“Metafisiche insofferenti per donzelle insolenti” di Nicla Vassallo: (di) quel che volevasi mostrare
“Eccoci qui sulla terra col golfo” (La terra promessa), uno spazio e un tempo che richiamano altri luoghi, altre ore. Parrebbero gli stessi, ma non lo sono, costretti dalla metafisica di questo mondo, che perpetua la propria consistenza attraverso una continua sottrazione: minuti, panorami, sguardi, persone.

L’essere umano si trova a lottare contro questa metafisica. Si lotta soprattutto contro i ricordi, che pur dobbiamo invocare, evocare, per sopravvivere. Ci sono donne che ricordano e lottano, nella silloge di Nicla Vassallo. Donne che lottano per e contro donzelle, avverso le loro insolenze, generando e provando insofferenza. Donne che lottano contro se stesse, contro le condizioni della loro vita, contro i loro istinti, forse, contro il loro modo di sentire e di sentirsi che, pur risultando ostile all’esistenza, è tuttavia indispensabile per esprimere liberamente il pensiero, come Virginia Woolf ci dice in Una stanza tutta per sé.
Si emerge dalla lettura di Metafisiche insofferenti per donzelle insolenti (Mimesis Edizioni) come dall’acqua di un oceano: il corpo bagnato, ancora odoroso di salsedine e di umore africo le cui note indistinte e indistinguibili sfuggono a ogni descrizione compiuta. Provare a descrivere la silloge di Nicla Vassallo, come avviene per ogni buon testo di poesia, significa cimentarsi con una inevitabile riduzione, con il tentativo di non perdere, o di perdere il meno possibile, di fare qualcosa con un “meno” che, alla fine dei conti, resterà. Riduttivo è certamente affrontare il testo precondizionati dalla volontà di dire più e meglio dell’autrice quello che l’autrice stessa ha scritto.
Riduttivo è affrontare le liriche come si affronta un testo filosofico, per coglierne l’argomento principale, individuarne il tema saliente, interpretarne l’applicazione di un ragionamento e, se del caso, criticarlo mostrandone i difetti o apprezzandone i pregi. Riduttivo, troppo riduttivo, sarebbe soprattutto rassegnarsi a lasciar svaporare completamente quel sentore d’oceano che ancora ci profuma e destinarci alla dimenticanza; con la consapevolezza che ne coglieremo – forse – pochi e singoli toni, si deve quindi cercare di consolidare i ricordi che esso ci ha lasciato, facendo nostro il tema della memoria la cui importanza pervade l’intera silloge della poetessa.
Vi è una sorta di contrappasso duale tra le donzelle e le metafisiche, tra l’insolenza, e l’insofferenza; una speciale sorta di quadrato semiotico dal quale si ricavano combinazioni di significati che oltrepassano l’apparente sanzione data dal titolo del volume. Pur restando preponderante, nella silloge di Vassallo, la presenza di donzelle assolutamente insolenti (Donzella stralunata, Vi procrastinate, Maledetta, Dove te ne andavi, L’anamnesi svapora), ritroviamo infatti variegate e affascinanti combinazioni. Non è quindi insolito che la lettura ci conceda di provare una lecita insofferenza per una stravagante proprietà metafisica di quelle “donzelle insolenti” (Un fratello) che ci etichettano la pelle, affliggendoci con la loro incapacità maldestra di “desiderare e giocare”, e ci portano a ricercare un ripiegamento, una sorta di con-fusione mereologica in un corpo “quasi gemello”, dove forse troveremo un modo per passarci in rassegna, ri-cercando (ri-trovando) la pudicizia di metafisiche estranee a quel tipo di irriverenza.
