“Stoner” di John Williams: anche la storia di una vita ordinaria può diventare un capolavoro

“William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito il dottorato di ricerca e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956. Non superò mai il grado di ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di lui un ricordo nitido. Quando morì, i colleghi donarono alla biblioteca dell’università un manoscritto medievale, in segno di ricordo.”

Stoner di John Williams

Provate ad iniziare un discorso, parlando della vostra vita privata, o dicendo qualcosa di terribilmente banale. Vedrete che, intorno a voi, qualcuno prenderà a sbadigliare; altri ripetutamente a guardare l’orologio. Fino a quando, a poco a poco, si creerà il vuoto.

Perché parlare di cose ordinarie si può, ma farlo creando interesse è una qualità che pochi posseggono. Occorre una grande tecnica, per compensare con la prosa le mancanze di una trama troppo “lineare”, facendo sì che il lettore si appassioni e decida di andare fino alla fine.

È quanto è successo a me con “Stoner”, il capolavoro del texano John Williams (1922-1994), pubblicato nel 1965 ed inizialmente ignorato dalla critica. Riscoperto in seguito, è divenuto uno dei più grandi romanzi americani del ventesimo secolo.

La casa editrice Fazi, nel novembre 2016, ha proposto una nuova edizione, con una brillante postfazione dello scrittore statunitense Peter Cameron. Eppure, la storia di Stoner è alquanto banale: l’unico figlio diciannovenne di una famiglia di contadini, residenti in un piccolo paese rurale della contea di Mississipi, viene mandato a studiare agraria all’università del Missouri, per poter essere in grado, un giorno, di aiutare con maggior perizia il padre nel lavoro nei campi.

Ma, una volta qui, Stoner s’innamora della letteratura inglese, e decide di cambiare indirizzo ai suoi studi. In sintesi, comunicherà soltanto dopo la laurea ai suoi genitori che non tornerà più a casa, e che diventerà insegnante, proprio in quella stessa università che lo ha accolto.

Sono gli anni della prima guerra mondiale, i suoi amici si arruolano e vanno al fronte, ma Stoner rimane fedele al suo lavoro d’insegnante; anche se non riesce a comunicare ai suoi studenti, che con attenzione seguono i suoi seminari, tutta la passione che prova nella lettura privata: l’emozione di quei libri che a lui danno una particolare gioia. Ostacolato dai colleghi, per uno screzio riguardo la bocciatura di uno studente disabile che invece un suo superiore intendeva promuovere, egli non riceverà mai alcuna promozione, e rimarrà ad occupare la stessa posizione fino alla morte, avvenuta nel 1956, all’età di 65 anni.

Anzi, quando ormai quarantenne Stoner conoscerà l’amore, e vivrà una breve storia con una giovane collega, Katherine Driscoll, il rettore – nonché suo acerrimo nemico per venticinque anni – lo metterà nelle condizioni di rinunciare, minacciando uno scandalo e il conseguente licenziamento. Ma allora, vi starete chiedendo, quest’uomo pavido e abitudinario, senza particolari aspirazioni né desideri di gloria, che s’impunta per questioni di principio, ma solo quando riguarda il suo vero e unico amore (la letteratura), almeno, ha avuto un matrimonio felice? Ha avuto dei figli appagati? La risposta è no.

Perché Stoner sposa Edith, una donna arida e complicata, che per una qualche ragione sconosciuta gli si nega da subito, incapace di provare piacere dal rapporto sessuale. Una donna isterica ed opportunista, gelosa del legame di Stoner con la figlia che, almeno nella prima parte della sua vita, lei trascura; e che poi riempie di attenzioni e “soffoca”, soltanto per toglierla alla tutela del padre. Edith s’intromette con cipiglio, al solo scopo di rompere quella complicità che i due avevano creato negli anni, quando lei era impegnata a seguire le sue inclinazioni – non ultimo un breve excursus nel mondo del teatro.

John Williams

Un matrimonio infelice, quello di Stoner e Edith, dove un unico e breve punto d’incontro si avrà soltanto alla fine, con la malattia di lui. La piccola Grace, solo frutto di quell’amore e creata “a tavolino”, sempre in seguito ad un capriccio della madre che a tutti i costi ha voluto un figlio, crescendo diventa un’infelice, finendo col ripetere il cliché che Stoner aveva messo in atto coi suoi genitori: un estraneo in famiglia, sebbene molto amato.

L’uomo arriva addirittura a benedire l’abuso di alcol, se può servire a stordire sua figlia e a dare finalmente un po’ di pace al suo animo tormentato. Ora, ditemi voi, con queste premesse, credereste che “Stoner” sia uno dei romanzi più belli che io abbia mai letto? E che sia qui a consigliarlo, addirittura invidiando chi ancora non lo conosce? Eppure è così.

Le sue pagine fanno parte di quel talento che hanno i narratori americani, come ad esempio Raymond Carver, capace di creare suspense nei suoi racconti anche solo invitando un amico a cena. La mancanza di giudizio, da parte di John Williams, induce a non compatire il protagonista e a non renderlo sgradevole.

Al contrario, si impara ad apprezzare Stoner a poco a poco, ogni capitolo sempre di più. E alla fine, quando lui muore, qualcosa dentro chi legge s’incrina. È il grido, rimasto troppo a lungo silente, della gente “comune”; di chi ha capito che ad andarsene sono bravi tutti, mentre invece difficile è rimanere nelle situazioni.

Stoner – il nome “granitico” che allude alla pietra, “stone” – è un inno alla resistenza; alla fedeltà a tutto quello che è sicuro e che si conosce; alla rinuncia a quel che è nuovo e invece sa di avventura. Ci vuole molto coraggio anche nella propria “partigiana” resistenza, pur vedendo il mondo scorrere e andarsene: un universo di cui non faremo mai parte.

Bisogna essere grandi anche nella propria rinuncia a vivere, e questo il lettore lo comprende, allorquando le pagine sfumano e, in quella prosa così emozionante, Stoner va ad allargare le fila della gente “immortale”. Davvero una beffa, per chi pensa che per essere ricordati si debbano fare grandi cose, non trovate?

 

Written by Cristina Biolcati

 

 

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