Intervista di Irene Gianeselli all’attrice Elena Arvigo: il teatro non educabile
Elena Arvigo, interprete intensa e poliedrica, divisa da sempre tra teatro, cinema e televisione, è torna lo scorso ottobre al Teatro Out/Off di Milano con Donna non rieducabile dopo il recente Maternity Blues (from Medea) di Grazia Verasani e Il bosco di David Mamet.
Importante e fortunata anche la rappresentazione di 4.48 Psychosis di Sarah Kane con la regia di Valentina Calvani. Conosciuta per i suoi numerosi ruoli femminili nel teatro indipendente ma anche in produzioni stabili, Elena Arvigo, diplomatasi alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, allieva di Giorgio Strehler, è stata diretta a teatro tra gli altri da Valerio Binasco, Eimuntas Nekrosious, Jacques Lassalle, Luca Zingaretti e Alvis Hermanis,. Al cinema ha lavorato in numerose produzioni internazionali diretta da Peter Greenway, Ryan Marphy (Eat, Pray, Love) e Ben Gazzara. In televisione è stata protagonista de La piovra 10 e ha partecipato a numerosi film tv storici, tra i quali Perlasca, Marcinelle, Sotto il cielo di Roma, la serie americana per la Fox Mental e come protagonista a quella tedesca In der Mitte eines Lebens.
Donna non rieducabile è interamente dedicato alla figura della giornalista Anna Politkovskaja morta senza potere continuare ad occuparsi, oltre che della sua mission di freelance decisa a difendere la verità, anche delle sue donne. Assassinata, non ha potuto più prendersi cura della madre e della figlia che a sua volta stava per diventare madre. Come se con la sua morte si sia tentato di interrompere una catena. Il teatro diventa con Elena Arvigo l’anello di congiunzione, il ponte in grado di riallacciare la vita della Politkovskaja a quella del mondo politico e sociale di questi giorni.
La tournée di “Donna non rieducabile” (scritto da Stefano Massini) toccherà diverse città. A Napoli il 4 e 5 dicembre al Teatro Nest e poi nel 2016 a Firenze e Roma.
Elena Arvigo intende continuare a portare avanti il progetto de “Le imperdonabili” lavorando sui personaggi di Etty Hillesum e Elena di Sparta in primis, le piacerebbe rendere uno spettacolo le letture in omaggio di Svetlana Aleksievich che hanno seguito qualche sera le repliche milanesi lo spettacolo dedicato ad Anna Politkovskaja; l’attrice sara’ “Yerma” di Garcia Lorca diretta da Gianluca Merolli con Fabrizio Ferracane al Teatro Vascello di Roma a Marzo. Elena Arvigo sarà in scena con “Being norwegian” di David Greig per la regia di Roberto Rustioni l’11 dicembre al Teatro Scientifico di Verona e dal 14 al 20 dicembre al Teatro in Scatola di Roma.
Elena Arvigo racconta ai lettori di Oubliette Magazine il suo percorso artistico.
I.G.: Ti ringrazio per la disponibilità. A partire dagli anni in cui sei stata allieva della Scuola del Piccolo Teatro di Milano ad oggi qual è il percorso che ti ha portata ad interpretare “Donna non rieducabile”? Puoi parlarci in particolare del periodo della tua formazione con Giorgio Strehler?
