Neon Ghènesis Sandàlion: l’intervista all’archeologo Matteo Tatti

“Le popolazioni nuragiche (come tante altre dello stesso periodo) non avevano una scrittura, ma come si capisce questa assenza non stupisce né scandalizza. Tra le varie ipotesi avanzate dagli studiosi, credo che quella “utilitaristica”, per spiegare lo sviluppo della scrittura, possa essere considerata abbastanza interessante.” ‒ Matteo Tatti 

Matteo Tatti

Decima intervista della rubrica made in Oubliette “Neon Ghènesis Sandàlion, una breve inchiesta su alcuni argomenti che animano gli appassionati di archeologia. Si è scelto di dar voce agli archeologi che, da svariati anni, continuano a ricevere ingiustificabili accuse sul loro eccelso e gravoso operato quale il riportare alla luce un passato non scritto ma da scrivere ed, in taluni casi, da riscrivere.

La nota “fantarcheologia (“fantamania” od “archeomania”) ha prodotto il disagio di intralciare la divulgazione archeologica “teorizzando” con il sensazionalismo, figlio di quest’epoca di neoliberalismo, veri e propri libri di fantasia senza alcun riscontro con le fonti, con la realtà e con l’investigazione della metodologia scientifica. E se è pur vero che, talune volte, un testo di fantascienza è stato precursore di conoscenze future, in questo caso ci troviamo di fronte a “tesi” che si librano nei territori dell’immaginazione con ambizione di storica realtà; tali e quali a quell’Icaro che, con ali di cera, tentò di avvicinarsi al Sole ed in un primo momento sentì la gloria della sua impresa.

Neon Ghènesis Sandàlion“, da tradursi con “La Sardegna della nuova nascita”, è quell’attimo che viene dopo la caduta di Icaro, è quel padre, il grande architetto Dedalo, che soccorre il figlio dal mare in cui è sprofondato, cura le ferite e perdona ogni suo azzardo.

Perché il peccato è un nostro dovere di figli, ma ancor più il riconoscerlo per un miglioramento personale e sociale. Citando Jean Jacques Rousseau: “Si deve arrossire per il peccato commesso e non per la sua riparazione.”

Lo scorso sabato abbiamo potuto leggere le riflessioni dell’archeologa Anna Depalmas, ha preceduto l’archeologo Mauro Perra, l’archeologo Nicola Dessì, l’archeologo Roberto Sirigu, l’archeologo Alessandro Usai, l’archeologo Carlo Tronchetti, l’archeologa subacquea Anna Ardu, l’archeologo Alfonso Stiglitz, e l’archeologo Rubens D’Oriano.

Matteo Tatti è archeologo Libero Professionista. Si è laureato in Lettere Classiche con indirizzo Archeologico protostorico all’Università degli Studi di Cagliari, dove ha anche conseguito il Diploma di Specializzazione post-lauream in Beni Archeologici.

Ha partecipato a diversi cantieri di scavo e diretto campagne di scavo archeologico nel territorio sardo (Su Fraigu-Monastir, Bastione S. Caterina-Cagliari, S. Pietro-Giba, S’Arcu ‘e Is Forros-Villagrande Strisaili, ecc). Da anni si occupa di divulgazione culturale. È tra i soci fondatori dell’Associazione Culturale onlus Itzokor di Cagliari.

 

A.M.: Quanto la leggenda e l’astrazione hanno mosso gli esseri umani nel definire e creare la storia?

Matteo Tatti: Oggi con il termine “storia” indichiamo quella disciplina che si occupa di ricostruire le vicende e i fatti del passato che riguardano l’Uomo, collocandoli in un racconto continuo e sistematico, sulla base di fonti, documenti e testimonianze. Generalmente Erodoto (che visse nel V secolo a.C.) viene riconosciuto come iniziatore della storia, ma forse fu ancora di più Tucidide (suo contemporaneo) a segnare lo sviluppo che avrebbe avuto la disciplina nel tempo, eliminando, ad esempio, dal racconto il riferimento all’intervento divino. Una posizione che avrebbe portato a rimuovere false credenze, mito, leggenda dal flusso della narrazione storica propriamente detta. Oggi riteniamo di poter procedere (garantendola) ad una ricostruzione oggettiva dei fatti, spesso sottovalutando che lo storico nel suo processo di indagine non può comunque essere considerato un semplice osservatore di fatti (anzi, nella maggior parte dei casi lo storico tratta di avvenimenti lontani nel tempo rispetto al suo vivere). Lo storico non è un cronista e nel suo lavoro necessariamente interpreterà i fatti che descrive, pur domandoli all’interno di criteri di veridicità.

