“StellaNera” di Marco Foderaro: un film ispirato a “Blackstar” di David Bowie
“In the villa of Ormen, in the villa of Ormen/ Stands a solitary candle/ In the centre of it all, in the centre of it all/ Your eyes// On the day of execution, on the day of execution/ Only women kneel and smile, ah-ah, ah-ah/ At the centre of it all, at the centre of it all/ Your eyes, your eyes// […]” – “Blackstar”
StellaNera è il primo lungometraggio diretto da Marco Foderaro nel 2016, concepito poco dopo la morte, avvenuta in quell’anno, di David Bowie.
Black star è il titolo dell’ultimo album del cantante inglese, da lui prodotto e interpretato poco prima della sua misteriosa morte, avvenuta, si dice, per una sorta di volontaria eutanasia: il suo tumore al fegato era ormai all’ultimo stadio. Il primo singolo uscito da quell’album fu, appunto, Blackstar. Il secondo è, significativamente, Lazarus, trasmesso in rete tre giorni prima del decesso del suo autore.
Protagonista del film StellaNera di Foderaro è un tipo che non so proprio come definire. Probabilmente anche lui faticherebbe a inquadrare il sottoscritto.
Ma se se siamo così diversi, com’è possibile che mi sia tanto identificato in lui? Anche quando quel pazzo (quel pactum compresso) compie, con gelida determinazione, dei delitti imperdonabili?
Egli, come ogni ente di questo tragico Kósmos, è alla ricerca non di se stesso, con cui convive da decenni, ma della certezza di esistere per un motivo unico, assoluto, accentrante, totalmente singolare.
Egli è una creatura che anela una verità che doni la certezza di avere l’unico senso possibile, non uno qualsiasi, bensì quello salvifico ed eterno.
Marco Foderaro abitualmente utilizza per le sue opere dei pazienti del CSM (Centro di Salute Mentale) di Reggio Emilia. Egli afferma in un’intervista che lavorare con loro è bellissimo, in quanto, come gli stessi dicono, si sentono liberi solo allorché recitano. L’importante è che si crei ogni volta una pur tragica bellezza, che faccia almeno un po’ sorridere. Questa è una mia deduzione, chissà quanto azzeccata.
Ognuno ha il suo mito. Quanto pagherei per far resuscitare il mio Arthur Rimbaud? Arriverei a uccidere per farlo? Rinuncerei a una settimana della mia esistenza per donarla a lui?
Il biondo (così chiamerò d’ora in poi il protagonista) sta cercando chi è in grado di far risuscitare il suo mitico autore, quel David Bowie che gli aveva donato qualche attimo d’ineffabilità, di quel che non è più, no, che non è mai stato effabĭlis, dell’indicibile, che è covato in un’altra condizione di tempo e di spazio.
Il biondo cerca di rintracciare chi può ricondurlo nella singolarità dove tutto è ordinato. Per farlo egli non esita a uccidere, a creare dell’ulteriore disordine. Sente che deve farlo. Le sue vittime sono di tipo sacrificale. Dai loro cadaveri egli spera di ricavare l’energia necessaria per entrare nell’orbita in cui si ricongiungerà col suo mito.
L’osservatore che, seduto al buio, lo sta osservando, dentro di sé grida: Idiota! Perché lo fai!
Ma non riesce a non volergli bene, a immedesimarsi in lui. E ancora urla quel miserabile: Dimmi cosa posso fare per aiutarti! Ma non chiedermi di uccidere! Non fa per me! Smettila anche tu!
Uno delle tue vittime, biondo, è un mattacchione col naso posticcio da pagliaccio. Egli assiste a un tuo omicidio, biondo! E ti dice che… avete fatto un po’ casino. Che quello che ti aveva donato non t’è piaciuto. Poi ti fa una domanda su David, sperando d’insegnarti qualcosa su un argomento di cui sai già praticamente tutto. Non quale fosse il nome originale del tuo mito (David Robert Jones) ma del recondito significato del suo pseudonimo: Bowie. Trattasi di un coltello che, micidiale, recide da entrambi i lati.
