Cinema: i registi dalla carriera più longeva #3 – L’America di oggi

Il terzo appuntamento con la nostra speciale indagine sui cineasti che hanno superato la soglia dei 50 anni di carriera dietro la macchina da presa mette a fuoco quest’oggi il panorama degli USA contemporanei.

Cinema L’America di oggi

Hollywood e dintorni costituiscono innegabilmente una delle culture artistiche più influenti e penetranti del secolo presente e passato, foss’anche osservandone il mero valore di mercato. Sono rari i casi che tentano di minacciare tale primato centenario: i tre titoli frutto di una produzione non statunitense e recitati in lingua non anglofona di maggiore incasso a livello globale risultano essere “Mei Ren Yu” (aka “The Mermaid”, Cina, 2016: 553 milioni di dollari), “Quasi amici – Intouchables” (Francia, 2011: 426 milioni) e “Il regno di Wuba” (Cina/Hong Kong, 2015: 385 milioni).

Le prestazioni raggiunte da James Cameron, re indiscusso del botteghino con “Avatar” (2009: 2.787 milioni) e “Titanic” (1997: 2.186 milioni), restano una chimera. Fortunatamente è altrettanto assodata, e da tempo, la rilevanza dei diversi prodotti cinematografici derivante dall’autorialità della poetica in tutte le sue sfaccettature.

È adottando questa fondamentale chiave di lettura che ci inseriamo nel quadro tematico odierno, pronti a conoscere, se non per la prima volta in assoluto almeno da un’angolazione inedita, gli astri più a lungo luminosi nel cielo a stelle e strisce.

Si rimarrà probabilmente stupiti fin da subito in motivo di Mr. Alan Smithee, il quale troneggia da un alto podio costruito nel giro di 62 anni, cui peraltro pare alquanto affezionato. La peculiarità di un simile record, destinato a superarsi senza posa, risiede nel fatto che la personalità in questione coincide per l’esattezza con uno pseudonimo collettivo, adottato per la prima volta nel 1955, risorsa preziosa in particolar modo dalla fine degli anni ‘60 in avanti per numerosi cineasti (fra cui ricordiamo i maggiori: John Frankenheimer, Arthur Hiller, Dennis Hopper, Richard C. Sarafian e Don Siegel) animati dall’intenzione di dissociarsi dalle proprie creature a cagioni multiple e personalissime.

A partire dal corto televisivo “The Indiscreet Mrs. Jarvis”, costruito attorno alla figura di un’Angela Lansbury tutta da scoprire, fino all’orrorifico “St. Nick”, realizzazione sammarinese della durata di appena 2 minuti, Alan Smithee appare in effetti più propriamente un ortonimo apolide, rifugio sicuro per almeno due generazioni di artisti, frequentato anzitutto da registi, quindi da sceneggiatori, attori, compositori, produttori e via dicendo, a maggioranza americana, in ogni caso venuto alla luce nella medesima terra e perciò collocato nella sede corrente.

Francis Ford Coppola

Venendo ai protagonisti tangibili dello scenario attuale, si incontra un triumvirato sacrosanto, forse insospettato. Esso è composto da Francis Ford Coppola, Martin Scorsese e Steven Spielberg, avviati alla carriera registica nel 1959 il primo grazie all’avventura fantascientifica “Stazione spaziale K-9” (firmata con lo pseudonimo Thomas Colchart), il secondo al corto “Vesuvius VI”, il terzo al brevissimo western “The Last Gun”, ancora cinto dal perimetro dilettantesco in cui versava il gigante che ben conosciamo.

Per ognuno ammontano a 57 gli anni certificati, prossimi ad un sorpasso diffusamente atteso per quanto concerne Spielberg, da mesi terminate le riprese di “Ready Player One” e ormai deciso a tornare sul set con “The Kidnapping of Edgardo Mortara” e “The Post”, e Scorsese, accantonato il problematico “Silence” e ora alle prese con la pianificazione di “The Irishman”. Discorso differente per Coppola, che rischia di ritirarsi dalle scene una volta instillato negli spettatori il ricordo (tutto sommato recente) più di “Twixt” (2011), mediocrissimo horror velatamente sperimentale, che delle due versioni di “Distant Vision” (2015 e 2016), tentativi di “live cinema” apprezzati da un’audience assai contenuta.