 

A.M.: I nuraghi. Questi nostri sconosciuti. Quali altre culture presenti nel mondo mostrano le stesse caratteristiche delle nostre antiche costruzioni? Quale potrebbe essere la risposta più accreditata per questi ritrovamenti? Che queste culture siano dipendenti da una cosiddetta madre, che la prima rispetto alla seconda sia stata presa come superiore, oppure una risposta che sia piuttosto di convergenza così che culture diverse e distanti fra loro abbiamo avuto lo stesso bisogno ed abbiamo aderito alla stessa soluzione?

Matteo Tatti

Matteo Tatti: Un ormai famoso conteggio basato sui censimenti dati dalle carte geografiche militari porterebbe il numero dei nuraghi a circa 7000, distribuiti su tutto il territorio isolano. Generazioni di archeologi hanno potuto rapportarsi a queste imponenti strutture, giungendo ad una seriazione interna che spiega la trasformazione da edifici tozzi, dotati di angusti corridoi o spazi interni, e murature possenti in cui i pieni superano di gran lunga i vuoti, ad architetture sempre più slanciate ed eleganti, capaci di sovrapporre più camere chiuse da tholos, in cui al contrario i vuoti superano i pieni murari. Da forme più o meno ellittiche, reniformi, rettangolari, si passa all’acquisizione della pianta circolare, che si fa modulo costruttivo nelle fasi mature dell’età nuragica. Architravi, finestrelle, scale incassate nella muratura, passaggi e corridoi architettonicamente perfetti arricchiscono queste costruzioni. La loro posizione, l’imponenza e l’organizzazione ne fanno gli edifici più vistosi del paesaggio sardo di allora (come quello di oggi). Campagne di scavo condotte negli anni hanno permesso di recuperare informazioni sulle cronologie di costruzione e di utilizzo (e anche ri-utilizzo) e di proporre ipotesi sulla loro funzione. Il nuraghe rappresenta il simbolo costante della presenza di una collettività sul territorio, assommando a sé funzioni civili, politiche, di controllo. Spesso accompagnati (seppure non sempre) ad un villaggio di capanne, vivono le dinamiche storiche delle comunità che li hanno realizzati, cambiando con esse. Con la fine dell’età del bronzo e l’inizio dell’età del ferro pare cessare la loro costruzione, mentre continuano ad utilizzarsi le esistenti strutture, magari modificate in base alle nuove esigenze funzionali (in alcuni edifici si nota la destinazione ad uso sacro di alcuni ambienti), o addirittura con un parziale smontaggio delle vecchie cortine murarie per fare spazio agli accresciuti villaggi. Queste architetture rappresentano veramente la metodologia costruttiva nuragica. Esistono strutture uguali in altre parti del pianeta? No, nel senso che gli edifici sono frutto di esigenze delle popolazioni che li creano, e rispondono ai problemi che nascono in seno a quelle collettività. Questo, chiaramente, non significa che il modulo costruttivo della pianta circolare sia invenzione esclusivamente nuragica; semplicemente quei concetti architettonici di base si applicano, con risultati differenti, a contesti differenti. Più volte si è sottolineata, forse anche a ragione, una influenza architettonica in alcune strutture baleariche e corse, che hanno comunque nel complesso sviluppato scelte costruttive finali differenti. 

 

A.M.: Addentrandoci nell’etimologia, e leggendo molte opinioni, si è concordi che la radice di nuraghe sia “nur” ma non si è concordi con il significato di questa radice. Due sono le ipotesi madre: una che provenga dai fenici e che vede “nur” con il significato di “luce/fuoco” (e precedentemente dai sumeri “ur/uruk), un’altra invece di sostrato mediterraneo vede la definizione “cumulo di pietre/cavità”. Per quale scuola di pensiero patteggi o hai una strada alternativa da mostrarci?

