Cinema: i registi dalla carriera più longeva #2 – L’Italia di ieri

Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati non più di una settimana fa: indagati i cineasti compatrioti ancor oggi viventi con alle spalle 50 e più anni di carriera dietro la macchina da presa, giunge il turno di chi con la propria dipartita ci ha nominato, recentemente od ormai da decenni, eredi del patrimonio artistico costituito dalla sua filmografia.

Cinema L’Italia di ieri

Il trono è occupato, e lo sarà ancora a lungo (perlomeno per altri 11 anni, auspicando che il savio Ermanno Olmi si conservi in salute), da uno degli autori italiani più ammirati e conosciuti a livello internazionale, vale a dire quel Mario Monicelli che, dopo l’esperienza nel lontanissimo 1934 vissuta in qualità di spalla nel corto “Il cuore rivelatore”, ha esordito l’anno seguente con un film muto dal titolo “I ragazzi di via Pal”, per il quale appena ventenne è stato premiato al Festival di Venezia nella sezione riservata ai “passoridottisti”, ossia ai registi che presentavano lavori girati in pellicole dal formato minore rispetto i canoni diffusi.

Di lì, dal sodalizio con Totò (“Totò cerca casa”, “Guardie e ladri”, “Totò e i re di Roma”, “Totò e Carolina”, “Risate di gioia”) ai capolavori universalmente apprezzati (“I soliti ignoti”, “La grande guerra”, “L’armata Brancaleone”), fino ai culturalmente imprescindibili “Amici miei”, “Un borghese piccolo piccolo”, “Il marchese del grillo”, è arrivato a realizzare un totale di 69 opere (comprendendo i 9 lungometraggi di cui ha curato uno, al massimo due episodi, e la miniserie “Come quando fuori piove”, per la quale ha prestato il suo talento nell’ambito di tre diverse puntate); la firma più fresca risale a “La nuova armata Brancaleone” (2010), terzo corto completato qualche mese prima che il maestro si togliesse la vita, braccato da un cancro alla prostata in fase terminale.

L’unico altro gigante con cui Olmi dovrà confrontarsi nell’ascesa verso la vetta è Luciano Emmer, baluardo della documentaristica, specialmente quella di dimensioni contenute dedicata all’arte, attivo dal 1941 col corto “Racconto da un affresco” al 2008 col segmento “Art. 18” inserito nel collettivo “All Human Rights for All”. In 67 anni di militanza nell’alveo cinematografico ha trovato anche spazio per cimentarsi con produzioni finzionali, fra cui la più nota e riuscita probabilmente resta “Domenica d’agosto” (1950).

Alessandro Blasetti

Alessandro Blasetti si distingue in qualità di più antico e longevo fra i directors dello Stivale, avviata la sua avventura esattamente 100 anni fa grazie a “La crociata degli innocenti”, film che mai potremo rivedere in quanto perduto, pure sceneggiato da un nume del calibro di Gabriele D’Annunzio; la parabola, conclusasi nel 1981 col dimenticato documentario televisivo “Venezia – Una mostra per il cinema”, ospita nel mezzo i capitoli più riusciti, come “1860” (1934), “La cena delle beffe” (1941) e “Quattro passi tra le nuvole” (1942).

63 gli anni accumulati da Carlo Lizzani, dal 1948, in cui ha girato il suo primo corto documentario (“Togliatti è ritornato”), al 2011, quando ha portato a compimento, non molto tempo prima del suo suicidio (lugubremente simile a quello di Monicelli), il segmento “Speranza” appartenente al film “Scossa”. Anche nel suo caso, il lavoro meglio ricordato, sicuramente uno dei più esemplari, risiede con probabilità nel debutto finzionale avvenuto con “Achtung! Banditi!” (1951).

Si posiziona subito dopo Giulio Questi, che similmente a Lizzani s’è affacciato al panorama mediatico con un corto documentario (“Città Alta”, 1949), saturando il proprio curriculum sempre nel 2011 grazie ad un altro corto, “Relazioni pericolose”. Gli succedono due giganti: uno è Dino Risi, istituzione della commedia e del dramma all’italiana, padre di titoli quali “Una vita difficile” (1961), “Il sorpasso” (1962), “I mostri” (1963), “Profumo di donna” (1974), il cui primo incarico autonomamente gestito, in seguito alle prove da aiuto-regista sostenute fra il 1941 e il 1943, coincide con il corto documentario “I bersaglieri della signora” (1946), mentre l’ultimo, condiviso col figlio Claudio, ha dato come risultato “Rudolf Nureyev alla Scala” (2005).

Il secondo titano porta il nome di Michelangelo Antonioni, fra i massimi riformatori del linguaggio della settima arte, Oscar alla carriera nel 1995, esordiente anch’egli con un corto documentario, stavolta indubbiamente più famoso (“Gente del Po”, 1947), congedatosi nel 2004 collaborando con Wong Kar-wai e Steven Soderbergh alla realizzazione del discusso “Eros”. Fra gli anni ’50 e ’70, i frutti più gustosi: “Il grido”, “La notte”, “L’avventura”, “L’eclisse”, “Il deserto rosso”, “Blow-up”, “Zabriskie Point”, “Professione: reporter”.

55 anni scoccati li condividono Damiano Damiani, disegnati dal 1947 collo sconosciuto documentario “La banda d’Affori” al 2002 con la coproduzione italo-spagnola “Assassini dei giorni di festa”, includendo fra molte esperienze non più di tanto gratificanti (su tutte l’indimenticato “Alex l’ariete”) qualche titolo di spicco come “Quien sabe?” e “Il giorno della civetta”, o anche “Un genio, due compari, un pollo” e “Amityville Possession”, e Florestano Vancini, all’opera dal 1950 col corto documentario “Pomposa” al 2005 col dramma in costume “E ridendo l’uccise”, autore di rilevanti lungometraggi d’impegno civile come “La lunga notte del ‘43” (1960), “Bronte – Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato” (1972) e “Il delitto Matteotti (1973).