Giusto a carattere informativo, operazione ci si augurerebbe persino pleonastica in siffatto contesto, ai figuri di cui stiamo trattando siamo soliti attribuire la paternità rispettivamente della trilogia de “Il padrino”, “La conversazione”, “Apocalypse Now” e “Dracula di Bram Stoker”; “Taxi Driver”, “Toro scatenato”, “Quei bravi ragazzi”, “L’età dell’innocenza”, “Gangs of New York”, “The Aviator”, “The Departed – Il bene e il male”, “Hugo Cabret” e “The Wolf of Wall Street”; “Duel”, “Lo squalo”, “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, la quadrilogia dedicata a Indiana Jones, “E.T. – L’extra-terrestre”, “Il colore viola”, “Schindler’s List”, “Jurassic Park”, “Salvate il soldato Ryan”, “Lincoln” e “Il ponte delle spie”, oltre a numerosi altri iconici lavori.

Scalata la montagna di cui sopra, ecco comparire uno dei patriarchi del musical, Stanley Donen (suoi “Cantando sotto la pioggia”, 1952, e “Sette spose per sette fratelli”, 1954), attivo dal lontano 1949 con “Un giorno a New York”, esordio nel lungometraggio in piena regola, al 2003 con l’episodio “Dancing on the Ceiling” appartenente all’a quanto pare deludente documentario direct-to-video “The Lionel Ritchie Collection”. Ancora nel 2014 girava voce di un nuovo progetto in saccoccia, che coinvolta tra gli altri una stella del calibro di Christopher Walken, avrebbe segnato il ritorno di Donen sul grande schermo, a 30 anni da “Quel giorno a Rio” (1984): se questa prospettiva finisse per avverarsi, il nostro tornerebbe alla ribalta attuando un vero colpaccio, che lo farebbe schizzare al di sopra dello stesso Smithee.

Ralph Bakshi

Procedendo, incontriamo una schiera composta da quattro personaggi molto dissimili fra loro, alle spalle 52 anni di militanza. Ralph Bakshi, nato ad Haifa nella Palestina di un tempo ma da sempre considerato(si) cittadino statunitense, è all’unanimità riconosciuto fra i padri fondatori dell’animazione per adulti (qualcuno fra i lettori si ricorderà di “Fritz il gatto”, “Heavy Traffic”, “Coonskin”, “Wizards”, “Il signore degli anelli”, “American Pop”, “Hey Good Lookin’” e “Fire and Ice – Fuoco e ghiaccio”, realizzati fra il 1972 e il 1983), alle estremità della propria carriera più frequentemente uso ad occuparsi di cortometraggi o episodi di serie televisive: l’esordio è da collocarsi nel 1963 in seno ai Terrytoons Studios, quando gli venne affidata la direzione di 5 episodi dell’innocente “Bufalo Bau”, mentre l’ultima creazione, il corto “Last Days of Coney Island”, risale al 2015.

Brian De Palma è pronto per il suo ritorno in cabina di regia con un thriller intitolato “Lights Out”, ma ad ora la sua parabola artistica, iniziata nel 1960 col corto “Icarus”, ha posto il suo termine nel 2012, in corrispondenza del dramma “Passion”. Nel mezzo, titoli indimenticabili come “Il fantasma del palcoscenico”, “Carrie – Lo sguardo di Satana”, “Blow Out”, “Scarface”, “Omicidio a luci rosse”, “Gli intoccabili”, “Carlito’s Way”, “Mission: Impossible”, “Mission to Mars” e “Redacted”.

James Ivory ha mosso dal genere documentario (“Venice: Themes and Variations”, corto del 1957) ed è andato in pensione dopo aver presentato “Quella sera dorata” (2009); più che l’uno o l’altro, son “Camera con vista” (1985), “Casa Howard” (1992) e “Quel che resta del giorno” (1993) i titoli a rimanere solitamente più impressi, e a ragione.