Matteo Tatti: Riterrei più verosimile l’interpretazione di “cumulo di pietre, mucchio cavo di pietre” e quindi per estensione “torre”, da riportarsi ad un possibile relitto preromano e prefenicio in “nur”, come tendono a sottolineare anche i linguisti.

 

A.M.: Considerando che il problema maggiore che porta alle diverse vie di interpretazione è la mancanza di dati certi ed il cannibalismo di edifici, come possiamo prospettare la ricostruzione della storia se non con il ritrovamento di nuovi dati? Dunque, quanto è importante ricevere finanziamenti per continuare la ricerca?

Matteo Tatti: Come ogni campo della ricerca, anche quella archeologica non può prescindere da un continuo lavorare sui dati. Questi offrono possibilità di interpretazione, giusta collocazione di teorie, abbandono di tesi magari in precedenza ipotizzate, dialogo e discussione fra colleghi, il continuo sottoporre al vaglio della pertinenza scientifica aspetti nuovi, e così via. Insomma i dati in archeologia forniscono il carburante necessario affinché si tenga acceso il motore della disciplina stessa. E i dati primari, in archeologia, derivano dal lavoro sul campo, dalle campagne di scavo, ma anche dallo studio di una mole immensa di reperti custoditi in altrettanti numerosi depositi sparsi per il territorio. Nel Paese primo al mondo per patrimonio culturale, storico e architettonico (una stima che va ben contestualizzata, chiaramente, e che si riferisce al più alto numero di siti di interesse culturale riconosciuti come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco) si assiste ad un continuo assottigliamento delle risorse da destinare, paradossalmente, proprio a questo settore. C’è, evidentemente, qualcosa che non funziona nel modo corretto. E mentre la ricerca archeologica è (quasi) ferma al palo, i Professionisti del settore dove vanno? Se va bene, forse stanno rincorrendo qualche ruspa nei vari lavori pubblici in giro per le città.

 

A.M.: Nella stele di Nora ritroviamo in “fenicio” il nome della nostra isola. È il più antico ritrovamento in cui si parla di Sardegna oppure ci sono altre iscrizioni più antiche? E soprattutto sappiamo se i paleosardi (o sardi nuragici o come preferisci) si identificavano con questa denominazione?

Matteo Tatti

Matteo Tatti: La stele di Nora fu recuperata nel 1773 dalla tessitura di un muro presso la chiesa di S. Efisio appunto sul litorale di Nora. È stata (ed è tutt’oggi) oggetto di studio da parte di vari specialisti che ne hanno tentato una traduzione e la ricostruzione del suo contesto d’origine. Se sulla datazione al IX-VIII secolo a.C. paiono convergere la maggior parte degli studiosi, non c’è ancora concordanza sulla sua traduzione. Resta il dato importante legato alla sua antichità (attestando un ruolo centrale dell’isola nelle rotte fenicie alla ricerca dei metalli nell’occidente mediterraneo) e al fatto che per la prima volta comparirebbe il nome della Sardegna nella ormai famosa terza riga (con lettura, essendo scritta in fenicio, da destra a sinistra). Difficile dire se quel nome, da noi poi vocalizzato in Sardegna, abbia rappresentato in un dato periodo un valore comune, una sorta di vessillo sotto cui si riconosceva la totalità (o meno) delle popolazioni nuragiche. Se pensiamo ai fenici, dato che li abbiamo citati, dobbiamo ricordare che tale nome fu dato loro dai greci e che mai essi si riconobbero in quel termine, né riconobbero a sé stessi una denominazione complessiva, di popolo unitario (al contrario, si distinguevano con il nome delle singole città).

 

A.M.: La scrittura nuragica. Che il popolo sardo vivesse il presente e non sentisse la necessità di scrivere la sua storia come invece han fatto altri popoli?

