Intervista di Irene Gianeselli al regista Francesco Ghiaccio: fare cinema con il coraggio di rischiare
Francesco Ghiaccio è diplomato in drammaturgia presso la Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. I suoi testi per il teatro sono stati rappresentati nei più importanti festival e teatri nazionali.

Nel 2011 ha scritto la sceneggiatura del film Cavalli, presentato alla 68ͣ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un posto sicuro è il suo primo lungometraggio. Ha fondato con Marco D’Amore La piccola società, punto fermo per la produzione cinematografica e teatrale.
«Appena impari a riconoscere l’amianto ti accorgi che è ovunque, in provincia come nelle grandi città. Era considerato un materiale eccezionale, isolante e indistruttibile, per questo l’hanno chiamato “Eternit”. Invece non è affatto eterno, si sfibra e rilascia nell’aria dei filamenti che respiriamo. A Casale Monferrato lo sanno bene: tutto è cominciato agli inizi del ‘900 quando la fabbrica ha aperto i battenti e il sogno di un posto sicuro, ben pagato, aveva travolto tutti» scrive Francesco Ghiaccio nelle sue note di regia e continua «I cittadini di Casale hanno accolto me e Marco D’Amore per primi e poi tutta la troupe con straordinario affetto, affidandoci l’incarico di raccontare un disastro sconosciuto ai più. Sono nato a Torino ma cresciuto ad una manciata di chilometri da Casale, dove tuttora risiedo: l’esigenza di raccontare la storia di un ragazzo che deve fare i conti con la malattia del padre e dunque scopre le dimensioni del disastro, è nata da sé. È una storia che parla di rinascita, di vite che si rimettono in moto e danno un senso al proprio esistere, sullo sfondo di una città che cerca giustizia».
Francesco Ghiaccio racconta ai lettori di Oubliette Magazine come si impara a fare crescere un progetto cinematografico coraggioso e coerente come è Un posto sicuro.
I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. Prima di parlare di “Un posto sicuro”, ci racconti il tuo percorso artistico?
Francesco Ghiaccio: Ho sempre scritto fin da ragazzino e poi ho cominciato a fare teatro alle scuole superiori, seguendo sempre di più questa passione e recitando. Ho lavorato in varie Compagnie e finalmente mi sono iscritto alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano, seguendo il corso di drammaturgia. Lì ho conosciuto Marco D’Amore e da allora abbiamo sempre lavorato insieme, fondando una nostra Compagnia e lavorando ai nostri spettacoli che io scrivevo. Lui era in scena, faceva la regia dello spettacolo. Poi la passione per il cinema è diventata sempre più forte fino ai primi cortometraggi che dirigevo. Marco recitava e scrivevamo insieme la sceneggiatura e questa è la modalità di lavoro che che ci ha portato a fare questo film. Dopo la scuola ho iniziato a scrivere spettacoli di teatro per varie Compagnie e ho anche scritto per diversi produttori di cinema e una di queste sceneggiature è stata prodotta ormai quattro anni fa. Si intitola Cavalli, per la regia di Michele Rho ed è stato presentato alla 68ͣ Mostra del Cinema di Venezia.
I.G.: Con Marco D’Amore come avete lavorato sul soggetto di “Un posto sicuro”?

Francesco Ghiaccio: Da anni cercavo un’idea per il mio esordio alla regia e quando qualcosa mi convinceva la proponevo a Marco e cominciavamo a scrivere, però per un motivo o per l’altro queste storie si fermavano. A volte perché non trovavamo dei produttori, a volte perché non eravamo convinti noi, questa è stata la prima storia che ha saltato da sola tutti i problemi: quando non abbiamo trovato il produttore all’inizio ci siamo convinti che avremmo prodotto il film da soli e quando sentivamo che c’erano delle difficoltà artistiche all’interno della storia riuscivamo sempre a superarle, fino a che siamo arrivati proprio al punto in cui la storia stava in piedi da sola, parlava oltre le nostre intenzioni e questo ci ha fatto capire che questo film era necessario non soltanto per noi, ma anche per tutti gli altri, perché tutte le testimonianze che abbiamo raccolto durante la ricerca erano riuscite ad entrare in una maniera tonda e compiuta all’interno del film.
