Intervista di Raffaele Lazzaroni al regista Michele Pastrello: vi presentiamo la sua trilogia filosofico-emozionale

Fuori è un pomeriggio uggioso, piove e tira vento; dentro il tempo assume un ritmo autonomo, di certo più incalzante e “variopinto”. Dal primo banco arrivano toast e succo al mirtillo; è l’ora della chiusura, ma la conversazione ingaggiata non ha ancora saturato le rispettive esigenze, così scegliamo un altro bar, dove ci scaldiamo con un macchiato e un cappuccino.

Michele Pastrello

Siamo il regista Michele Pastrello ed io, tête-à-tête colloquiando sulla sua attività, più o meno recente, spesso e volentieri dilungandoci in liberi reciproci ammannimenti circa l’arte cinematografica, spaziando da Béla Tarr a Bruce Beresford a Hou Hsiao-hsien, passando per alcuni filippini “dai nomi impronunciabili” fino all’estremo oriente del Far East Film Festival, Kiyoshi Kurosawa e il J-Horror di Hideo Nakata, senza trascurare nomi più noti come quelli di Woody Allen e Pedro Almodóvar, titoli attuali del calibro di “Deadpool” e “It Follows”, per approdare ad un immancabile confronto sul panorama italiano contemporaneo: Lo chiamavano Jeeg Robot” VS “L’attesa”, “Il racconto dei racconti” e “Non essere cattivo”, la “sensorialità” di Paolo Sorrentino, il (piccolo) schermo di Roberto Faenza,Indivisibili” e “Fuocoammare”.

Rilevante, anzi necessario riportare gli elementi di questo background culturale proprio perché costituiscono ottimo carburante iniettato nella vena creativa del nostro, personalità eclettica, a tratti scostante, dalle potenzialità originali, almeno in parte qui indagate. Occasione dell’incontro è il completamento della cosiddetta “trilogia filosofico-emozionale”, un breve ciclo di cortometraggi (Desktop”, 2014, “Awakenings” e “Sensorium Dei”, 2016) ideati e realizzati negli ultimi tre anni, disponibile ora sul suo canale YouTube officiale, raggiungibile anche dal sito.

Dopo aver goduto della visione del materiale, la cui elogiabile ossessione è individuabile nella cura formale, frutto di un non comune processo di astrazione come avremo a breve modo di appurare, mi è stato offerto il piacere di dialogare con un autore amichevole, franco e giovanile nel raccontarsi, al quale i nostri affezionati lettori certo, uniti al sottoscritto, augureranno una rinnovata stagione di produzioni creative.

Riporto di seguito lo specchio della persona così come ha voluto manifestarsi a me, confidando in un processo di interesse che via via proliferi in maniera sempre crescente.

 

R. L.: Da dove vieni?

Michele Pastrello

Michele Pastrello: Non ho frequentato l’università, ma vi ho lavorato come montatore, grazie anche al fatto che avessi da occuparmi di musica; ho vissuto poi una piccola esperienza al laboratorio Ipotesi Cinema fondato da Ermanno Olmi. La mia vera scuola è stata comunque la visione: guardavo moltissimi film (da “Scary Movie” a Kim Ki-duk) e, leggendo numerosi pezzi di critica, ho cominciato a osservarne la grammatica (i movimenti di macchina, le musiche, la fotografia); tentavo inoltre di impararne l’arte strutturale attraverso i software di video-montaggio.

 

R. L.: La genesi: dove trovi l’ispirazione per le tue opere?

Michele Pastrello: Ho cominciato nel 2006, ero appunto montatore. Il primo corto che ho realizzato è stato “Nella mia mente”, un thriller (il genere mi ha sempre affascinato) con attori amatoriali e un solo operatore, tutti più o meno alle prime armi; l’ho presentato al Pesaro Horror Film Fest e ha vinto subito il primo premio. Mi son detto: “forse ho delle capacità”. Da tempo ero attratto da un certo cinema horror di taglio politico che si faceva in America negli anni ’70, tipo i primi film sugli zombie di George A. Romero, quelli di Wes Craven (“Le colline hanno gli occhi”, 1977), Tobe Hooper (“Non aprite quella porta”, 1974), Larry Cohen (“Baby Killer”, 1974), i quali utilizzano spesso uno strumento che mi è sempre piaciuto, la metafora. Le mie creazioni successive sono ispirate a questo, in particolar modo “32” (2008), thriller che riflette sulla distruzione del paesaggio veneto, e “Ultracorpo” (2011), uno dei film di cui vado più fiero, perché riesce ad affrontare un argomento delicato come l’omofobia in termini abbastanza complessi, magari critici ma sempre aderenti, tanto da essere risultato non di rado contestato e allo stesso tempo il lavoro che ha riscosso il maggior consenso. Dopo “InHumane Resources” (2012) mi son dedicato alle fonti di occupazione per così dire “ufficiali” (ossia ai videoclip, specie se musicali, dei quali sono sempre stato un amante, ad opere di rinnovo visivo e grafico, prodotti “emotional commercial”, “advertising web-serie”), e pian piano son riuscito a farvi penetrare un po’ della mia poetica.

