Sardegna da scoprire #10: Tula, la storia di uno scavo archeologico
Ho deciso da tanto tempo di parlare solo di quello che ho visto, sentito e toccato di persona.
A volte non basta studiare sui libri, in Italia non basta mai, in verità, ma serve sentire atmosfere, suggestioni, odori e sapori, per capire cosa si sta studiando.
L’ultimo scavo archeologico a cui ho partecipato è stato vicino al paese dove sono nato.
Uno scavo importante, non tanto per i soldi impiegati, ridicolmente pochi, né per la voglia che aveva la Soprintendenza di farlo, lo scavo.
Come sempre era più forte l’intenzione di dirottare i pochi soldi destinati all’esplorazione del sito verso altri, più comodi, luoghi di lavoro, per gli archeologi, tipo il museo da aprire in paese, in eterna attesa di fondi e permessi.
Ma i musei vanno riempiti, alla fine, e quindi scavare diventa essenziale. Faticoso, scomodo, irritante, ma essenziale, anche per le Soprintendenze. Così, entusiasti noi e svogliati loro, grazie alla testardaggine del Sindaco, iniziammo lo scavo.
Il Sito di Tula era, ed è, spettacolare. Un vero castello del terzo millennio A.C.
Una muraglia megalitica lunga circa 160 metri, alta nel punto meglio conservato più di quattro metri, con un terrapieno di camminamento, proprio come i castelli, e, sorpresa delle sorprese, un antemurale, alto un paio di metri, in antico, anch’esso col camminamento per le guardie.
Chi lo costruì aveva intenzione di sorvegliare la Via dell’Ossidiana, che dal Monte Arci portava la preziosa pietra fin su nel Nord Europa.
Il primo giorno ci parve un lavoro disperato, quello che ci attendeva. Scavare la Fortezza, aprirne gli ingressi, murati volontariamente da chissà chi, o intasati dalla terra accumulatasi nei millenni, scavare nei corridoi ormai pieni di terra avrebbe richiesto ben altre forze che quattro paia di braccia. In fondo, il sito, pareva ancora, dopo la pulizia dell’esterno e lo scavo preliminare fuori dalla muraglia, solo una collina di terra.
Certo la pulizia ci aveva già permesso di accumulare una gran quantità di reperti. Pesi di telaio a decine, resti di ceramica, nuragica, a chili e, sorpresa un po’ macabra, una vertebra umana, corrosa dal tempo, sepolta da un cumulo di detriti appena fuori le mura.
Mi sono sempre chiesto perché si debba scavare, in Sardegna, a luglio e agosto. La temperatura sale fino a livelli insopportabili.
Nella piana di Chilivani, poi, un catino circondato dai monti, l’aria rovente stagna ed il lago, lì accanto, riempie l’aria di insopportabile umidità. Coprimmo le postazioni di scavo, mi ricordo, con fronde rubate ai cespugli che colonizzano l’altopiano dove sorge la Fortezza, ma i 43 gradi di quel luglio, vi giuro, non li potrò mai scordare. Comunque procedemmo con grande efficienza, lo ammetto con orgoglio.
Il corridoio nord, quello che ci incuriosiva di più, venne vuotato fino a metà, e li trovammo, sorpresa delle sorprese, la sepoltura di un alto ufficiale bizantino, col suo vaso decorato, messo lì in offerta, integro e sigillato.
Certo, il corpo non c’era più, magari la vertebra che avevamo ritrovato era l’unica cosa rimasta di quel povero essere, ma la fibbia del cinturone che aveva retto la sua spada bastava a qualificare il sepolto.
Non ho mai saputo cosa contenesse il vaso funerario e, probabilmente, non lo saprò mai. Portato via immediatamente e nascosto in chissà quale sotterraneo, come molta della nostra Storia.
Poi dissigillammo il resto del corridoio Nord.
Questo compito me lo assunsi io, levando con cura ogni pietra. Fui fortunato, lo ammetto. Il sigillo si rivelò antico, del Bronzo Medio, e dentro il corridoio chiuso, lungo più o meno tre metri, una favolosa, bellissima incisione, impressa sulle pareti megalitiche da chissà quale mano. Sul fondo, il pavimento dell’antico corridoio, resti di ceramiche del XVI sec A.C.
Nemmeno un alito di vento ci viene in soccorso, nei giorni finali dello scavo.
L’euforia dei ritrovamenti non ci fa sentire la fatica, ma la sete, la polvere e le mosche ci perseguitano. Siamo a meno di tre chilometri dal paese, dalle nostre case, eppure ci sentiamo lontani millenni, isolati dal mondo che ci circonda. Ci sentiamo un gruppo di naufraghi del tempo, uniti da una esperienza irripetibile.
L’archeologo responsabile si fa vedere poco, il giovane sostituto è, appunto, giovane ed il mio lavoro, sorvegliare che gli scavi si svolgano secondo le regole ed in sicurezza, non è facile.
I Carabinieri, che non capiscono nulla di quello che stiamo facendo, vengono spesso a disturbarci. Non sono in grado di distinguere un coccio nuragico dal vaso da notte della nonna, ma hanno il potere di mettere il becco nel nostro lavoro. Pazienza occorre, tanta!
Come chiunque abbia fatto scavi archeologici sa, i ritrovamenti degli ultimi giorni sono quelli che ci esaltano di più. Sarà forse perché sono la promessa, l’esca, per i prossimi scavi. Così riusciamo a datare il sito, l’ultima settimana di lavoro, quando agosto volge al termine ed il tempo si gira, portando l’agognata frescura.
In fondo ad una capanna antichissima, utilizzata come base per uno dei primi tentativi di costruire un piccolo nuraghe, finalmente tre piccoli pezzi di un vaso della civiltà di Monteclaro. Evviva!
Nel frattempo, esplorando i dintorni, scopro una Tomba dei Giganti, costruita allungando un antichissimo Dolmen, sepolta sotto un cumulo di terra. Puliamo anche quella dall’oltraggio dei millenni, ma è solo un lavoro preliminare.
Poi l’ultima sorpresa, uno dei nostri si allontana per imboscarsi tra la macchia mediterranea e ritrova un Dolmen ancora integro. Una breve esplorazione e scopriamo un’intera necropoli, vecchia di quattro millenni, che mai mano d’uomo ha profanato.
Ma gli scavi sono finiti. Io ho finito.
Credo che i quintali di reperti portati alla luce, come l’incisione del resto, aspettino ancora di essere studiati, dopo dieci anni. I tempi dell’archeologia italiana rischiano di far diventare reperti archeologici anche noi che li abbiamo trovati, prima che vangano studiati.
Certo, ho anche sperato che si riprendesse a scavare ma per anni e anni di anni non si è fatto nulla. Peccato, il sito, l’incisione, la necropoli, la Tomba dei Giganti renderebbero Sa Mandra Manna uno dei siti archeologici più importanti ( e visitati) d’Europa, se i nostri politici piccoli e grandi, i nostri archeologi, avessero un po’ più voglia di fare, gli uni il bene della comunità, gli altri solo il loro lavoro. Ma la scusa è sempre la stessa “Mancano i soldi” e la voglia di trovarli, aggiungo io.
Written by Salvatore Barrocu
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