Elena Arvigo: Il percorso che mi ha portato a “Donna non rieducabile” – alla Politkovslkaja – ed a “Le imperdonabili” parte da molto lontano. Gli anni passati al Piccolo sono stati importanti per la mia formazione, e soprattutto per avere, agli occhi di me stessa quantomeno, una sorta di “identità”; ma sicuramente è solo negli ultimi anni che sto cominciando a chiudere dei cerchi, a trovare il senso di un percorso iniziato un po’ di tempo prima. Sicuramente questo spettacolo ha un preciso senso in questa direzione. Sono arrivata al Piccolo a ventidue anni, dopo aver vissuto circa quattro anni a Londra e in procinto di laurearmi in Psicologia – non pensavo affatto che avrei fatto l’attrice -. Sono entrata al Piccolo pensando e dicendo a tutti che ci sarei stata “solo un anno”. Pensavo che la scuola del Piccolo facesse parte di una mia formazione, e che poi mi sarei occupata di cose “serie”. Non vengo da una famiglia di artisti e i mestieri come “l’attrice” o “la ballerina” non erano considerati “seri”. Dunque poteva andare come “divertimento” non certo come lavoro. Il mio sogno, comunque, era fare “la Filosofa” visto il mio amore viscerale per questa materia ma non essendo un mestiere praticabile sembrava che la Psichiatria potesse essere una buona alternativa. Rimaneva la propensione alla riflessione sulla vita, ma in qualche modo applicata all’uomo… A diciotto anni avevo letto una quantità di libri e di saggi sull’argomento di cui ancora oggi ripensandoci o vedendoli sugli scaffali della libreria, mi stupisco. Ero interessata ai meccanismi della mente umana, dell’anima e autori come Jung o Hillman mi entusiasmavano, mi tenevano compagnia e mi rassicuravano sul fatto che tutte le mie paure, tutti i miei problemi erano “universali”, che fa parte dell’essere umano e la complessità, la propria come quella degli altri, bisogna accettarla, quasi amarla. Mi sarei dovuta iscrivere a Medicina ma all’epoca ero innamorata di un ragazzo inglese e sarebbe stato difficile conciliare, dunque mi iscrissi a Psicologia all’Università di Torino e chiesi subito una sorta di trasferimento a Londra alla Goldsmith’s University – ti sto raccontando queste vicende di tanti anni fa perché sono collegate direttamente alle scelte che ho fatto negli ultimi anni e quindi nello specifico allo spettacolo sulla Politkovskja – . Il Piccolo mi ha formato come “soldato”. Quando esci da quella scuola sei un buon soldato e i primi anni li ho passati a lavorare, passando da uno spettacolo o da un film all’altro proprio come un soldato, prendendo parte, con senso di dovere e disciplina, ai progetti, ai sogni di altri. Ma per me stava un po’ perdendo di senso questo lavoro perché di fatto “recitare” non è mai stato un mio sogno. Mi sembrava quasi di perdere tempo e di non dedicarmi alle cose importanti. I sintomi di questa crisi erano una grande insofferenza e intolleranza. Lasciai la tournée delle “Signorine di Wilko” di Alvis Hermanis proprio per questo. Nonostante fosse uno spettacolo bello, importante e fossimo in tournée in Europa nei più importanti Teatri, ero infelice e mi sentivo in prestito. Ed è lì che si è fatta rivedere la mia “yellow brick road” (così mi piace chiamare la strada, quella importante che si dovrebbe seguire, come in una favola verso Oz, ma che spesso è coperta da mille cose). Una giovane regista, Valentina Calvani, che non aveva mai fatto nulla prima, mi propose di fare qualcosa insieme. Un monologo. E fu “4:48 Psychosis” di Sarah Kane. E da lì è iniziato tutto. Essere in un progetto che non fosse protetto da una grande macchina produttrice mi aveva fatto vedere questo lavoro da una prospettiva completamente diversa e molto più interessante. Non ero più un soldato. Non mi mettevo costumi che ad un certo punto “arrivavano” , dentro scenografie che ad un certo punto “arrivavano”, ma si parlava, si provava, si andava in giro a cercare cose, oggetti, ci si confrontava sul senso e “la recitazione” diventava l’ultima cosa : “fare l’attrice” diventava l’ultima cosa. Era una conseguenza di tutto quel lavoro e di quello studio. E poi il senso di responsabilità di stare in scena in un progetto il cui futuro dipende da come andrà, cioè da quanto tu lo farai bene, cambiava tutto. La necessità che fosse una cosa speciale perché possa sopravvivere , rendeva tutto molto più importante . Prima tutto questo non c’era. I progetti a cui prendevo parte avevano una vita che non aveva niente a che fare con le mie capacità. E da lì non sono più tornata indietro. E ho sempre affiancato al lavoro (quello che faccio per vivere) i miei progetti che finanzio io stessa. Ho messo in scena il “Bosco di Mamet” con Valentina Calvani perché ci sembrava che Mamet potesse essere un buon compagno di viaggio, un gigante come Sarah Kane a cui affidarsi. Poi con “Maternity Blues (From Medea)” ho ripreso il filo di quella ricerca iniziata con “4:48 Psychosis”. Mi sono avventurata nella regia da sola e sono andata ancora più a fondo in quel fondo. Ho aperto un’altra di quelle porte che non si dovrebbero aprire: la porta sulle infanticide. Siamo andate con le altre attrici a Castiglione delle Stiviere all’ospedale Psichiatrico giudiziario. È