“Indiana”, il nuovo album dei Dulcamara: rituali, sogni lucidi e labirinti immaginari
“Più ci penso/ e più vorrei un sombrero/ spararti in mezzo agli occhi/ mentre mi dici Davvero?/ Dove hai messo il mio fucile?/ Il mio fucile?/ Che mi serve per proteggermi/ da tutte le volte che mi amerai/ come dentro ad un rituale/ come dentro ad un rituale/ che la testa fa girare//[…] – “Rituale”

Avevam sentito parlare di loro qualche anno fa con l’album “UomoConCane” e con quel “Giugno ‘99” nel quale ci si chiedeva cosa fosse la realtà e l’esistenza: “E se non fossimo mai esistiti?/ Mai davvero stati qui/ se fossimo solo comparse/ di un film di David Lynch?/ ma fuori c’è il sole / io passo a prenderti / andiamo non so dove /in due su una moto non ci fermeranno/ è giugno 99/ ultima estate di un secolo/ ultima visione/ tra poco ci perderemo come anime/ come anime in stazione/ e se niente è reale ci potremo anche sparare/ se non ti sbagli amica ora potremo anche volare/ ma sono pensieri nati di notte/ nati laddove sgranai il rosario/ in un vecchio Land Rover/ […]”, ma i Dulcamara avevano alle spalle altri due album “Lasciami ad est” ed “Il buio”. Li ritroviamo, oggi, con un nuovo progetto di tredici tracce “Indiana” che sarà disponibile tra qualche giorno, il 25 novembre 2016. Dall’ Hip Hop e gitano dell’est Europa, “Indiana” già dal titolo presenta la sua evoluzione nel folk nordamericano.
Scritto in diverse città, spesso dentro motel di passaggio, “Indiana” si apre con il brano “Rituale” tra lo sciamanico ed il tribale che ci ricorda la nostra appartenenza alla terra e la necessità di percorrere la corrente per ritrovarsi “Perché forse tu lo sei l’immortale/ che la testa fa girare/ che la mia testa fa girare/ come dentro un rituale/ come dentro un rituale/ Come il fischio di una nave/ nella nebbia/ di un porto di una qualche grande vecchia Inghilterra/ Io ti sento andare via/ ma non ti vedo/ e ti inseguo dove posso anche se dove non lo so// […] Ogni cosa che richiami ritornerà/ ogni cosa che richiami ritorna/ proprio come un rituale ritornerà/ proprio come un rituale ritorna.”
Segue “Ladum” con il suo narrare della stasi e del pensiero di nessuna salvezza, ci si trova seduti ad osservare ed osservarsi dal di fuori, si ripensa a ciò che si era prima di concepire la distanza da tutto e da tutti. Si prospetta una nuova nascita, o meglio l’estrazione di ciò che segretamente si celava all’interno di sé. E l’indagine inizia dal cielo, dalle stelle, dal mistero delle divinità: “Nella mappa del cielo/ tu cerchi il mistero ed il riverbero degli Dei/ Poi accosti, procedi/ Ti fermi, stai in piedi/ e ripensi a cosa non sei/ Senti di essere stato lontano da tutto/ e scommetto ora lo sai/ e chi eri prima di dormire/ questa volta non lo ritroverai// […]”.

“Terminal” è la terza traccia da cui è stato anche tratto il primo videoclip dell’album. Un’invocazione alla propria anima, quel “gioia mia” che con molta fatica è venuta fuori, e con la quale non è facile parlare. La stessa consiglia in modo imperativo di non perdere tempo e di assorbire ogni momento di solitudine, gli unici attimi in cui ci si può sentire sé stessi ed al completo grazie all’appoggio dei sogni lucidi e delle conseguenti altre vite: “[…] Gioia mia/ quanta fatica per averti mia/ Dove vai?/ Quando non volti per questa via/ Gioia mia/ mi cambi la faccia e la calligrafia/ Dici vai/ e lascia stare quella compagnia/ E non sprecare mai/ un minuto solo/ di solitudine// […] Ho viaggiato per più mondi di quanti visitati/ dalle calde pianure fino ai mari congelati/ […]”
“Luce di Frontiera” è luce d’argento nell’iride, è ricordi dell’avvenire, ed ancora scongelamento di momenti già stati, già passati, nello stesso istante. Lo scorrere del tempo perde la sua accezione convenzionale, il mormorio delle preghiere degli uomini è assimilato ai “canti dei lupi” ed i ricordi “[…] Cadono come i soldati/ abbandonati in/ luoghi dove sono stati lasciati soli/ I suoi giorni come in/ riti sciamanici/ nemmeno il grande occhio la può più trovare […]”
“Si Piange Mai”, quinta traccia di “Indiana”, apre con: “Comprerei la tua ingenuità/ ad un bazar di Bogotá/ venderei la mia brutta faccia/ per una più vera che non piange mai” e desidera la visione di gente che parte da un aeroporto simbolico e che non torna mai, e dunque “si piange mai”; il viaggio allegorico ci distanzia dal passato, da tutto ciò che ha oppresso il nostro essere senzienti e sensibili: “Ora ricordi e pensieri/ non fanno che andare via”.
E si arriva alla sesta (ah quanto ci esalta la numerologia) con “Sogni lucidi”, brevissima, meno di un minuto e mezzo nella quale si racconta dell’onirico, della cenere, del Messico, di un sasso nel quale “con sangue inglese” c’è scritto “I love you“.

