Intervista di Ilaria Cecchinato a Claudio Longhi: il nuovo direttore di ERT Fondazione
ERT, Emilia Romagna Teatro Fondazione dal 1 Gennaio 2017 ha passato la direzione da Pietro Valenti (in carica dal 1994) a Claudio Longhi, regista teatrale e titolare della cattedra di Storia della regia e Istituzioni di regia all’Università di Bologna.

Di seguito un’intervista al neo direttore, in cui illustra la sua concezione di teatro e le linee principali del suo mandato per il quadriennio 2017-2020.
Intervista andata in onda per la rubrica “InScena” del format Breakfast Club di Radiocittà fujiko (FM 103.1, Bologna)
I.C.: Lei è regista teatrale e fino ad un mese fa è stato anche docente di Storia della regia e Istituzioni di regia all’Università di Bologna. Cosa significa fare teatro oggi e qual è la necessità?
Claudio Longhi: Penso che, da un certo punto di vista, anche se i condizionamenti storici sono fortissimi e il mondo cambia continuamente, ci sia una necessità radicale, direi antropologica del teatro: è la necessità di creare un luogo, uno strumento per una comunità, per riflettere sul proprio presente e per capire le contraddizioni e le tensioni da cui è attraversata, individuandone delle possibili vie di uscita. Credo, come ci hanno spiegato gli antropologi, che il teatro nasca da questa esigenza basilare di auto-rappresentazione. È un po’ il discorso che faceva Shakespeare quando diceva «Il teatro è uno specchio che si regge al secolo per mostrare al presente la sua effige». Questa necessità ha attraversato i secoli, declinandosi di volta in volta in forme diverse a seconda dei contesti in cui si è venuta a sviluppare. Questa necessità di base però rimane, e credo che da questo punto di vista il teatro rimanga uno strumento di concettualizzazione importantissimo. C’è dunque una funzione essenzialmente politica del fare teatro (nel senso più alto del termine) che continua a rimanere e che fa del teatro un nucleo centrale all’interno di una città.
I.C.: Questa sua visione come si concilierà con il suo ruolo di direttore di ERT e a sua volta come concilierà la sua attività registica?
Claudio Longhi: In questo momento penso che l’attività registica debba fare un passo indietro, o quanto meno funzionalizzarsi ad un ragionamento diverso, che è uno sguardo da direttore di un teatro. Da questo punto di vista credo che un direttore di un teatro abbia l’onore e l’onere di farsi carico di questo impegno (per non usare una parola troppo ambiziosa come potrebbe essere “missione”) cercando di fare tutto quello che è in suo potere per fare del teatro il crocevia di incontro di una città.
I.C.: A partire da questo, quali saranno i punti fermi del suo lavoro?

Claudio Longhi: I punti fermi sono tanti, ci sono molte ambizioni, ma credo che sia anche giusto, all’inizio, come ci insegnava Machiavelli, a puntare molto alto. Ci sono innanzitutto degli obiettivi di politica culturale: impegnarsi al pieno riconoscimento del teatro come attività culturale, cosa che nella nostra società non è così forte perché, in fondo, una dimensione ludica o quanto meno disimpegnata del teatro continua a rimanere un dato costante; c’è la necessità di immaginare il teatro forse più ancora che come un servizio pubblico, come un valore pubblico, un bene comune di cui dobbiamo avere cura. Il che non vuol dire che non abbia una ricaduta economica, anche un valore può avere una ricaduta economica importante se lo si vive nel termine più giusto. C’è inoltre il bisogno di rinsaldare i vincoli comunitari: la nozione di comunità si è molto sfrangiata nella nostra contemporaneità. Si è molto dibattuto sul tema della dissoluzione della comunità in massa, o sulla nascita di forme di aggregazione comunitarie diverse, nomadi. Su questo si deve riflettere e il teatro credo possa dare dei contributi molto preziosi. C’è poi la necessità di rinsaldare i rapporti tra gli attori artistico-culturali di una città e accogliere anche la sfida del rapporto con l’estero. Il nostro sistema teatrale ha tratti marcati che lo differenziano dal sistema internazionale, anche se la riforma del 2014 innegabilmente si pone anche come tentativo di adeguare il sistema italiano al sistema europeo. Di fatto ormai l’Europa è il nostro orizzonte. Accogliere questo tipo di sfide è importante e il teatro ha delle funzioni ben precise da questo punto di vista. Forse uno dei modi di pensarci europei è il fatto che in Italia, così come a Oslo, come a Mosca, se diciamo “Edipo” sappiamo di cosa stiamo parlando, o quantomeno lo sentiamo parte della nostra storia. Poi ci sono ovviamente degli obiettivi più strettamente legati ad una dimensione teatrale: siamo in un’epoca di profondo rivolgimento dei linguaggi, e su questo dobbiamo soffermarci e riflettere. Sta cambiando un’idea di regia, sta cambiando contestualmente la funzione dell’attore, la drammaturgia; c’è da riflettere sul rapporto tra teatro di rappresentazione e performance, sulla relazione di meticciato con le altre arti, sul rapporto con la musica. Sono tutte questioni che si stanno via via sempre più imponendo all’attenzione ed è giusto aprire degli spazi di sperimentazione e di ricerca da questo punto di vista. Il tutto senza avere l’ambizione di tirare delle conseguenze che probabilmente capiremo solo tra un centinaio d’anni, quando ci sarà la distanza storica che ci consentirà di coglierle. Però, di fatto, dei luoghi in cui lavorare in questi campi sono importanti. L’ambizione è creare anche spazi di questo tipo.
I.C.: Per quanto riguarda la questione del pubblico: ci sono state delle critiche riguardanti l’eccessivo spazio dato alla prosa contemporanea, non sempre apprezzata in quanto non capita. L’ormai ex-direttore Pietro Valenti ha risposto con una serie di incontri volti ad educare lo spettatore alla visione. Lei cosa pensa di queste critiche e come crede di poter avvicinare il pubblico alla scena contemporanea ancora guardata con sospetto?

Claudio Longhi: Penso sia un problema enormemente complesso. Penso che forse sia il problema e che non sia un problema solo teatrale. È da un secolo buono che ci stiamo lavorando intorno: è dalla nascita dell’avanguardia che, di fatto, si è posto questo problema del rapporto tra l’esperienza artistica e la comunità. È il problema del nostro tempo e credo che lo si debba affrontare con grande lucidità. Credo inoltre che tutte le opinioni siano giuste; soprattutto che sia giusto che tutti abbiano un’opinione. Credo anche che ognuno debba prendersi la responsabilità delle proprie opinioni, io per primo. Consideriamo che viviamo all’interno di un’idea di teatro pubblico che in Italia si è sedimentata nel 1947, con uno slogan che è stato di fondazione del Piccolo Teatro di Milano. Dalle autorevoli colonne del politecnico si scrisse «Teatro d’arte per tutti». Questa formula è la croce e la disperazione di tutti quelli che si occupano di teatro oggi. Credo però che quello sia il segreto: “Teatro d’arte per tutti”. Credo che le scelte vadano fatte; credo che si debba avere sensibilità per la collettività. Esiste una formula? No. Se esistesse saremmo tutti dei meravigliosi organizzatori. Credo che ognuno debba, con una sua serietà e coerenza, cercare di interpretare e dare una soluzione a questo problema.
Written by Ilaria Cecchinato
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