stato un viaggio incredibile quello spettacolo che ancora oggi portiamo in giro e il cui senso è nelle strofa della poesia di Brecht che io lascio sempre sulle sedie del pubblico: “Contro i deboli e i reietti non scagliate l’anatema . Fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena. Ogni creatura ha bisogno di essere aiutata”. Dopo Maternity Blues, anche a causa della fatica eccezionale che è stato fare, produrre, uno spettacolo con quattro attrici, ho pensato di tornare al Monologo, però non avevo voglia proprio di testi veri e propri e cosi ho pensato che sarebbe stato interessante fare delle Monografie su personaggi realmente vissuti e magari affidare la drammaturgia a qualche scrittore. Così ho pensato a questo progetto “Le imperdonabili”, storie di donne legate dal filo rosso della guerra. Una riflessione sulla guerra dal punto di vista delle donne. Avevo voglia, dopo tanto “andare a fondo” di parlare di donne forti. Di non scavare più nel buio, ma parlare di persone che erano riuscite a resistere. I personaggi cui avevo pensato erano Etty Hillesum, Elena di Sparta e vari altri. Inizialmente non c’era Anna Politkovskaja. Si è aggiunta dopo. Cercavo un monologo da fare al volo e avevo letto “Lehman Trilogy”, mi era piaciuta molto, avevo visto che Massini aveva scritto tanti monologhi e cosi è partito tutto e La Politkovskaja, “Donna non rieducabile”, è salita in corsa dentro il progetto “Le imperdonabili”. Ti ho raccontato tutto questo per arrivare qui appunto, e dirti che le cose non succedono quasi mai per caso. A volte sembra sia così. Ma poi guardando meglio non è così. Ho iniziato a fare l’attrice di nascosto da me stessa e solo con gli anni ha preso forma il senso di questo mestiere per me: che è quello di restituire una storia e cercare di farlo nel miglior modo possibile. Restituire una storia che abbia un senso per me prima di tutto e che cambi me prima di tutto. Come diceva il mio conterraneo Fabrizio De André: “Se tra prima e dopo il concerto non cambia niente allora è inutile che lo facciamo”. E cosi è secondo me. E prima di tutto devo essere io disposta al cambiamento. Altrimenti la magia non funziona e la zucca non diventa carrozza. Per quanto riguarda Giorgio Strehler, mi sento davvero fortunata ad averlo conosciuto. Ho conosciuto un maestro, forse il più grande maestro di teatro del secolo scorso e questa è una gran fortuna. Ho avuto la possibilità, grazie a quella scuola, di formarmi dei parametri. E poi più passano gli anni, più mi rendo contro che il teatro come “fatto umano” è proprio il teatro che interessa a me e quindi trovo incredibile la coincidenza e la fortuna di essere capitata lì. Come ti ho detto non provengo da una famiglia di artisti, dunque io sono arrivata al Piccolo senza quasi sapere chi fosse Strehler. In quegli anni a Milano ho potuto osservare e vedere tanto teatro bellissimo e incontrare personalmente maestri come Peter Brook o Carolyn Carlson. Credo che questa si possa davvero considerare una gran fortuna. Poi le cose non si capiscono subito. Jouvet diceva che per formare un attore ci vogliono venti anni. Forse è davvero così. Piano piano tutti i tasselli vanno al loro posto e come diceva Strehler la vocazione si vede dopo, non prima. Se resisti allora vuol dire che avevi la vocazione. Per adesso sono ancora qua, ho resistito, e penso che Il Piccolo sia stato un punto di partenza importante e molto privilegiato per poi spiccare il volo. Di Strehler il ricordo più forte e indelebile è il mio provino di entrata al Piccolo. La terza fase, quella finale in cui lui era presente. C’erano tre prove: la recitazione, il canto e il mimo – si rimaneva una settimana a Milano e si lavorava con i vari insegnanti e poi si presentava il lavoro a Strehler -. La prova di recitazione su Giulietta (che tra l’altro è su YouTube) andò benissimo, lui era contento e le cose procedevano bene, poi ci fu la prova di mimo e anche quella andò bene, a quel punto arrivò il canto… io sono stonata come una campana e la canzone di My fair lady era impossibile per me. L’insegnante di canto Lydia Stix era lì davanti, seduta accanto a Strehler, e mi fece segno di mettermi le mani dietro le orecchie, per cercare di prendere qualche nota. Io decisi di non farlo, andai dal maestro Rossi al piano e gli dissi «Continui a suonare qualsiasi cosa io faccia» e ho cominciato a cantare a squarciagola e a ballare tip tap. Quando mi sono fermata c’era un silenzio incredibile e la sala era piena, perché venivano in tanti a vedere i provini, era un po’ una sorta di spettacolo. Strehler me l’ha fatta rifare e quando ho finito non capivo più niente ero sudata e sentivo lacrime e sudore insieme e non so dire cosa pensavo, poteva succedere qualsiasi cosa. C’era silenzio: tutti aspettavano che Strehler dicesse qualcosa. Poi, finalmente, disse: «Brava ! Non hai preso una nota, ma non importa, hai fatto teatro». Poi è venuto da me e mi ha chiesto «Sai perché hai fatto teatro oggi? Perché hai dato tutto quello che avevi». Ogni volta che penso a quel momento penso che in quella esperienza e in quella frase c’è riassunto quello che io penso sia stare sopra un palcoscenico e stare nella vita.