Una casa senza corridoi e con terrazze con sola vista mare: questa è “La casa di fronte”, una casa da cui non si vede partire nessuno e nella quale si “avranno pianeti e tramonti migliori/ e non una sola ombra in lontananza/ né ancestrali insonnie di mancanza/ e non un rumore di spari nei sogni/ che li fa svegliare di notte come pazzi/ per controllare di essere ancora vivi// […]”.
L’anima come parte di noi stessi che non va via, l’anima come una parte di terra che sorveglia ed illumina la bellezza in cui si scrive “Deserto vivo”, l’ottava traccia si chiede quanto possa esser lunga la strada da percorrere per arrivare a casa e di come si possa venir uccisi dal proprio destino, e dunque dal non poter “ridere soli davanti al Mattino”. “Giorni che non so,/ aria che non ho./ Trovi che sia un male tornarcene a casa?// […] Dove arriva quella strada?/ Quanto manca ancora?/ Prima di dire quella è casa,/ è casa mia./ Dammi una mano,/ dimmi tu a che punto siamo?/ Se lontani anni luce o vicini qualche isolato.// […] Mi è rimasto il tuo accendino,/ fuochi del deserto vivo/ caldo ed amaro paradiso/ di una sera passata in giro.”
Si passa per “Stelle identiche” “come il vento va da sé a sé” anche se queste stelle sono solitarie e distanti. Siamo ad un incrocio o forse ormai si è intrapresa la galleria, e se si prosegue si ha la luce come unica auspicata uscita. Si è cercato ovunque senza saper bene che cosa cercare, sembrava quasi una follia ma la ricompensa è arrivare dritto a sé, un viaggio solitario che porta all’unica moltitudine nella quale si ride e piange per il medesimo motivo. “[…] Cercare in ogni dove/ non sapendo come sia/ sparire nella luce a fine galleria/ e ritrovarti come ti ho lasciato un millennio prima/ ma non per questo meno mia/ non per questo meno mia// Viaggiare soli per arrivare dritto a te/ e da lontano sentirti vertigine/ e poi parlarsi come due sconosciuti che/ si telefonano/ da lontanissimo/ e ridono e piangono// […]”

“Awona Wilona Song”, decima traccia di “Indiana” parla del dono dell’ubiquità, della Terra rossa, di nuove mappe da disegnare, di motel, di epoche assimilate a collane di perle. Il titolo riporta al mito degli indiani Zuni del New Mexico nel quale Awonawilona fu il creatore del mondo concepito come una combinazione di entrambi i sessi, da lui derivano tutte le creature viventi (in due versioni del mito, infatti, l’uomo è da una parte stato creato gettando pezzi della sua pelle nell’oceano primordiale ed in una seconda versione è stato generato in quattro caverne all’interno della terra).
L’undicesima traccia, “Da qualche parte”, ci trasporta in strade bianche, in stagioni calde, nei natali di Jules Verne, nel cielo di un’astronauta che torna, nelle montagne di Atlantide, negli anelli di Nettuno, nell’eco della vastità. “[…] È stato bello parlarti/ quasi come abbracciarsi/ in qualche punto indefinito/ ci si incontrerà/ rincontrerà// […]”
Ed eterna si apre “Labirinti immaginari”: “Portami oltre il confine/ superando le ultime colline/ fino a che non avrò più nome/ ossa volto voce direzione/ e come fiaccole antivento/ ci troveremo senza coordinata/ o come fossimo in mare aperto/ dove ogni traccia è stata cancellata// […] Non c’è male che il sole non allevierà// Portami oltre il confine/ cantami ciò che non si può sentire/seguendo rotte interstellari/ e labirinti immaginari// […]”. Eterna, sì perché penso che questa richiesta di “oltre il confine” sia eterna, ed ogni volta che ascolto il brano percepisco lo stesso intenso brivido. Una delle migliori di “Indiana”, senza nulla togliere alle altre. It’s just my personal feeling.

E poi arriva la tredicesima, “Verso Nord”, e ripropongo la frase “una delle migliori di “Indiana”, forse perché siamo in chiusura, forse perché sono tredici brani di cui non si può fare a meno. E si commenta da sola, superflue le mie possibili aggiunte: “Parlandomi di geometrie lunari/ di animali immaginari/ ti addormentavi/ Tra le cime di quelle montagne/ oltre la cordigliera delle Ande/ Verso Nord// In cambio di che cosa siamo andati?/ In cambio di che cosa siam restati?/ Ombra/ Ombra nell’ombra// La notte è ancora una coperta scura/ questa pietra porterà fortuna/ la conserverò// Tutto è verità e passaggio/ mai /nessuno si è smarrito// […] Madre antica posso andare?/ Hai già acceso il Sole oggi?/Vorrei guardare// Oltre l’orizzonte degli eventi/ ci potremo rincontrare/ Verso Nord/ Od in una sala da thè di un Paese in Fiamme/ a ragionare sulle distanze// […] È un sogno/ passerà la febbre o vestiti/ Usciamo a riveder le stelle”.
Chiude una ripresa di “Terminal”: “Dici vai/ e lascia stare quella compagnia”.
I Dulcamara sono: Nicola Altrove (chitarre acustiche), Thomas Festa (chitarre elettriche), Massimo Sbaragli (basso), Giovanni Minguzzi (batteria), Christian Ravaglioli (organi, tastiere), Damiano Missiroli (rumori echi e sonorizzazione).
Una curiosità sul nome della band è che la dulcamara è una pianta velenosa che, in realtà, può anche essere un ottimo aiuto in caso di ipotermia e malattie varie da raffreddamento. Metaforizzando l’album con questa definizione potremo anche considerare “Indiana” una medicina, una cura per il raffreddamento della nostra anima, nel caso questa fosse stata colpita da ipotermia delle clausole della società illusoria.
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