Matteo Tatti: Gli studiosi sono concordi nel fissare a circa il 3400 a.C. il momento dell’invenzione della scrittura. A detenere questo primato sarebbero stati i Sumeri, conosciuti tra le varie etnie mesopotamiche, che avrebbero preceduto, seppure di poche centinaia di anni gli Egiziani. In società evolute come queste, l’utilizzo di uno strumento come quello scrittorio è da collegarsi in maniera principale alle esigenze di contabilità di beni, derrate, ricchezza, tasse, materiali di scambio, ecc. Allontanandoci geograficamente e cronologicamente troviamo esempi di scrittura ben compiuta nell’isola di Creta intorno alla metà del II millennio a.C. Si trattava di una scrittura sillabica, pare di derivazione egizia, definita dagli studiosi Lineare A e ad oggi ancora non decifrata. A questa si sostituì, con la conquista dell’isola da parte dei micenei, una nuova scrittura, definita Lineare B. Tra XIII e XII secolo a.C. con la caduta dei palazzi micenei anche questa scomparve. Si dovrà attendere qualche secolo perché si sviluppi un sistema di scrittura a diffusione notevole, quello cioè che i fenici derivarono dalle forme proto-cananee. La codificazione portò alla definizione di un primo alfabeto che ebbe enorme fortuna nel Mediterraneo e che portò poi alla nascita di sistemi differenti (tra questi il greco). Le popolazioni nuragiche (come tante altre dello stesso periodo) non avevano una scrittura, ma come si capisce questa assenza non stupisce né scandalizza. Tra le varie ipotesi avanzate dagli studiosi, credo che quella “utilitaristica”, per spiegare lo sviluppo della scrittura, possa essere considerata abbastanza interessante.

 

A.M.: Chi sono gli Shardana?

Matteo Tatti: Le fonti più antiche che ne attestano l’esistenza sono di produzione egiziana: le famose lettere di Amarna (corrispondenza tra il re di Biblo e il faraone Akhenaton) datate al 1350 a.C. li citano come facenti parte di quella coalizione di popolazioni eterogenee che passa sotto il nome di Popoli del Mare, che portò distruzione e il crollo dei grandi regni del Mediterraneo alla fine dell’età del bronzo. Ricordati come pirati e guerrieri o truppa scelta per la guardia reale del faraone egiziano, sono citati da varie altre fonti di tradizione non solo egizia. Prima di tutto, però, gli Shardana sono un interessante enigma su cui ancora si interroga la comunità scientifica archeologica (o almeno una parte di essa), tra sostenitori di una identificazione con i  sardi di età nuragica e chi invece ne vorrebbe rintracciare l’origine nelle terre dell’oriente (proprio in questi ultimi giorni è stata rilanciata la notizia della decifrazione di una iscrizione in lingua luvia in cui si traccerebbe un areale orientale come zona di provenienza dei Popoli del Mare).

 

A.M.: Il problema della divulgazione e la fantarcheologia. Come fermare questo fenomeno e come entrare nelle case dei sardi per sfatare queste “pseudo teorie”?

Matteo Tatti

Matteo Tatti: Da dieci anni a questa parte ho dedicato parte del mio tempo (assieme a quello di altri colleghi e colleghe) alla creazione di uno spazio fisico di libertà di espressione e di dialogo, un luogo di dibattito e discussione, legato alla cultura. Gli ospiti che lo hanno utilizzato ne hanno certamente compreso il valore profondo, dato che quello spazio permette un costante confronto con un uditorio sempre più attento ed esigente, in fatto di cultura. Conoscere, comprendere, concordare, ma anche dissentire, esprimere opinioni differenti, giudicare, sono capacità intellettive di cui è dotato ciascun essere umano. Esercitare il diritto alla conoscenza è fattore legato al nostro essere cittadini appartenenti ad una collettività che si riconosce in un percorso evolutivo sociale, culturale, politico. Basta entrare al bar ed ascoltare i discorsi degli avventori per capire che siamo un po’ tutti allenatori, uomini di stato, scienziati, filosofi… Forse ognuno di noi saprebbe come risolvere le tensioni in Medio-oriente o ne capisce più della Nasa di come si conquisterà Marte. Questa libertà di espressione non mi spaventa per nulla, anzi, credo sia davvero uno dei meccanismi che spingono l’uomo a porsi domande e pretendere (o almeno sperare) di trovare risposte. Sono però altrettanto convinto che debba esistere in ciascuno di noi un livello-soglia che debba farci capire che da un certo punto in poi non basta la nostra opinione, ma abbiamo bisogno del conforto di un esperto, di uno specialista in quella data materia. Se voglio curarmi un dente, pretendo che a farlo sia un dentista, non il mio vicino di casa appassionatissimo di odontoiatria ma che per vivere invece stringe i bulloni in officina (così come, viceversa, se devo cambiarmi la gomma anteriore dell’auto mi affido a lui e non al mio amico insegnante di inglese). Detesto poi in maniera netta chi sfrutta l’ignoranza (nel senso di non conoscenza) altrui per ricavarne profitto.