I.G.: Durante la costruzione della messinscena qual è stato il tuo rapporto con l’autore del testo Stefano Massini e come è nato il progetto?
Elena Arvigo: Il progetto “Donna non rieducabile” nasce per caso. Emanuela Rea stava organizzando una sorta di stagione al Brancaccino di Roma e mi chiese se volevo fare qualcosa. Inizialmente avevo pensato di rifare “4:48 Psychosis” ma non ero convinta di tornare a Roma con quello spettacolo, poi ho letto questo testo e ho cominciato a pensare alla possibilità di metterlo in scena. I tempi erano brevissimi, neanche un mese, ma forse è stato meglio così: ho avuto poco tempo per essere indecisa. Ho fissato le date al Brancaccino e poi i luoghi dove provare che sono stati l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà ed il Rialto sant’Ambrogio, due luoghi occupati meravigliosi a Roma (il Rialto purtroppo e’ stato chiuso). Volevo lavorare sull’idea di confine e avevo chiesto ad uno scenografo, Giuseppe Convertini, di farmi dei telai di porte, per definire lo spazio. Poi purtroppo non avevo abbastanza soldi e quindi l’idea delle porte è naufragata. Cercavo qualcuno che mi desse una mano, perché nel monologo è necessario avere uno sguardo esterno. Avevo chiesto a diverse persone che conosco e stimo: Damiano D’Innocenzo, Valentina Calvani, Antonio Zavatteri, Francescs Macrì, ma nessuno di loro era disponibile per quel periodo, così su due piedi. Io sapevo solo che volevo lavorare su questa idea di confine e con i video (infatti il video designer Andrea basti è stato presente fin dalle prime prove), poi, per come amo lavorare io, lascio le cose prendano una loro forma via via. Un mio amico mi ha fatto il nome di Rosario Tedesco, ci eravamo conosciuto fugacemente qualche anno prima, sapevo che aveva una passione per L’Est del mondo, ci siamo sentiti, messi d’accordo e così è cominciato il viaggio insieme. Lui non era libero tutto il periodo, dunque ho provato le prime settimane al Rialto sant’Ambrogio con Damiano D’Innocenzo e Valentina Calvani . La porta era un pezzo della scenografia del mio spettacolo precedente “Maternity Blues” e ho deciso di usarla al posto della scenografia vera e propria che avevo pensato con Convertini ma che per motivi economici, appunto, non mi era stato possibile far realizzare. Poi, le ultime due settimane ho lavorato con Rosario Tedesco e con Andrea Basti, perché mi sembrava interessante, non essendoci niente in scena a parte la porta, che ci fossero dei video a sostenere il monologo in alcuni momenti, a “raccontare” insieme a me. Abbiamo debuttato venerdì 13 febbraio al Brancaccino. Però per come intendo io questo tipo di progetto, tutto è ancora aperto sia il progetto sia, di conseguenza, la messa in scena. Le intenzioni sono quelle di offrire un viaggio in una sorta di “looking for Anna” partendo dal testo di Massini e spero di poter integrare allo spettacolo dei video che mi piacerebbe fare a Mosca. E’ una cosa che volevo fare già prima del debutto, ma i tempi sono stati troppo stretti e le finanze troppo piccole. L’idea era proprio quella che ognuna di queste monografie fosse affiancata da un progetto video. Questo spettacolo, come gli altri del progetto Le imperdonabili, vorrei che rimanessero vivi e sempre in evoluzione trattandosi di argomenti, tra l’altro, di grande attualità. In sostanza se si può parlare di regia in questo spettacolo è proprio in questo senso di apertura. Già dal debutto sono stati fatti alcuni cambiamenti, non necessariamente per migliorare, ma proprio per tener fede a questa vitalità e libertà che è fondamentale per me. Con Stefano Massini prima del debutto abbiamo fatto qualche chiacchierata in cui mi ha raccontato della storia di questo testo, qualcosa delle varie messe in scena, che sono state mi pare ben dodici. Mi ha detto che è un testo che considera un po’ speciale, che l’aveva scritto subito dopo l’omicidio della Politkovskaja e che, dato l’argomento, più si fa meglio è. Mi ha dato massima libertà sul testo e per questo lo ringrazio perché il poter essere liberi è un buon punto di partenza sempre. Poi di fatto, ovviamente, a parte alcuni tagli il testo è rimasto invariato.