Infine Richard Lester, battezzato in ambito televisivo ai tempi della prima stagione della serie crime “The Vise” (aka “Saber of London”, 1954), ha spiccato il volo con “The Beatles – A Hard Day’s Night” (1964), cui è subito seguito almeno un film realmente intelligente (“Non tutti ce l’hanno”, 1965) accanto alla seconda pellicola promozionale dedicata ai baronetti (“Aiuto!”, “Help!” in originale); successivamente si è profuso in una manciata di titoli di successo, come “Robin e Marian” (1976), “Superman II” (1980) e “III” (1983), ponendosi in conclusione all’attenzione del pubblico, trascorsi 15 anni dal documentario su Paul McCartney “Get Back” (1991), con la director’s cut dell’episodio supereroistico del 1980, datata 2006.

In penultima posizione si incrociano due colossi sorti nel 1966, chi in virtù della bizzarra commedia “Che fai, rubi?”, chi di un altrettanto bizzarro corto animato intitolato “Six Men Getting Sick”: trattasi naturalmente di Woody Allen e David Lynch, maestri incontestabili nei rispettivi habitat, i quali hanno ospitato i natali di opere (solo per citarne alcune) della portata di “Prendi i soldi e scappa”, “Io e Annie”, “Manhattan”, “Zelig”, “Hannah e le sue sorelle”, “La rosa purpurea del Cairo”, “Un’altra donna”, “Crimini e misfatti”, “Match Point”, “Vicky Cristina Barcelona”, “Midnight in Paris”, “Blue Jasmine” e “Café Society” da una parte, dall’altra “Eraserhead – La mente che cancella”, “The Elephant Man”, “Velluto blu”, 6 dei 30 episodi de “I segreti di Twin Peaks”, “Cuore selvaggio”, “Una storia vera”, “Mulholland Drive”, “Inland Empire – L’impero della mente”. Restiamo in attesa di “Wonder Wheel” dall’uno e dei 18 episodi di “Twin Peaks” dall’altro, entrambi in stato di post-produzione.

Frederick Wiseman

Chiude questa personale selezione delle “magnitudo” più alte un indagatore fra i più acuti del tempo corrente, quel Frederick Wiseman che alla scorsa edizione degli Oscar, forse chissà in riconoscimento del mezzo secolo d’attività, ha ricevuto il Premio onorario (mai era stato nominato in precedenza!). La filmografia in questione è coronata da più d’un lavoro, non raramente caratterizzato da eccezionale durata, di sensazionale influenza perlomeno in suolo USA: vogliamo ricordare, fra gli oltre 40 inseriti nel curriculum, il trampolino di lancio conosciuto come “Titicut Follies” (1967), i successivi “High School”, “Hospital” e “Domestic Violence”, i più recenti “La danse”, “Crazy Horse”, “At Berkeley”, “National Gallery” e “In Jackson Heights”. Al momento è ancora in fase di montaggio “Ex Libris: New York Public Library”.

Le file dei directors statunitensi ancora viventi che hanno maturato una perizia decennale non terminano qui: ci par soluzione accettabile dirottare gli appassionati alla scoperta di un altro pugno di nomi di seguito brevemente introdotto.

Autentico superuomo si dimostra Kenneth Anger, paladino dei cortometraggi esordiente in pubblico (aveva già realizzato un fantomatico “Ferdinand the Bull”, una volta completato forse mai visionato da anima viva, oggi disperso) all’età di 14 anni con il corto fantasy “Who Has Been Rocking My Dreamboat”, anch’esso smarrito: correva l’anno 1941, Orson Welles presentava il suo primo lungo “ufficiale”, “Quarto potere”. Di lì, includendo anche gli 11 e i 24 anni di pausa registrati fra i ’50 e i 60’, e fra i ’70 e i ’90, sono oltre 850 i mesi che trascorrono prima che venga posta la firma all’ultima realizzazione, il corto documentario “Airships” (2013).

Con lungo distacco si posiziona D. A. Pennebaker (1953-2016), nominato all’Oscar per il documentario “The War Room”, premiato con la statuetta alla carriera nel 2013; segue Ken Jacobs (1955-2016), autore del tutto ignoto all’Italia, e comunque candidato per 4 anni di fila al Tribeca Film Festival; quindi Bert I. Gordon (1955-2015, le braccia conserte dal 1990 al 2014), “maestro” della fantascienza, del fantasy e dell’horror di serie B (suo “L’impero delle termiti giganti”, 1977).

