“La valigia” di Pier Paolo Paganelli: viaggio in una stanza segreta della mente

«Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare». Fernando Pessoa, Livro do Desassossego: Composto por Bernardo Soares, ajudante de guarda-livros na cidade de Lisboa, 1982

La valigia

Non si può diventare estranei a se stessi e, spesso, proprio per questa ineluttabile e necessaria consapevolezza di ciò che siamo o siamo diventati, non possiamo mai allontanarci davvero da ciò che abbiamo amato e continuiamo ad amare, dai legami che abbiamo visto nascere e che per pigrizia o timore abbiamo lasciato appassire o, al contrario, abbiamo bruciato col sacro fuoco della nostra passione.

Pier Paolo Paganelli – che firma soggetto e sceneggiatura con Laura Castaldini – ci conduce nella stanza segreta di un prigioniero della vita dirigendo la storia con una grazia ed una delicatezza inusuali: tra le pareti scrostate viene aperta la “valigia degli effetti personali di un vecchio paziente” e ci è permesso vivere pochi, intensi minuti di ricordi, di addii, di ritorni, di piccoli gesti che ritornano quasi ossessivamente e ci viene data la possibilità di essere accanto al personaggio: sin dal primo “sguardo” dritto in macchina non si può che provare una certa empatia. Aleggia il mistero di una fine che incombe ingombrante nella fotografia limpida di Gianmarco Rossetti e nel montaggio agile e incalzante di Davide Rossetti.

L’artigianalità gustosissima dello stop motion rende ancor più preziosa la narrazione: l’espressività dei personaggi viene garantita nonostante non si tratti di creature in carne ed ossa, merito dell’impegno di Matteo Burani a cui è affidato il character design e di Giacomo Giurato che ha elaborato l’animazione. Ai movimenti di macchina che seguono le azioni gli sguardi e l’inquietudine del personaggio mentre cambia fisionomia e ritorna bambino, si aggiunge il forte impatto visivo creato da alcuni dettagli in particolare, dai ricordi che prendono forma sui muri come robuste radici malefiche alle tacche che il prigioniero segna per monitorare la propria de-crescita sullo stipite della porta, sino al pendolo ed alla cassapanca che vengono riflessi in uno specchio nell’ultima scena.

La valigia

Così possiamo entrare nella stanza segreta di una mente che, seppure vorrebbe controllare la propria esistenza, è costretta a lasciarsi trascinare, elude la dimensione del presente e costruisce un presente-altro, fatto di memorie passate. Sembrerebbe quasi un crimine voler entrare nelle parole stanche del protagonista che tuttavia si impone con i suoi cambiamenti e le sue digressioni, fino a renderci complici nella sua solitudine, fino a spezzare il paradigma immediato con il quale, da spettatori, lo identifichiamo: se è quasi immediato pensare al vecchio protagonista esclusivamente come ad un uomo malato di Alzheimer, Pier Paolo Paganelli invece riesce a rendere universale lo smarrimento, il senso di irrequietezza e di impotenza di fronte a se stessi e al tempo che passa.

Il tempo, questo incubo dogmatico cui speriamo sempre di potere sfuggire con la gioia del viaggiatore che ha come unico talento quello di evocare momenti oramai conclusi nel tentativo di riviverli ed essere ancora felice. Ma quando questo “talento” diventa una malattia allora si rimane soli, chiusi in una stanza della mente, senza alcuna possibilità di “rivedere il mare” e quel desiderio di restare partendo, di invecchiare ringiovanendo nel ricordo, di essere giovani proiettandosi nel futuro si mostra in tutta la sua fugacità, in tutta la sua illusorietà: ecco che desideriamo partire, estranei a noi stessi, e si cerca il sonno come vita e non come riposo, esattamente come scrive Pessoa che non si limita certo nelle sue parole a nascondere l’eco della morte, ma, anzi, pretende nutrirsi di vita: nessuno si augura di morire e per questo specifica “soltanto la mia volontà non mi può dare questa partenza”, e tutti ci auguriamo di potere viaggiare, di poter essere liberi.

La valigia

Il morbo di Alzheimer, che così ferocemente separa e allontana, viene rappresentato attraverso questa camera silenziosa, protetta da sbarre di ferro al posto di una finestra: la limitazione alienante appare un momento decisivo perché si riprenda il contatto con se stessi, con la propria vita, prima di lasciarla andare.

«Da quanto tempo sono qui?» si chiede il protagonista che vorrebbe invece essere altrove, con altri volti, con altre mani, con altri sorrisi da tenersi stretti addosso.

Roberto Herlitzka presta all’anziano personaggio la sua voce che come un muro robusto lascia intravedere un giardino incantato attraverso le fessure: quelle increspature, quei repentini cambi di tono rendono ancora più coinvolgente l’intimo dramma che si nasconde dietro gli occhi cerulei dell’uomo. I suoi anni maturi hanno poi la voce profonda di Rodolfo Bianchi, gli anni della giovinezza quella di Alex Polidori mentre la voce ancora fanciulla del protagonista è di Riccardo Suarez, tutte voci perfettamente “a tono” con le musiche incalzanti di Matteo Malferrari.

«Da quanto tempo sono qui?» chiede l’uomo oramai solo con se stesso.

Da noi non possiamo fuggire, ma la catastrofe non è essere imprigionati in noi stessi. La catastrofe è che gli altri ci abbandonano, come fa la ragazza dalle lacrime blu, come fanno i figli, come fanno i fratelli, come fanno le donne che si amano.

L’abbandono risponde sempre la stessa cosa, con la stessa rassegnazione.

Pier Paolo Paganelli

Ed ecco il finale a rendere libero il protagonista perché gli dà la possibilità di riappropriarsi della propria leggerezza: non un’ombra contro le pareti della prigione, ma un luminoso gioco di bambino, un respiro senza patina di ferocia.

«Una volta dalla finestra si vedeva il mare» dice il protagonista. Non possiamo rinchiudere tutto il mare in una valigia. Possiamo cercare di non dimenticarlo. Possiamo sperare di sapercelo ricordare, così come i nostri giochi di bambini.

Articolture, gruppo di ideazione e di sviluppo di progetti creativi, ha prodotto “La Valigia“. Hanno collaborato alla sua realizzazione “Bottega Bologna”e le Associazioni “Evoé”, “Frog’s Film”, “Studio Croma”, “Nonoise”, il Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna, ISART di Bologna con il supporto di “Corio Italia” e di “Lundbeck Italia” ed il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna nonché con il patrocinio della Federazione Alzheimer Italia. Il pluripremiato cortometraggio ha meritato il Premio Miglior Cortometraggio ed il Premio Castellaneta Film Fest Staff al Castellaneta Film Festival 2015.

 

Written by Irene Gianeselli

 

 

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Sito Articolture

 

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