I.G.: Dal punto di vista attoriale qual è stato il tuo approccio al testo “Donna non rieducabile” e come sei riuscita a guardare attraverso gli occhi di Anna Politkovskaja? I suoi occhi sono diventati come il telaio della porta, unico oggetto scenografico, attraverso il quale si penetra nelle parole e dalle parole si raggiunge la realtà degli eventi vissuti da questa giornalista?
Elena Arvigo: Come al solito cerco di procedere in due direzioni, che apparentemente sono opposte ma in realtà sono complementari. Da una parte cerco di studiare la memoria in maniera ossessiva. Scrivo il testo dappertutto, anche sui muri. Cerco di dare un corpo a quelle parole, che prendano un significato per me. E poi cerco di raccogliere più materiale possibile per assimilare informazioni e suggestioni di quella storia e di quei luoghi. Così pian piano si accompagnano i due percorsi e le parole cominciano a riempiersi di quelle informazioni, di quelle immagini. I personaggi piano piano così diventano amici, compagni di viaggio: nel caso di Anna più andavo avanti più mi rendevo conto che avevo a che fare con un essere umano piuttosto straordinario. Una donna piena di coraggio e testarda e intelligente e quindi cercare di rappresentarla al meglio diventava ogni giorno più importante, così come è importante dare di nuovo voce e raccontare quelle storie cui teneva tanto e che non aveva mai voluto smettere di raccontare. Come se fosse una staffetta. L’ha continuata Massini scrivendo il testo e si continua questa “staffetta immaginaria” ogni sera in scena e io, a mia volta, la passo al pubblico. Non sento di “interpretare” la Politkovskaja ma piuttosto mi piace pensare ad un racconto che evochi il ricordo di questa donna straordinaria. La porta è la mia compagna in questo viaggio e in questo racconto.
I.G.: Questo ruolo di donna che hai scelto di interpretare è decisamente impegnativo. Cosa significa per te essere una donna che fa teatro e, ancora di più, cosa significa per te, da donna, interpretare un ruolo femminile così complesso ed una storia che merita di essere rappresentata su un palco?
Elena Arvigo: Essere una persona che fa teatro è una cosa seria e vorrei continuare a riuscire a pensare in questa direzione. Essere una donna per certi versi non rende le cose più facili. È più difficile essere presi sul serio. Soprattutto se l’aspetto fisico è avvenente . Io oggi ho 41 anni e il passare degli anni mi hanno resa più forte (e più vecchia!!!), ma a 25 anni a 30 anni pur avendo la testa e i sogni di oggi , ero incastrata in ruoli che non c’entravano niente con me. Ero bella e molto videogenica e questo mi ha subito fatto arrivare alla televisione. Ho iniziato appena diplomata facendo la protagonista della Piovra e di alcune miserie. Ma non era proprio il mio mondo. Mi sentivo sempre molto passiva. Non sono l’attrice “carina”, sono piuttosto selvatica e molto diretta, dunque tutte le “formalità” del mondo televisivo le mal sopportavo e mi facevano sentire nel posto sbagliato. Oggi ho un rapporto migliore con “quella “ bellezza, ma per molti anni è stata causa di un equivoco, anche per me. Il teatro, raccontare storie, mi è sempre sembrato molto più interessante. Per me. È un modo come un altro per dare il proprio contributo su questo pianeta. E in questo senso è una cosa importante (o comunque ci si può illudere che lo sia). In questo senso fare teatro è un atto civile. Il fatto che Anna Politkovskaja fosse una giornalista impegnata nel difendere i diritti umani di un popolo e che sia morta per questo rende questo momento “teatrale” ancora più denso di responsabilità – però anche mettendo in scena una commedia di Shakespeare credo sia necessario avere la stessa disposizione, e sentire la responsabilità della “rappresentazione” -.
I.G.: Il titolo dello spettacolo è incisivo. Essere donne significa essere obbligate a lottare contro numerosi ed intricati sistemi, spesso opprimenti: quali altre donne non ri-educabili hai incontrato nel tuo percorso di interprete, a quale sei più legata e quanto è importante a tuo avviso che le donne imparino ad “educarsi” secondo la propria etica o la propria morale e non per obbedire all’etica e alla morale – ammesso che di questo si possa parlare – di uno o più padroni?