Ci sono talune donzelle (L’estrema torsione polverosa) la cui insolenza (pre-potenza) rompe le barriere metafisiche della morte, del sogno, evocando insofferenza persino nel contesto di una “composta cerimonia”. Alcune altre sono, invece, più metafisiche (In un tempio d’avvenimento) e insolentiscono le altrui labbra facendole dipendere dalla “scienza del compiuto” con-vivendo nella stentatezza insofferente di un diurno “senza occhio, né malocchio”. Non è raro, leggendo le liriche di Vassallo, ritrovarsi perfino in mondi affetti da ontologie del tutto particolari. Alcuni di essi, nella loro insolenza, consentono l’apparire e lo scomparire di una “matura passione” (Che combini) contagiata inesorabilmente da “imbelli donzelle”, determinando un singulto temporale in cui si apre fatalmente l’in-sofferenza delle lacrime al cospetto del ricordo. In altre metafisiche si può assistere alla comparsa di donzelle contraddittorie (In una dimora palermitana) che manifestano la loro in-sofferenza in un “bacio intenso”, o ci si può ritrovare in ambientazioni à la Renoir in cui l’insolenza di una donzella provoca l’insofferenza di un’altra (Capodanno: a correggere bozze). La flessibilità delle liriche fa sì che la stessa metafisica che permette la comparsa di una donzella insolente (Compari a Londra) possa essere sfruttata anche per annullare l’insofferenza, costringendo la “ragazzina viziata e viziosa” ad andarsene scattando per sempre via, forse lasciandoci, tuttavia, una sua imperitura immagine che si imprimerà nella nostra memoria.
Riduttivo sarebbe soprattutto pensare che le donzelle – enti metafisici – protagoniste (o spettatrici) delle liriche di Vassallo siano solo donne, financo solo esseri umani e con ciò interpretare la loro essenza come quella di passioni conquistate, perdute, sognate; altrettanto limitante, per la lettura, sarebbe soffermarsi sulle sole metafisiche che solo una mera superficialità esegetica vorrebbe attribuire al mondo della poetessa, perdendo così di vista il fatto che è la stessa poesia a farsi metafisica, sfuggendo alla consistenza di una precisa definizione. A comprova di quello che un lettore disattento potrebbe perdere riducendo troppo il proprio spettro ermeneutico, si noti come, su tutte, insolenti siano anche le “sabbie voraci” (Mia madre è morta). Esse tradiscono una presenza ontologicamente impossibile per la modalità di questo nostro mondo caratterizzato, si diceva, da sottrazioni vitali, sulla quale il sapere tenta di annebbiarsi; di contralto le “sabbie” vengono condannate a una duratura insofferenza, dovuta al loro confinamento nei confronti di “quella distesa salina” rispetto alla quale il desiderio apre un incolmabile iato. Il continuo mutare delle metafisiche di Vassallo, che apre alla poetica ambiguità semantica, consente anche che anche una scogliera (Mi attendi a un capolinea), un’alcova (La terra astrale), una città (Roma) siano insolenti, e che perfino il vuoto (Il vuoto attorno), modificando la propria struttura metafisica da spazio d’amore a mondo reale in cui si vive, corrobori impudentemente il rapporto eziologico tra insolenza e insofferenza.

Riduttivo, infine, sarebbe impostare una critica, una recensione, una postfazione, dirigendo la lettura della silloge alla ricerca della filosofa Nicla Vassallo. Vano e infruttuoso sarebbe impegnarsi per trovare in queste liriche le tracce della docente di fama internazionale, attività che invocherebbe una ricerca ben diversa da quella che si potrebbe – legittimamente e più propriamente – intraprendere studiando i suoi saggi sulla teoria della conoscenza, sulla potenza epistemica della testimonianza, sulla filosofia delle donne o le sue critiche sullo stucchevole qualunquismo che affligge certe interpretazioni della teoria del gender. Le impronte filosofiche che percorrono il testo della poetessa Nicla Vassallo più che assomigliare a sfuggenti orme sulla battigia, rappresentano certamente un vero e proprio sfondo sul quale le singole liriche sono proiettate, talora incise, talora annegate.