 

A.M.: Quali sono le logiche di mercato che portano a ridicolizzare la Sardegna come Atlantide, e perché non si guarda soprattutto a ciò che abbiamo e cioè l’unica isola che presenta un numero così elevato di costruzioni chiamati nuraghi?

Matteo Tatti: Atlantide ha appassionato generazioni di uomini fin dal tempo in cui Platone ne riferì il mito nei suoi dialoghi Timeo e Crizia nel IV secolo a.C. Da lì in poi visionari di ogni parte del pianeta hanno collocato la leggendaria città e la sua evolutissima civiltà un po’ dovunque: dall’America al Polo Nord, dall’Oriente al Mediterraneo. Poteva mancare la Sardegna? Umberto Eco scrisse un libro bellissimo, ricchissimo di notizie e corredato di stupende immagini, intitolato “Storia delle terre e dei luoghi leggendari”. Leggendolo si ha un’idea davvero precisa di come l’uomo abbia sempre intrapreso nuovi viaggi (mentali, oltre che fisici), perché spinto dalla sua voglia di conoscere cosa possa esserci oltre il suo orizzonte. E quando una nuova scoperta porterà luce su quell’ignoto, ecco che nuovi mondi (pure mai esistiti, pure fantastici) inizieranno ad affollare la sua immaginazione. Credo sia un processo mentale che continuerà ad accompagnare per sempre la costante evoluzione dell’essere umano. Riprendendo però la domanda precedente, ritorno sul concetto già espresso: detesto chi sfrutta l’ignoranza altrui per ricavarne profitto. E mi chiedo chi abbia più colpa tra chi propone l’identificazione della Sardegna con Atlantide, e una classe politica che spreca denaro pubblico (magari sottraendolo alla vera ricerca) per trovare le prove di quella supposta identificazione.

 

A.M.: Salutaci con una citazione…

Matteo Tatti: Beato chi scava nel passato: è uno che conquista mille occhi per leggere il presente‒ Maria Venturini in “Dizionario delle felicità”, 1998.

 

A.M.: Matteo ti ringrazio per la disponibilità mostrata e vorrei sottolineare la mia eguale lotta contro coloro che sfruttano l’ignoranza (e la relativa sete di sapere) altrui per ricavarne profitto. Saluto con Platone: “Filosofare è imparare a morire.

 

Written by Alessia Mocci

 

 

Info

Il Santuario nuragico di Abini a Teti

Rubrica Neon Ghènesis Sandàlion

 

Un pensiero su “Neon Ghènesis Sandàlion: l’intervista all’archeologo Matteo Tatti

  1. Personaggi squallidi, imperversano in Sardegna, vendendo libri e creando Archeofantasy, a pagamento, senza che nessuna prova, sia presentata. Stupidissime e suggestive certezze, vengono enumerate dai nuovi Falsari della Storia, scritture orientali, atlantidi, Torri dello Simbabwue, Ombelico del Mondo, guerrieri in giro per il Mondo, tutto a pagamento. Anzi si organizzano incontri, solo per vendere libri. Qui il Sardo, acquista una nuova personalità alternativa, un nuovo Avatar, con cui riconoscersi. Ma è tutto finto. Solo i Soldi sono veri.

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