Elena Arvigo: Il titolo di questo spettacolo è bellissimo ed è la prima cosa di cui mi sono innamorata leggendo questo testo. Io sono circondata da persone “Non rieducabili”. Nasco da una famiglia non rieducabile e tutti i miei amici sono non rieducabili. La donna più “non rieducabile” che ho avuto la fortuna di incontrare è stata mia nonna Angela che mi ha insegnato il coraggio e che sento sempre vicino a me anche adesso che non c’è più. Le mie amiche attrici sono tutte non rieducabili, sono poche ma buone perché questa non è una qualità molto comune tra gli attori. La persona più non rieducabile e più importante nel mio percorso non è una donna, ma un uomo ed è Valerio Binasco che considero davvero una gran fortuna aver incrociato e che mi ha insegnato non tanto ad essere non rieducabile quanto a prendermi la responsabilità della mia disobbedienza che è un passo fondamentale, altrimenti rimane una ribellione fine a se stessa. Per quanto riguarda l’educazione delle donne, credo che le donne – che sono fortissime – a volte dovrebbero essere più consapevoli di questa forza e seguire di più il loro istinto senza farsi schiacciare dalla logica binaria degli uomini che dividono il mondo spesso in due. Non essendo in conflitto con gli uomini ma cercando una complementarietà, questo potrebbe dare risultati straordinari in tanti campi.
I.G.: Con “Maternity Blues” – di cui hai anche curato la regia – costruisci ancora una volta l’essere donna: questo spettacolo mette in scena la maternità che si nega a se stessa, che si mortifica nell’uccidere i propri figli. Medea rimane l’ombra pedissequa e ambigua che segue le protagoniste. Come sei riuscita ad affrontare questa condizione tormentata e contraddittoria sul palco dove quanto più si rende carne una essenza, tanto più la si rende in maniera universale?
Elena Arvigo: Per mettere in scena “Maternity Blues – From Medea ” di Grazia Verasani ho lavorato molto con le attrici sulla Medea di Euripide, tanto che lo spettacolo iniziava con i versi di Euripide in una sorta di Prologo che durava più di dieci minuti. Poi l’ultimo giorno ho deciso di sacrificarlo e di cercare di portare tutta quella forza che i versi di Euripide ci davano, dentro la prima scena. Di quel prologo rimane solo l’entrata delle attrici a quadrato e la musica. È stato importante avere Medea a fianco fino alla fine e poi lasciarla andare, il confrontarsi durante le prove con un testo classico, con l’archetipo che ci ha ricordato che dovevamo prendere le distanze dalla cronaca e cercare di rappresentare la complessità dell’animo umano, senza giudizio. L’archetipo parla attraverso le storie di queste donne – Vincenza, Eloisa, Rina e Marga – ma è un pretesto per raccontare la profondità dell’abisso che abbiamo tutti dentro l’animo e di cui non bisogna avere paura ma imparare a guardare. L’umanità è composta da tanti colori. Non solo quelli positivi.
I.G.: «Watch me vanish» e «Please open the curtains» sono i versi finali di una sequenza di “4:48 Psychosis”, l’ultimo testo di Sarah Kane che interpreti dal 2010 e che nei prossimi mesi riporterai in scena. Sarah Kane ha il talento di dissolvere una certa idea di teatro rifondandone uno assolutamente materico e graffiante: la luce oltre le tende è materia pura, la stessa dissoluzione presente nei suoi testi – nelle parole e nei gesti – comporta una ri-affermazione della vita teatrale e “reale”. Il testo continua a crescere con te, quali sono state le tappe più significative di questo percorso?