 

R. L.: Giungiamo a “Desktop”, il primo capitolo della tua trilogia.

Desktop - Viviana Leoni

Michele Pastrello: L’ho realizzato un po’ per caso: quando senti una voce dentro non la tieni a freno. Notavo che in internet cominciavano a fluire un numero sempre maggiore di video “emozionali”, microstorie che non erano esattamente dei cortometraggi intesi nel senso classico del termine, né videoclip. La maggior parte delle persone che ha visto “Desktop” vi si è affezionata: in 3 minuti e 50 secondi sono riuscito a trasmettere qualcosa di interessante dal punto di vista contenutistico, ma che non è neanche uno “sfregio” da quello del linguaggio. Incoraggiato dai followers e visitato da una certa ispirazione, ho deciso di intraprendere la via del web, nonostante la vittoria ai festival di un discreto numero di premi. Con “Awakenings (Coscienza dopo il sonno)” e “Sensorium Dei”, infatti, si chiude una trilogia esistenzialista.

Mangio un boccone…

“Desktop” è andato molto bene, si è rivelato il cortometraggio più visto del mese su Wired. Così accade: quando non me lo aspetto, mi contattano; quando punto più in alto, le cose non vanno come spererei. In principio volevo raccontare due solitudini; il fatto che poi i personaggi si incontrino è venuto dopo. Danilo Arona, scrittore e saggista, parla del “multiverso”: ci sono delle anime che, non si sa come, si sfiorano, si intercettano. Non ero disposto a edulcorare la vita montana piuttosto che quella metropolitana. È innegabile che la nostra condizione umana ci porti ad avere dei limiti, le stesse dinamiche che portano a “sopravvivere”. Volendo fuggire un atteggiamento pessimistico, ho chiuso con una nota di speranza: la possibilità di un contatto poetico, più che razionale, “ultradimensionale”. Un giorno una persona mi ha scritto che mentre io stavo male lei, senza esserne al corrente, si sentiva inquieta; un tempo in effetti eravamo stati molto vicini. Una parte di ognuno di noi sa che esiste questa dimensione. A livello di montaggio, ho cercato delle soluzioni speculari, dall’atto della vestizione all’uscita oltre le mura domestiche, lo stress metropolitano, la fatica di essere costantemente circondato dalla neve. Il problema di questi lavori è che, privi di sceneggiature dialogate come sono, mentre si gira inducono a pensare: “chissà come usciranno…”.

 

R. L.: Per quale motivo abolisci i dialoghi, perlomeno quelli verbali?

Awakenings - Alessandra Odoardi

Michele Pastrello: In molti film che mi piacciono il dialogo non è la parte fondamentale: sono affezionato più ai valori dell’immagine e della musica. Ora sto scrivendo il soggetto di un lungometraggio e non riesco ad immaginarlo per “dialoghi”. Uno dei miei i titoli preferiti, “Rambo” (1982), è quasi un film non parlato, e tuttavia possiede una forza considerevole. Credo in questo tipo di cinema, mi appartiene (e già i corti precedenti non erano ricchi di sezioni parlate); se mi chiedessero, esordendo, di girare una commedia a gag con Ficarra e Picone, credo morirei.

 

R. L.: Prima accennavi alle tue competenze musicali: hai avuto una formazione scolastica o sei un semplice amatore?

Michele Pastrello: Ho frequentato una scuola di musica, anche se non sono certo Allevi; negli ultimi corti ho preferito affidare la composizione della colonna sonora ad altri musicisti, anche se magari alcuni raccordi li curavo io stesso, perché le musiche ben si applicassero alla struttura delle sequenze. Posso dire che nei lavori più recenti la musica funge da sceneggiatura, ascoltandola prima di girare “vedo” delle immagini, percepisco delle evocazioni; poi in genere all’interno del prodotto finale essa ne esce profondamente mutata: l’unico caso in cui è rimasta intatta, sin da quando l’ho trovata in un sito che vende licenze musicali, è rappresentato da “Awakenings”.

 

R. L.: Parliamo di “Awakenings”, appunto: cosa sta a significare “Coscienza dopo il sonno”? Indica forse la nuova consapevolezza dopo un periodo di veglia in cui le azioni, ossessivamente iterate, erano di fatto come letargo?