I.G.: Nel film fondamentali sono le testimonianze dirette.
Francesco Ghiaccio: La scrittura è durata quasi due anni, perché abbiamo ascoltato un’infinità di persone: c’è stata prima una lunga ricerca su libri, articoli di giornale, però erano sempre dati, importanti in un primo momento per farci capire la vastità del problema, però la cosa fondamentale è stata incontrare i diretti protagonisti. Con loro è stato un impegno fin dal primo momento perché ognuno dava una profondità diversa alla storia, ci raccontava del proprio vissuto e ci siamo resi conto che ognuno di loro poteva essere uno dei protagonisti del film. All’inizio quando facevamo ricerca non avevamo ancora chiara in testa la storia e quindi ci siamo resi conto che costruire i personaggi era un po’ come dare dignità a tutte le cose che avevamo raccolto, perché tutti questi personaggi sono la somma di tutte quelle voci. Nella sceneggiatura abbiamo inserito battute e alcuni piccoli fatti che ci sono stati raccontati dai tanti cittadini di Casale.
I.G.: Quindi ogni personaggio si porta dentro altre dieci, cento, mille persone?
Francesco Ghiaccio: Sì, esattamente. E poi ovviamente la vicenda sullo sfondo è quella del processo, della rivolta della città, dei fatti che vengono raccontati, quelle sono tutte cose vere.
I.G.: Molto importante nel film è la forza che il teatro trasmette.
Francesco Ghiaccio: La forza proviene da quella sensazione che si prova ad assistere tutto insieme a qualcosa che accade sulla scena, quell’effetto di catarsi nel provare tutti insieme lo stesso dolore e da lì ricominciare, che è un po’ quello che ha fatto Casale con i suoi trenta anni di lotta, è diventata città, comunità, ha condiviso quel dolore e quindi mettere in scena uno spettacolo e restituirlo alla città era proprio seguire questo percorso: condividere tutti insieme le stesse emozioni e da lì ricominciare. Ovviamente il tutto è affidato al nostro protagonista e quindi mettere in scena questo spettacolo era anche l’occasione per raccontare tutte le sue paure e le difficoltà da superare per arrivare a quella sua personale maturazione. In questo caso è sempre più difficile distinguere una recitrazione teatrale da una cinematografica quando è un attore vero a fare entrambe le cose.
I.G.: Marco D’Amore, infatti, in questo film è teatrale in senso assolutamente positivo, lo spettatore non osserva muoversi sullo schermo un attore che gioca a fare se stesso in un contesto straniante.

Francesco Ghiaccio: Infatti, il confine è talmente sottile che ormai tanti pensano che recitare al cinema sia tutto nell’essere “spontanei”: i film improvvisati con attori improvvisati – e questi sono i film di successo purtroppo – hanno fatto pensare al pubblico che si fa così. Ricordo che c’erano momenti in cui facevo scorrere l’inquadratura da Marco ad altri attori e lì ti rendevi conto che erano entrambi fermi, non dicevano e facevano nulla, sul volto di Marco c’era l’identità del personaggio mentre magari altri non l’avrebbero mantenuta fuori dall’inquadratura. Puoi anche stare fermo di fronte alla macchina da presa, ma se dentro non hai coscienza di quello che stai facendo si vede sul tuo volto. Non significa niente essere “spontanei” quando si recita.
I.G.: Possiamo dire che in questo esordio ci sia già significativamente la cifra del vostro cinema?
Francesco Ghiaccio: Esatto, questo per noi è fare cinema, specialmente in relazione a questa storia. Ti dico a proposito una cosa centrale del film, che fa anche riferimento a quanto abbiamo detto. Faccio riferimento alla scena in cui ci sono i cittadini di Casale che raccontano a Luca del loro vissuto. In mezzo a loro c’è anche Giorgio Colangeli che in montaggio abbiamo inserito per ultimo, come una sorpresa. Quando giravamo quella scena, tutta la troupe che sentiva le testimonianze era in lacrime, compreso il mio operatore seduto accanto a me, ed era una cosa straziante, e Giorgio ad ogni ciak mi chiedeva di non dire la battuta, perché, diceva «Si vedrà che io recito». Aveva paura di essere un attore di fianco a delle persone vere. Mi diceva «Rischiamo di rompere l’incantesimo». Io ero sicuro invece della battuta di Giorgio e di lui, e sapevo che avremmo fatto un salto e saremmo arrivati dove dovevamo arrivare. E infatti quando lui ha detto la battuta si sono commossi i cittadini di Casale, come se quella cosa non l’avessero mai sentita prima, come se si riconoscessero in lui come in uno specchio e in quella scena il corto circuito che genera il film (tu spettatore sai che Giorgio Colangeli è un attore) ti porta a riconoscere l’attore come un uomo di Casale.
