giovani non è scontato trovare una collocazione sociale e lavorativa.
Altri, invece, considerano il Sessantotto un passaggio obbligato. Anzi, come un evento che ha aperto la strada alla modernizzazione; un momento di rottura con una tradizione da superare, perchè autoritaria e obsoleta.
Ma, quantificare aspetti positivi e negativi, analizzandoli attraverso uno sguardo politico e sociologico non è cosa semplice. Forse, perché in tutto il bailamme che il 1968 ha messo in campo c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Difficile quindi dare un giudizio che sia univoco.
Written by Carolina Colombi