Il sobrio ed inquieto congedo di David Bowie: l’uomo che cadde sulla Terra 69 anni fa
David Robert Jones, in arte David Bowie è nato a Brixton (Londra) l’8/01/1947. Inserito nella schiera dei cantanti new british, con una tendenza sfacciata verso il glam rock, i lustrini e il dance rock, “l’uomo che cadde sulla Terra” è morto il 10 Gennaio 2016.
Aveva compiuto 69 anni, due giorni prima, l’8 gennaio, lo stesso giorno in cui era uscito il suo ultimo album Blackstar. Malato da 18 mesi di cancro, è morto tra le braccia della sua famiglia. È stato il figlio, dopo l’annuncio ufficiale su Facebook a postare su Twitter “Very sorry and sad to say it’s true. I’ll be offline for a while. Love to all.”
Bowie ha incantato più d’una generazione, dagli anni Sessanta in cui si lanciava, ancora giovane, in un’era appena inaugurata dai ribelli e da una beat generation in forte crescita. E come tutti i contemporanei, giovani e meno giovani, restava a bocca aperta, in silenzio ad osservare i cambiamenti.
Bowie, ancora adolescente, si fece fare strada dal fratello Terry, del quale porterà sempre il dolore per la sua morte, cominciando a sentire dischi di jazz e lasciandosi trascinare nel nuovo mood musicale. Poi durante gli anni del liceo, forma piccoli gruppi di studenti pronti ad assalire le scene musicali.
Ma la carriera si prospetta, dopo un breve periodo in formazione di gruppo – The Kon- Rads, 1962, The Lower Third, nel 1966, The Buzz, Riot Squat, 1967 – solitaria e romantica, in un deciso passaggio di qualità e di classe che lo renderanno unico nel tempo.
La sua figura legata, per la maggiore, ai camaleontici travestimenti ha sfondato le scene musicali degli anni Settanta, causando una rottura verticale con il rock progressive dei contemporanei. Solista, musicista, compositore, Bowie ha sorvolato e oltrepassato le barriere dei cliché e degli stereotipi freak.
Non lo si potrebbe affiancare ai Velvet Underground, a Lou Reed o al jazz che lui amava tanto, né associarlo ai gruppi beat pop. La sua è una ricerca dell’io incompiuto: non una donna, non un uomo, un io diverso dagli altri e da se stesso, tendente ad una esplosiva vivacità di colori e di forme.
Il confine, poco netto, si attua tra musica, teatro, e fotografia, in un connubio di rock, folk, sound e rinnovata energia. I testi che con il tempo passano da temi attuali, sociali, a testi minimali e di versi musicali che potremmo chiamare, prendendo a prestito un termine delle arti visive, il “sintesismo”.
È uscito l’8 gennaio l’ultimo album Blackstar, un nome che ricorda l’internazionale e celeberrima Starman, con cui l’artista britannico ha conquistato le folle mondiali, e dalle quali, forse, preparava l’addio.
Un saluto alle scene, annunciato due settimane fa, palchi che non calcava dal 2006; un saluto che, con il video di “Lazarus”, ha preso un significato profondo. Ed è in Blackstar l’ultimo ricordo del dandy ribelle.
Tutti hanno osservato i mutamenti del Duca Bianco, cambiando con lui il colore dei capelli, i tacchi delle scarpe. Ora, in silenzio e con rispetto, ascoltiamo il vuoto che ci ha lasciato. Per quanto, ancora con un sorriso, lo ricordiamo con l’interrogativo: “Is there a life on Mars?”.
Written by Elisa Longo
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