I.G.: Proprio questo aspetto al limite con il neorealismo e il cinema di indagine vi lega al cinema di Rosi: avete una cifra di autentica inautenticità o inautenticità autentica che si sta perdendo. Questi maestri hanno segnato in qualche modo la tua formazione?
Francesco Ghiaccio: Sì, assolutamente, fin da ragazzino, Le mani sulla città non finisce mai di stupire per le novità della regia, del messaggio, per gli attori, per il protagonista (che non era un attore). È fantastico quel film, Rosi è importante per tutti: un’altra cosa che ho amato è l’intervista-dialogo con Tornatore, è un volume dal titolo Io lo chiamo cinematografo. Ricordo Il caso Mattei, Cristo si è fermato a Eboli e tutti gli altri film incentrati sul sociale. E poi certamente Olmi per questa maniera che ha di guardare i personaggi, profondamente umana ed empatica.
I.G.: Come regista tendi molto a contestualizzare il personaggio. lo spazio è un altro personaggio in questo film. Come avete scelto i luoghi del film?

Francesco Ghiaccio: Sì, certo, lo spazio è un altro personaggio. E rispetto al personaggio devo dirti che io sono un appassionato di narrazione, seguo con estrema cura i personaggi e le loro storie che generano. Per me il personaggio è sempre il suo luogo, non casca da una stella. Tutto quello che gli sta intorno, che tocca, vede, perfino i silenzi, devono essere qualcosa che lo riguarda, altrimenti è qualcosa che non c’entra con lui. I luoghi sono quelli che raccontano della vicenda di Casale, anche quando Luca cammina per la strada, è in quell’atmosfera, è nel suono di quella strada, bisogna stare con lui, e così in ogni momento del film. Per esempio, quando il protagonista torna a casa dalla festa, lui è solo, la strada è nel buio, in un colore blu violaceo che ricorda l’amianto, il resto è completamente nel silenzio. Perché appunto quello che bisogna raccontare in quel momento è un aspetto profondo del personaggio, non devo raccontare una strada, o la città, ma come lui è in rapporto con lo spazio che lo circonda. Quando ci sarà la scena della rivolta, le stesse strade avranno un colore più acceso e il suono sarà più intenso, perché la città è in strada e i personaggi hanno quindi un rapporto diverso con quello spazio. Nel dialogo al fiume, il fiume è una presenza lontana e non si sente perché i due personaggi non sono ancora pronti a tornare a quel ricordo, o ritornano in maniera superficiale, ma alla fine, quando tutto è stato affrontato, il fiume scorre e si sente impetuoso e in qualche punto lontano ricomincia la vita.
I.G.: C’è una macerazione interiore di tutti i personaggi, forse la donna sembra l’unica ad avere una minima consapevolezza di sé, mentre piuttosto enigmatica è la figura del padre. Come avete lavorato con l’attore Giorgio Colangeli?
Francesco Ghiaccio: Ho voluto Giorgio da subito: l’ho incontrato e lui aveva delle perplessità rispetto alla sceneggiatura. L’ho convinto e alla fine è entrato con tutto se stesso e ha regalato tanto, soprattutto ad un esordiente come me. Ad esempio nella scena dell’ospedale è stato generosissimo, e anche quando facevamo tanti ciak inseguendo la battuta per ore, lui non si è mai lamentato di questo, non mi ha mai detto nulla. Quando lavoro con Marco è come lavorare con me stesso, dopo tanti anni sai tutto quello che c’è da sapere e con Giorgio è accaduta la stessa cosa nonostante ci conoscessimo da molto meno tempo.