Elena Arvigo: Un momento importantissimo di questo percorso riguarda la decisione dopo il debutto di due settimane al Teatro Argot, di riprenderlo al Teatro in Scatola – siamo stati al Teatro in Scatola di Roma per cinque settimane, senza neanche fare la pausa del lunedì. Elisabetta e Lorenzo (i responsabili del Teatro in Scatola) ancora ne parlano di quella follia. Perché è stato importante? Perché è stata una presa di responsabilità rispetto al testo e allo spettacolo. Lo spettacolo andò bene al Teatro Argot, ma come è nel destino di molti spettacoli autoprodotti, non si riusciva bene a pensare al futuro. Dove l’avremmo portato? E come? Con quali mezzi? Le spese sostenute da Valentina Calvani (lo spettacolo lo produsse lei) erano state grandi e qualsiasi movimento sembrava essere troppo dispendioso… però io avevo la certezza che avessimo fatto qualcosa di speciale. Sono molto critica rispetto alle cose che faccio e se una cosa è “brutta” o non mi piace non sono una che difende il lavoro “a prescindere”, anzi, e questa è una cosa che negli anni mi ha causato qualche problema. Bisogna ammettere quando le cose non riescono, così come bisogna difendere i progetti e gli spettacoli quando sono delle ciambelle con il buco. Lo spettacolo lo era e mi dispiaceva che finisse tutto così, mi dispiaceva soprattutto per Valentina che aveva affrontato tanti sacrifici per produrlo. Così chiesi aiuto a degli amici di Genova che hanno un’associazione e loro accettarono di starci vicino produttivamente con le spese vive e decisi di rimanere tre settimane al Teatro in Scatola, e nonostante tutti ci avessero detto che era una follia, in realtà le tre settimane diventarono cinque settimane e fu davvero un successo. Fu importante per due ragioni, la prima appunto, la presa di responsabilità rispetto ad un progetto, e la seconda che in quella ripetizione dello spettacolo, ogni sera, senza pausa, per così tanto tempo, il testo stesso mi si rivelò in maniera meravigliosa. Era davvero una preghiera e nella stanchezza soprattutto i versi finali diventano concreti come oggetti “Guardami, guardami” ”non mi lasciare “. Alla fine sì, tutto il teatro è, in qualche modo, una rappresentazione di quella preghiera “ascoltami, guardami”. E il testo continua a crescere nella ripetizione e si arricchisce. È davvero un grande capolavoro e ogni volta che ripeto quelle parole e quei versi non posso non pensare quale perdita incredibile, umana ovviamente prima di tutto, sia stata la scomparsa di Sarah Kane.
I.G.: Cosa significa oggi fare “teatro indipendente”?
Elena Arvigo: Fare teatro indipendente significa crearsi delle possibilità di espressione. Significa essere liberi dalle dinamiche di potere e di produzione. Questa indipendenza ha un prezzo abbastanza alto: una grande solitudine e la totale mancanza di mezzi economici – i miei sono progetti a budget tendente a zero – . Ma la libertà ha sempre un prezzo. Come tutto. D’altronde se io non mi fossi creata queste possibilità sarei ancora in panchina, facendo svogliatamente qualche spettacolo qua e là e aspettando qualche provino. Si cresce facendo ruoli belli e mettendosi alla prova e alzando sempre l’asticella un po’. Come si può crescere se la preoccupazione principale è quella di cercare di incontrare qualcuno che magari ti faccia fare un provino, di cercare di capire come arrivare a fare quel provino? Cosi con gli anni si affinano le capacità diplomatiche di relazione, non certo il talento, che anzi ne risulta mortificato e inaridito. Anche il talento, la sensibilità sono muscoli. E vanno allenati . Qua per lo più ti tengono in panchina, facendo bene attenzione che tu non disturbi i loro giochi. E cosi, piano piano ci si rattrappisce, il talento si mortifica e si diventa sempre più insicuri e impauriti. Bisogna buttarsi in campo in qualche modo e giocare e divertirsi e prendersi lo spazio che ci è dovuto, se non per sangue blu, per talento. Anche la regia è stata per me una sfida e anche questa possibilità me le sono date da sola. Non vorrei essere ripetitiva ma per chi non ha santi in Paradiso è davvero difficilissimo trovare uno spazio e conosco tanti attori, tanti artisti che tra la depressione e la rabbia per le continue ingiustizie e la totale mancanza di meritocrazia, finiscono per smettere. Come biasimarli? Come biasimarmi se lo farò? Perché questa fatica straordinaria? Perché avere in confezione regalo quello che dovrebbe essere tuo? Di fatto vanno soprattutto avanti quelli che sono in qualche modo protetti e gli spazi per gli altri sono fessure in cui bisogna avere la determinazione e la fortuna di riuscire a prendere. Il teatro indipendente è per me il modo di stare in questo mestiere in maniera dignitosa, dando un valore a me, al mio pensiero e ai miei sogni. Non abbassare il sogno. E questo riguarda anche il cinema, non solo il teatro, cioè riguarda tutto il mio mestiere. Perché devo sognare di fare la “protagonista di puntata” in qualche fiction inguardabile con qualche attore improponibile come protagonista? Perché spesso funziona cosi: prendono persone per qualche motivo “conosciute “ (vari grandi fratelli, concorsi di bellezza, nani e ballerine), di solito cani e poi intorno per strutturare il progetto chiamano attori che per la mancanza di lavoro accettano condizioni indegne, sostenendo attori che non sono neanche attori e stando attenti a non essere troppo bravi che altrimenti dai fastidio che si vede il disivello.. ma tutto questo non si può dire altrimenti sei snob. Però è proprio cosi. Sembra tutto una corrida ormai. Io voglio poter sognare di fare del bel cinema con autori, con registi con cui parlare, confrontarmi. Non mi interessa lavorare per lavorare. Questo per me non è un lavoro. E non lo dico perché ho le possibilità economiche. È proprio fuori discussione per me, non le voglio fare cose di quel tipo, mi fanno ammalare. Anche la pubblicità . Non ne ho mai fatta una e mai la farò. Altrimenti tutto quello che dico è falso, cioè lo sono io. Preferisco fare piccoli progetti per il cinema o cortometraggi in cui i registi sono ancora liberi di poter scegliere gli attori senza logiche produttive. Mi piacerebbe avere degli interlocutori, dei produttori in ascolto, e qualcuno l’ho trovato, ma è davvero complessa la situazione oggi. La stanchezza è gigantesca e appunto questa sensazione di dover sempre poi ri-iniziare da capo è molto faticosa, quasi insopportabile a tratti. Ma andiamo avanti .