Poesie filosofiche, quindi? Una tale definizione rappresenterebbe vero errore categoriale, certamente degno di una donzella insolente (come tale destinato a sobillare una certa insofferenza) e si tradurrebbe anche in un errore metafisico, giacché rappresenterebbe la pretesa di de-finire, di con-finare lo spazio poetico aperto dall’autrice. Uno spazio che la stessa autrice, come si dirà, disconosce paratestualmente come realmente circoscrivibile. In questo sfondo filosofico è da individuarsi, piuttosto, una significativa matrice wittgensteiniana, segnata da quell’umiltà (ben celata) propria del filosofo viennese, quasi come se nella pelle dell’intera silloge (e delle sue singole parti) fosse tatuata la proposizione 4.1212 del Tractatus: «Ciò che può essere mostrato non può essere detto». Può, la poesia, “dire” qualcosa, o il limite del suo ambito (metafisico, epistemico) è sancito dal solo “mostrare”? Può, la filosofia, “dire” quello che la poesia “mostra”? Domande, queste ultime, che, su un piano di indagine e di ricerca (meta-poetica), potrebbero essere valentemente poste alla filosofa Nicla Vassallo, ma che risultano inapplicabili alla silloge della poetessa, mancando loro un vero oggetto di indagine.
Della poesia, di Nicla Vassallo, quindi, cosa resta? L’impressione è che resti proprio il non-detto, il mostrato, il manto di un sofferente tema d’amore che riveste pudicamente l’intera silloge di un’autrice che, come la protagonista del woolfiano Una stanza tutta per sé, liberamente si esprime e in vari ambiti, anche grazie al dono della poesia. Un amore elevato (per la metafisica e per le donzelle, in ogni loro declinazione e istanziazione) che caratterizza l’animo umano e lo nobilita e un amore altrettanto potente e ineluttabile (per l’insofferenza e per l’insolenza in tutte le loro forme) che lo affligge spietatamente.
Un amore chiaroscurale, quello di queste liriche, abbagliato dal barlume di una saggezza (filosofica) che di amori può suscitarne anche di terribili, come ci ricorda Platone nel Fedro, ma che, proprio vacillando tra l’altezza della verità e la concretezza delle passioni, sembra incarnare nell’essere umano il vero senso della parola poetica voluto da Aristotele. Un amore che oscilla, riecheggiando una delle più classiche opposizioni nella storia della filosofia e che resta irrisolto, così come insolute rimangono, ora come allora, le opposizioni accademiche tra i filosofi, antichi e contemporanei: platonici contro aristotelici, analitici contro continentali, solo per ricordarne alcune. Una matrice di contrasti che annovera tra i suoi vettori anche quelli della filosofia e della poesia, affliggendole, incrociandole senza renderne possibile una solvibilità, laddove, forse, una filosofia e una poesia che volessero realmente dirsi pubbliche, potrebbero trovare un modo per cooperare, stabilendo una forza sinergica da contrapporre alla strenua ignoranza epistemica ed emotiva che affligge l’umano tempo vissuto.
Un amore, quello che ammanta questa silloge, che resiste, e segna con tutti i suoi “meno“, che sbaraglia, nelle liriche, la distinzione saussuriana tra il significato e il significante, ri-significando le parole agli occhi di ciascuno dei lettori e consentendo loro di ri-trovare qualcosa del proprio sé. Un amore che lascia spazio (In ristoranti gentilizi), che si apre al tempo (Nonostante questo presente amore), che forse vorrebbe chiudersi nello spazio e nel tempo dentro a ciascuna lirica (Di recente mi hai fatto uno squillo), senza poterlo fare (Spesso cercata e ricercata): come si è accennato, è la stessa metafisica paratestuale della poesia di Nicla Vassallo a impedirlo, annullando la chiusura del mondo poetico con la sapiente e consapevole omissione di un segno, semplice ma definitivo, al termine di ciascuna delle liriche, quasi volendo mostrare che non tutto è stato detto, ma che qualcosa è stato mostrato.
Written by Roberto Gennaro
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