“Era mia madre” di Iaia Caputo: una saga al familiare che racconta l’amore come eredità
“Era mia madre” è un romanzo di Iaia Caputo, giornalista e docente di scrittura creativa, edito nel 2016 da Feltrinelli.
La saga familiare, la biografia, il romanzo di formazione e quello epistolare si intrecciano nell’opera di Iaia Caputo, creando una storia corale, in cui pochi, e con dovizia definiti, protagonisti calcano la scena di una vita in cui tutti, almeno in parte, possiamo riconoscerci.
Sinforosa è la nonna. Ha oltre novant’anni, lacca le unghie di rosa, si profuma di Talborina Melograno e si esprime in un linguaggio colorato in cui la forma di italiano standard accoglie espressioni dialettali. È dotata di carattere forte, quello di chi a molto è sopravvissuto e a molto altro riuscirà a farlo, grazie alla saggezza stoica dei vecchi che hanno reso il tempo che passa amico consolatore. Piange con poche lacrime, Sinforosa, o non piange affatto, consapevole di essere regina di ogni attimo fugace.
Arturo è il padre. Prima ragazzo sessantottino tormentato e studente di filosofia, poi docente universitario e esponente della classe politica coinvolto nello scandalo di “Mani pulite” con l’accusa di corruzione. Un uomo debole, superbo, affatto furbo e lungimirante.
La madre non ha un nome proprio che la definisca, nel romanzo. È la madre per eccellenza, colei nella quale si rispecchiano tutte le donne del mondo che, nella diversità che tutte contraddistingue, sono comunque ventri di memoria e futuro. Nel titolo del libro la accompagna un verbo all’imperfetto: un tempo passato, che indica una perdita, ma che è anche quello dell’eterno narrare del “c’era una volta”: quando fu, ma è sempre.
La madre era grecista, insegnante universitaria e ben ancorata alle idee del femminismo, che per lei furono azioni, e amante del bello assoluto, concetto che rifugge lo stereotipo e si incarna nell’arte intesa come empatia con la natura.
Alice è la figlia, unica, di Arturo e della madre. Trentacinquenne, espatriata a Parigi, senza figli, senza un compagno con cui condividere progetti, senza un lavoro fisso. È una ballerina, Alice, sia nell’accezione letteraria del termine che in quella metaforica, ossia è una che lotta con fatica e che tutta la interiorizza, per danzare sulle punte, nella totale instabilità, per giungere allo spirito.
Dimenticato o accantonato l’odio nutrito per anni verso Arturo, Alice lo rimuove come figura paterna e mantiene, invece, vivo un conflitto generazionale con la madre, intesa come la generatrice responsabile di una società anti meritocratica, fondata sul disvalore, in cui chi è stato causa di tale fallimento continua, paradossalmente, ad occupare posti di rilevo, sottraendoli ai trentenni, ossia ai “figli”.
Un aneurisma cerebrale, con conseguente coma vegetativo, della madre mette in discussione rapporti interpersonali e dinamiche familiari che sembravano, se pur tristemente, risolte.
Attraverso la lettura di missive che la madre scriveva per lei, la figlia “che parte”, ossia che si allontana infinite volte per infiniti addii, e attraverso il ritorno nella casa dell’infanzia, Alice diventerà adulta e capace di trovare il proprio posto e ruolo in una storia familiare intrisa di puro amore.
Perché d’amore si tratta, in fondo, in questo romanzo.
Non del fuoco di un istante, non della passione che brucia nelle fiamme dei vent’anni, non del perfetto incastro fra caratteri, non della pace e dell’armonia senza ardua conquista, non del sentimento mai attraversato dal dubbio, non della tenerezza in cui ogni screzio di scioglie in un abbraccio.
Non di questo, dunque, ma del volersi “bbene assaie”, per sempre, nella reciproca comprensione.
Written by Emma Fenu