I.G.: Nel film è evidente un grande lavoro di squadra, una intesa profonda e un obiettivo alto che tutti insieme avete perseguito.
Francesco Ghiaccio: Nella squadra comprendo tutta la troupe, sono stati speciali, ci sono stati momenti in cui il tempo di lavoro giornaliero non ci consentiva di fare delle cose che per me erano necessarie, e allora tanti di loro saltavano la pausa pranzo senza farlo notare a nessuno, perché anche per loro il film era importante, sentivano che parlava a tanti. Durante le riprese la squadra ha vissuto a Casale e quindi tutti sentivano l’attesa per il film e si sono sentiti parte di quella realtà. Un ringraziamento speciale a Guido Michelotti, il nostro direttore della fotografia e operatore.
I.G.: Perché è importante fare cinema oggi e come, al di là di questo film che è già il risultato di una tua poetica personale, si dovrebbe fare cinema?
Francesco Ghiaccio: Sono domande difficili, nel senso che forse sono senza risposta, perché ognuno dovrebbe rispondere a suo modo: fare cinema per me ha senso solo se quello che fai è condivisibile, se è importante per me e se poi è importante anche per chi lo guarda, se uno riesce ad essere sincero con se stesso, va alla ricerca di cose che sono importanti per lui nel momento in cui sta raccontando quella realtà storica e di conseguenza chi la guarderà riuscirà a fare sua la storia. Questo di spettatore in spettatore. Se invece l’autore segue le limitazioni di mercato o la condizione di un produttore, ebbene, questo fa parte del mestiere, ma non è fare il cinema che noi tutti amiamo. Quindi ogni autore dovrebbe dare la sua risposta ogni volta che svolge il proprio lavoro, in quel momento.
I.G.: Questa è una risposta.

Francesco Ghiaccio: Era per dire che il cinema e lo spettacolo investono molteplici aspetti. Forse è impossibile e forse neppure giusto dare un perché al fare cinema: c’è chi lo fa per divertimento o anche solo perché lo sa fare. Ci sono tanti registi che non sono narratori, ma solo dei tecnici: lo schemino per costruire una storia è facile. C’è un personaggio che ha un problema, affronta le difficoltà, trova degli aiuti, alla fine ce la fa. Così come fare la regia è una cosa che possono fare tutti: fai un totale e due primi piani e hai fatto il film, e ne vedo tanti così. Alla fine è un film pulito, educato ma non dice nulla perché non parla dell’autore che l’ha fatto e di conseguenza non parla allo spettatore.
I.G.: Un altro aspetto del film è il grande equilibrio fra realismo e dimensione onirica: lo avete pianificato o è avvenuto spontaneamente?
Francesco Ghiaccio: Nella sceneggiatura la scena delle palline non c’era, ma è qualcosa di talmente onirico che non riesco a dirti da dove è venuta fuori, non è una scena che porta avanti una storia, anche se dà delle informazioni importanti e dal punto di vista visivo restituisce un’emozione forte perché rende lo sterminio della città. Però quella scena nel suo significato, nella sua espressione è qualcosa di talmente assurdo che è al di fuori dal film nonostante sia dentro.
I.G.: Una scena che esiste al di là.
Francesco Ghiaccio: Esatto! Tu senti che una cosa è importante per te, devi correre il rischio di dirla nella maniera in cui quella cosa va detta, anche se il rischio è alto. Altre volte l’onirico entrava nella sceneggiatura perché girando per la città, questa mi parlava, e la troupe mi seguiva: riuscivamo a fare delle cose che sembravano impossibili.
I.G.: Dopo questo risultato importante avete altri progetti?
Francesco Ghiaccio: Siamo al lavoro, però abbiamo abbiamo diverse storie tra le mani. Una storia in particolare che ci sta prendendo tanto, ma verrà fuori quando avrà la dignità di parlare da sola. Per ora siamo sempre pronti a presentare il film. Il 7 ottobre saremo al VII Galà del Cinema e della Fiction in Campania, il film è nella cinquina della miglior opera prima, ed il premio è intitolato proprio a Francesco Rosi. È una vera gioia.
Written by Irene Gianeselli