“L’arte dell’attesa” di Andrea Köhler: l’ora blu del tempo
“L’attesa è un tempo soggettivo. Basta che qualcosa ci costringa a una sosta intermedia ne corso prevedibile delle cose, e già sembriamo dei felini poco prima del pasto. Nel migliore dei casi l’attesa è tempo regalato, più spesso rubato. Ma sempre, nell’attesa, il tempo stesso diventa stato d’animo” (pag. 50)
“Se voi er piatto che te piace, ce vo’ er tempo che se coce”. Un simpatico detto romano che riassume, icasticamente, il messaggio di fondo del testo L’arte dell’attesa di Andrea Köhler, edito da Add Editore nel 2017.
L’autrice tedesca condensa, in queste pagine così calde e delicate, un tema, quello dell’attesa, oggetto da tempo immemore di indagini filosofiche e opere letterarie.
Non capita spesso di concludere un libro e sentire la scalpitante voglia di riaprirlo per rileggere frasi e parole, per riprovare le emozioni della prima lettura. Beh, per questo piccolo gioiello letterario è proprio così.
Sin dal primo momento di vita sperimentiamo l’attesa, l’attesa di qualcosa o di qualcuno che può essere appagata in pochi minuti, lunghe ore o interminabili anni.
Odiamo aspettare, l’impazienza ci caratterizza ma l’attesa è una vera e propria imposizione.
Se per un attimo, magari mentre attendiamo il bus in ritardo, mettessimo da parte la rabbia per la corsa del tempo e riflettessimo sul momento che stiamo vivendo, ci accorgeremmo che l’attesa “è l’unica cosa che ci fa percepire il logorìo del tempo e ce ne fa conoscere le promesse” (pag. 9).
L’autrice si muove agilmente tra i grandi della letteratura (da Kafka a Beckett, da Proust a Camus) e tra i più famosi filosofi (da Nietzsche a Blanchot, da Benjamin a Heidegger), ci lascia scoprire come molti, in tutti i tempi, abbiano cercato di afferrare il significato ultimo dell’‘aspettare’, la finalità intrinseca, la sua fugacità.
Eppure con questo libro ci viene consegnata un’idea diversa dell’attesa: un atto che non porta all’esasperazione ma che merita di essere vissuto nella sua pienezza. Nel momento stesso in cui diventiamo consapevoli dell’attesa in cui siamo, riflettiamo sull’oggetto che attendiamo. E noi quanto siamo pronti ad aspettare, quanto abbiamo imparato a sostare nell’attesa?
“Siamo sempre lepre e riccio, e <questa doppia vita temporale ci protegge – come una sorta di separazione dei poteri del tempo – dal vivere soltanto in fretta, affamati di futuro, o solo con lentezza, dominati dal passato>. Altrimenti vivremmo la nostra vita solo a metà. E la vita è troppo breve per farlo.” (pag. 97).
Di sicuro, la Köhler non tralascia di evidenziare i cambiamenti che la società delle reti ha apportato al nostro modo di vivere l’attesa: un sentimento, uno stato d’animo difficile da accettare, per lo più subito con malavoglia, che apparentemente sembra non appartenerci più. Ma non è così.
È pur vero che “la Rete, questo spazio del tutto immaginario, ci sgrava dal peso dell’esistenza, con tutti i suoi difetti fisici” (pag. 72), […] ma non adombra del tutto il nostro bisogno nascosto di lentezza, una lentezza emotiva che cerchiamo pur non accorgendocene. Una Rete che eleva “la pazienza a virtù cardinale della nostra società dei servizi” (pag. 76).
Così, il lettore si adagia sulle confortevoli parole del libro e, come in un treno, si sposta da un vagone all’altro per scoprire tutte le sfaccettature dell’attesa.
Negli Intermezzi che l’autrice ci regala vengono descritti frammenti, dettagli di vita quotidiana strappati alla corsa del tempo, che ci fanno immergere nel limbo dell’attesa.
Questa, dunque, costituisce quello spazio tra il qui e l’altrove, nel quale ciò che accadrà è ancora idea, fumo, inconcretezza: “Costruendo castelli in aria, scendiamo lungo il fiume su una barca, ci dondoliamo sulle onde, guardiamo le nuvole: solo soffermandoci siamo arrivati improvvisamente alla fine dell’attesa. Perché ogni attesa ha dentro di sé non soltanto l’angoscia e la mancanza, ma anche il momento di felicità del proprio annullamento, la possibilità di essere un presente senza coscienza” (pag. 106).
Questo libro urla al recupero dell’attesa, di quelle dimensioni temporali del niente che ci ricaricano, di quelle isole della lentezza tra le corsie del frenetico traffico quotidiano. Una voce che andrebbe ascoltata, letta, magari in una sala d’attesa.
Written by Maria Cristina Mennuti
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