I.G.: Cosa pensi del giornalismo di oggi e di chi legge i giornali oggi (che si tratti di lettori e giornalisti italiani o russi o europei)?
Elena Arvigo: Il giornalismo oggi è per lo più un contenitore enorme di informazioni ed è spesso difficile orientarsi. Da una parte il web ha amplificato il suono della notizia. Qualsiasi notizia risuona e viene scritta e riscritta da mille testate web. Tuttavia non so quanto questo porti ad avere una maggiore “conoscenza “. Sicuramente c’è proprio per questa grande concorrenza, una ricerca spietata del titolo, della notizia di cronaca da dare in pasto subito. Questo è orribile. In “Maternity Blues” ho cercato di lavorare proprio su questo, sulla necessità di non guardare la cronaca. Ci può aiutare di più Euripide che Porta a Porta nel capire qualcosa sulla complessità dell’animo umano. Queste trasmissioni, questo giornalismo è davvero pornografico e deprimente. Sui “lettori” non so bene cosa dire. Sicuramente il pubblico come i lettori vanno educati in qualche modo. Ma da chi? Una volta i grandi giornalisti erano uomini di cultura. Un pezzo di giornalismo buono dovrebbe essere un pezzo di letteratura. Adesso si leggono articoli di giornali anche importanti in cui non si rispetta neanche la consecutio. Titoli ridicoli e contenuti demenziali.
I.G.: Come si può ri-imparare ad essere liberi di pensare, di leggere, di scrivere, di ascoltare, di fare uno spettacolo oggi, oggi che conviviamo col rischio costante di non prenderci e di non essere presi sul serio perché le informazioni sono tante, caoticamente fruibili e troppo spesso ininfluenti?
Elena Arvigo: Bisogna ri – guadagnarsela questa libertà cercando, prima di tutto, di non prenderla per scontata e sentendone la responsabilità. Bisogna proteggere il pensiero, l’immaginazione e l’impegno deve essere costante e quotidiano. Come fosse una medicina per salvarsi la vita. Mi rendo conto che anche facendo molta attenzione si viene fagocitati da questo caos che ci circonda e il rischio e proprio di una relatività del pensiero, di una debolezza, non frutto del dubbio ma del caos. Io lo sento su di me questo pericolo. Ho troppe informazioni, sto troppo tempo sui social network, sono spesso confusa sulle notizie. Non c’è una ricetta, ognuno deve trovare il suo modo per rimanere in contatto con le cose importanti, con il senso delle cose. Sicuramente bisogna cercare di nutrirsi di cose belle: musica, arte e soprattutto, per quel che riguarda me, tanta natura. Per me il contatto con la natura, con gli animali è fondamentale, per ricaricarmi ed essere presente a me stessa – a quel punto si può pensare, scrivere o anche semplicemente fare una chiacchierata con una amica, e sarà fatta “bene”; a quel punto si ricominceranno a sentire la voce dell’istinto e la voce dell’intuito -. Altrimenti si è sempre altrove agganciati da qualche parte e ogni cosa è generica, senza attenzione e quindi inutile. Bisogna, credo, cercare il coraggio di stare un po’ da soli e ascoltarsi.
Written by Irene Gianeselli