Ma tu già lo sapevi ed è inutile che illumini chi mi legge sulla fine che fa quello spassoso clown.
Perché, diamine! Quale diabolus, quale dominus ti sta ispirando?
Forse è colui che appare con la sembianza di Marco? Il quale dice di aver sostituito i corpi con l’unico fine di confondere ancora di più le idee di chi ne sta cercando una singola.
Cercando l’ordine, biondo, tu crei un sempre nuovo disordine. Lo diffondi, e nel farlo sei il primo a disperderti.
Alla fine ritrovi quello che prima ti era negato. Da anni non riuscivi a emettere le parole, offrivi al mondo i tuoi significativi silenzi. Cosa ti serve riuscirci ora? Solo a renderti conto che sono anch’esse inutili. Che alla fine ti consentono di ballare un motivetto accattivante, uno dei tanti possibili.
Non il motivo, non il singolo per il quale può accadere il miracolo di far resuscitare il tuo mito.
Ormai anche quello s’è disperso nell’incomprensibile. L’entropia lo ha stregato e irrigidito. Non si muove più! Non è vero. Non crederci, Non dico di aver fede, ché anch’io non ne ho. Abbi almeno l’estrema speranza, quella che muore per ultimo, come si dice in genere. Confida nella tua folle ignoranza.
L’importante è che la risposta che cerchi dappertutto sia covata in quella singolarità che tutto attrae e che permette di sognare (questo garantiscono i vari cosmologi, tipo Stephen Hawking e Lee Smolin) e che, in fondo a quella stella nera, ve ne sia, candida, immacolata, una vergine che partorirà un neonato Kósmos, dove tutto possa re-suscitare, destarsi di nuovo.
Non t’approvo, né condono le tue colpe (non sono mica un giudice), ma posso recarti un umile dono, non meno ex-agerato di quanto sei tu.
Conosci La fisica dell’immortalità di Frank J. Tipler? Il celebre accademico yankee, dopo una serie arcana di cabale, arriva a questa considerazione: se ad ogni stato quantico di ogni particella del cosmo, dall’inizio alla fine, s’intende, non quello di poco fa e di far poco, ma di tutti i poco fa e fra poco immaginabili, si abbinasse l’informazione di sé, ecco che ognuna di esse potrebbe essere riprodotta da un divino lettore (allora esistevano solo i videoregistratori) che (ma chiedo io, esso esisterebbe e sarebbe a sua volta sorgente di informazione?) potrebbe creare e ricreare, ad libitum, in eterno, l’esistenza del Tutto. Ergo, anche David! Anche le tue vittime.
Fra tutti i giochi illusori e perciò veritieri, continua a emozionarmi più di altri quello descritto da Julian Barbour, secondo cui il tempo non esiste, semmai vi sono quei sempiterni ciapètt, quegli ammennicoli che sostengono le cartoline del tempo che forse non esiste, ma che Qualcuno o Qualcosa ha steso su quel filo che non riusciamo a scorgere coi nostri fallaci occhi. Sono come dei microfilm che uno ama spararsi nel cervello, lo ammetto.
Possono però far parte della domanda che ti ponevi e che quell’altro umano, improvviso e fatale, ti sta per fare nell’ultima scena e che non si sa se poi ti consentirà di esistere ancora un po’. Se ti darà un po’ del suo tempo, insomma.
Non so, Marco, quanto sia costato il tuo film StellaNera, né dove tu abbia scovato gli interpreti. Né mi sento in grado di dire nulla del valore (mica sono un professore che dà i voti, io) di quanto hai espresso. Ma ti garantisco che sono stato attento a ogni singola scena, soprattutto, è evidente, quando ho udito quegli urli quasi disumani e quando la musica e i rumori ci hanno dato di brutto.
E che ognuna di esse mi ha mutato almeno un po’. Grazie!
Written by Stefano Pioli
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