Awakenings - Marco Tizianel

Michele Pastrello: Ti svelo un segreto: ci sarebbe una director’s cut. Dopo l’urlo conclusivo i personaggi dovevano essere ri-avvicinati nella loro realtà quotidiana: il manager, la ragazza in carrozzina, la donna delle pulizie, il morto, il quale infine nella bara avrebbe alzato il dito. Talvolta ho più fiducia in un morto che riesce a cambiare se stesso che nelle capacità di una persona vivente, e nei miei lavori se posso inserisco volentieri l’elemento fantastico, che va in questo caso dallo “zombie” alla danza. Poteva uscirne qualcosa di ridicolo, invece ho notato che nessuno ha avuto da ridire a riguardo: anche gente non abituata ai video emozionali, che si immagina solo “la giapponesina che abbraccia il cagnolino”, ha accettato di buon grado la tematica post mortem. A livello formale, “Awakenings” è il risultato di un bilanciamento calcolato: due storie normali, due storie straordinarie, il non detto, il non provato, il non vissuto, il rimpianto, tutti elementi che peraltro ho ripreso per la prima volta anche attraverso la steadycam, ruotando attorno agli attori. Quello che intendo mostrare è che non si può sempre affidarsi alla ragione, perché logicità scalza logicità; se abbiamo il coraggio di sognare, guardare oltre, possiamo trovare una motivazione per fare determinate cose. Rifletteva un poeta: “l’amore ci solleva da tutto ma non ci salva da nulla”. Quando ami non sei immortale, ma percepisci altro, ti si aprono testa e polmoni, quando arriva questa emozione, è potente.

 

R. L.: Chiude il cerchio “Sensorium Dei”. Siamo concordi nell’affermare che sia…

Michele Pastrello: …volutamente ermetico. Si tratta ancora di un’evocazione, secondo cui il tempo è un’entità impalpabile, metafisica. “Il sensorio di Dio” sarebbe “lo spazio in cui i sensi della divinità intervengono”, come diceva Isaac Newton, il quale, contraddetto successivamente da Einstein, parlava di un tempo volgare, relativo, e un tempo assoluto, che scorre ineluttabilmente, eternamente, fluidamente, sistematicamente. Il titolo mi sembrava interessante in questo verso: i mondi che vi sono rappresentati sono allegorici, distopici. Sant’Agostino diceva: “il tempo è (solo) una dimensione dell’anima”. Non voglio fare il filosofo: mi limito a dire che il corto insiste nuovamente sui limiti della condizione umana, sul nostro cercare di dare un senso alla bellezza del tempo e dello spazio (rappresentati dalla donna). Mi sono accorto che mostrandolo, diversi spettatori individuavano differenti significati, anche se tutti convenivano sulla presenza costante di una sensazione d’ineluttabilità. Perciò vorrei parlarne il meno possibile. “Sensorium Dei” è molto caotico (in confronto “Desktop” è più frou-frou): voglio asciugare ulteriormente il mio stile, lavorare di sottrazione. Ho approfondito la slow motion: il bosco, la polvere, l’uomo confuso, questa specie di divinità. All’attrice (Eleonora Panizzo) dissi di percepire il tempo, i suoi movimenti in effetti ricordano le lancette di un orologio: personalmente la vedo come un “countdown”.

 

R. L.: E di Stefano Negrelli, protagonista di questo e degli episodi precedenti, che mi dici?

Sensorium Dei - Eleonora Panizzo

Michele Pastrello: È il mio pongo, gli faccio fare qualsiasi cosa; così come Eleonora, a febbraio all’isola dei morti sul Piave (tirava un vento porco), fino alla fine non ha battuto ciglio. A lavorarci ancora ci metterei la firma. Hanno davvero fiducia in me, in uno che dice: “lei balla sul Piave e lui scava”.

Comunque volendo illuminare un po’ la questione: pensa a “Collateral” (2004) di Michael Mann, film straordinario, dove ad un certo punto alcuni coyotes attraversano la strada, e Tom Cruise e Jamie Foxx li osservano in silenzio. Il significato di ciò è inenarrabile, è un’evocazione, pura immagine. Questi sono i miei riferimenti. Anche David Lynch vive di questo. La cosa che mi piace di più di “Sensorium” è questo mondo in disfacimento, dove lui (l’uomo) è presente, così come lo è parallelamente in “altri”. Mi viene in mente l’epilogo di “Prometheus” (2012) di Ridley Scott

Elizabeth: Loro [gli alieni] ci hanno creati e poi hanno cercato di ucciderci. Hanno cambiato idea. Ho bisogno di sapere perché.

David: La risposta è irrilevante. Cambia qualcosa sapere perché hanno cambiato idea?

Elizabeth: Sì. Sì che cambia.

David: Non riesci a capire.

Elizabeth: Beh… forse perché io sono un essere umano e tu sei un robot.

 

Written by Raffaele Lazzaroni

 

 

 

 

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Sito Michele Pastrello

 

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