A un passo dalla sessantina si piazzano Gene Deitch (1947-2006), stimato regista d’animazione che ha lasciato tracce concrete soprattutto negli anni ’60 con le serie dedicate a Braccio di Ferro, Krazy Kat e Tom e Jerry (alla loro seconda stagione), e Lewis Gilbert (1944-2002), rammentato tuttora per “Alfie” (grazie al quale nel 1967 ricevette la sua unica nomination agli Academy Awards, come produttore) e per tre capitoli appartenenti alla saga di 007, “Si vive solo due volte” (1967), “La spia che mi amava” (1977) e “Moonraker – Operazione spazio” (1979).

Pari merito con 55 anni accumulati Robert M. Young (1956-2011), Caméra d’or a Cannes per l’opera prima “Alambrista! Il clandestino” (1977), e Melvin Van Peebles (1957-2012), memorabile per alcune sue curiose scelte drammaturgiche, in particolare “L’uomo caffellatte”, “Sweet Sweetback’s Baadasssss Song”, “Vrooom Vroom Vrooom”, “Confessionsofa Ex-Doofus-ItchyFooted Mutha” e “Lilly Done the Zampoughi Every Time I Pulled Her Coattail”.

Monte Hellman

Troviamo quindi un autore dall’originalissima vicenda, a tratti misterica (non a caso il “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi gli ha dedicato nel recente passato un’esauriente retrospettiva): è Monte Hellman (1959-2013), proposto per il Leone d’oro per il lungo terminale “Road to Nowhere” (2010), premiato nello stesso anno con un Leone Speciale per l’intero suo opus. Poco dopo vengono Randal Kleiser (1964-2016), ricordato specificamente per “Grease – Brillantina” (1978) e “Laguna Blu” (1980), e John Waters (1964-2015), padre di quel “Grasso è bello” (1988) da noi meno noto del remake “Hairspray – Grasso è bello” (2007).

In coda si pongono Michael Anderson (1949-1999), candidato all’Oscar per “Il giro del mondo in 80 giorni” (1956), Bruce Baillie (1961-2011), schiettamente affezionato ai formati ridotti, Robert Butler (1959-2009) attivo prevalentemente in tv ma ancor oggi simpaticamente popolare per “Il computer con le scarpe da tennis” (1969), Michael Lindsay-Hogg (1965-2015), la cui prima prova per il grande schermo (“Let It Be – Un giorno con i Beatles”, 1970) corrisponde all’ultima al cui centro si pongono i Beatles in veste d’attori, e Alfred Leslie, il quale ha diretto un corto noto, “Pull My Daisy” (1959), dove Jack Kerouac presta la sua voce come narratore di una vicenda in cui spicca su tutti Allen Ginsberg, più due lunghi sconosciuti (“Cedar Bar”, 2002, e “Alfred Leslie: Cool Man in a Golden Age”, 2009, prodotto direct-to-video).

La settimana a venire rivolgeremo ancora una volta lo sguardo al passato, alla ricerca dei pesi massimi, medi e minimi che ci hanno lasciato solo dopo aver celebrato il loro personale cinquantennio di professione nell’alveo della settima arte.

Sottostante nelle info, si trova un assaggio accuratamente selezionato delle produzioni più remote e più recenti nate dalla mente dei virtuosi che sin qui abbiamo incontrato.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

 

Info

Cinema – L’Italia di oggi
Cinema L’Italia di ieri

 

 

 

 

 

 

 

Link utili

“Stazione spaziale K-9” (Francis Ford Coppola, 1959)

Intervista su “Distant Vision” (Francis Ford Coppola, 2015-2016)

“Diamonds in the Rough”, da “Bufalo Bau” (Ralph Bakshi, 1963)

“Last Days of Coney Island” (Ralph Bakshi, 2015)

“Che fai, rubi?” (Woody Allen, 1966)

Trailer di “Crisis in Six Scenes” (Woody Allen, 2016)

“Six Men Getting Sick” (David Lynch, 1966)

Teaser trailer di “Twin Peaks” (David Lynch, 2017)

Trailer di “Titicut Follies” (Frederick Wiseman, 1967)

Trailer di “In Jackson Heights” (Frederick Wiseman, 2015)

 

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