Luigi Comencini

Seguono tre pari merito fermatisi a quota 54. Innanzitutto “il grande educatore” Luigi Comencini, il quale dopo un primo quindicennio dal mediocre spessore, cominciato nel 1937 col documentario “La novelletta”, regalò lavori intramontabili della portata di “Pane, amore e fantasia”, “Tutti a casa”, “Il compagno Don Camillo”, “Incompreso – Vita col figlio”, “Le avventure di Pinocchio”, “Lo scopone scientifico”, per concludere nel 1991 con un proprio remake omonimo del celeberrimo “Marcellino pane e vino”.

Poi, uno dei numi della documentaristica italiana (ma non solo), Vittorio De Seta: celebri i suoi corti d’attacco, da “Isole di fuoco” a “Surfarara”, da “Pasqua in Sicilia” a “Lu tempu di li pisci spata”, tutti del 1954, cui hanno fatto seguito lunghi preziosi come “Banditi a Orgosolo” e almeno una miniserie ch’è entrata nella storia, “Diario di un maestro”; il 2008 segna la conclusione della sua filmografia con il corto “Articolo 23 – Pentedattilo”, confluito nel già citato “All Human Rights for All”. Infine il meno noto Gian Vittorio Baldi, metà documentarista (già a partire dal 1958 col corto “La notte di San Giovanni”) e metà regista di finzione (fino al 2012, anno della cooperazione con Theo Anghelopoulos, Manoel de Oliveira, Atom Egoyan e Wim Wenders, fra gli altri, per “Invisible World”).

Incontriamo quindi Mario Soldati, battezzato nel 1938 in occasione della versione italiana de “La principessa Tarakanova”, ricevuta l’estrema unzione nel 1989 per il segmento dedicato alla città di Torino nel convegno di talenti costituito dal documentario “12 registi per 12 città”: di lui si rimembrano specialmente due ottimi film coevi tratti dagli omonimi romanzi di Antonio Fogazzaro, “Piccolo mondo antico” (1941) e “Malombra” (1942). Ansano Giannarelli gli si pone sobriamente accanto, cingendo la propria attività, devota in prevalenza alla ritrattistica del reale, nel 1960 con il corto “Geometria della pittura” e nel 2011 col lungo televisivo “Versilia: gente del marmo e del mare. Studio di (per) un’inchiesta televisiva”.

Gianfranco Mingozzi dal canto suo ha fatto giusto in tempo a terminare “Noi che abbiamo fatto la dolce vita” (2009), documentario agli antipodi rispetto al saggio di diploma “Il nemico” (1958), per poi in realtà restare generalmente, se non popolare, almeno nominato non tanto presso gli appassionati della documentaristica d’impegno civile, quanto fra il popolino di basse pretese in virtù di opere sempre spendibili, vedi “Flavia, la monaca musulmana” (1974), “L’iniziazione” (1986) e “Il frullo del passero” (1988).

Giuseppe De Santis

Chiudono la rosa tre nomi operativi giusto per mezzo secolo, due illustri e uno in penombra. Giuseppe De Santis e Gillo Pontecorvo abitano ancora dignitosamente la memoria comune, l’uno ricordato con maggior facilità per gli immarcescibili “Riso amaro” (1949) e “Roma, ore 11” (1952) piuttosto che per l’incipit “Giorni di gloria” (1945) e l’explicit “Oggi è un altro giorno” (1995), entrambi documentari, l’altro per gli altrettanto rinomati “Kapò” (1960) e “La battaglia di Algeri” (1966) più che per “Missione Timiriazev” (1953) e “Firenze, il nostro domani” (2003), di nuovo ambo documentari.

Carlo Campogalliani proviene direttamente dalla preistoria del cinema italico (5 i corti del 1914, il primo dei quali porta il titolo di “Sesso debole”), ed ha interrotto il proprio non così fecondo processo creativo 10 anni prima del decesso, firmando l’avventuroso “Il ponte dei sospiri” (1964). E sulla sua reminiscenza terminiamo anche questo contributo odierno. L’appuntamento è rinnovato per la settimana a venire, in cui voleremo oltreoceano alla scoperta dei Matusalemme statunitensi. Sottostante nelle info, si trova un assaggio accuratamente selezionato delle produzioni più remote e più recenti nate dalla mente dei cineasti che sin qui abbiamo incontrato.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

Info

Cinema – L’Italia di oggi

 

 

 

 

 

 

 

Link utili

Estratto da “I ragazzi di via Pal” (Mario Monicelli, 1935)

“La nuova armata Brancaleone” (Mario Monicelli, 2010)

“Togliatti è ritornato” (Carlo Lizzani, 1948)

Trailer di “Scossa” (Carlo Lizzani, 2011)

“Gente del Po” (Michelangelo Antonioni, 1947)

Trailer di “Eros” (Michelangelo Antonioni, 2004)

“Pomposa” (Florestano Vancini, 1950)

Estratto da “E ridendo l’uccise” (Florestano Vancini, 2005)

“Isole di fuoco” (Vittorio De Seta, 1954)

“Articolo 23 – Pentedattilo”, da “All Human Rights for All” (Vittorio De Seta, 2008)

“Giorni di gloria” (Giuseppe De Santis, 1945)

Spot di “Oggi è un altro giorno” (Giuseppe De Santis, 1995)

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