Life After Death: l’intervista allo scrittore e poeta irlandese Oscar Wilde

Londra, 15 settembre 2014

 

L’autobus N.24 è davvero affollato a quell’ora di punta. Veloce mi siedo vicino al finestrino, l’unico posto che trovo disponibile, e osservo la mappa della città. Quel giorno sono decisa a visitare la National Portrait Gallery, che si trova alle spalle della celebre National Gallery in Trafalgar Square.

Annoiata da tutte quelle indicazioni, prendo il libro che ho deciso di portare con me. I libri mi accompagnano ovunque io vada, sono una specie di «rito» che in qualche modo m’infondono serenità. Leggere non mi fa pensare ad altro.

Questa volta ho preferito un libro di poesie, una raccolta di molti autori di diverse nazionalità. Leggo sommessamente qualche riga quando il mio sguardo si posa su alcuni versi: «La grazia in qualche modo, il fiore delle cose sfugge a noi, i più miseri di tutti, i più infelici. Noi che per pietà dobbiamo vivere la vita di altri non la nostra. E poi distruggerla con tutto dentro. Era ben diverso quando l’anima e corpo pareva si fondessero in sinfonie mistiche». Sono parole scritte da Oscar Wilde, che, dai più, è riconosciuto come «il dandy» per il modo elegante che caratterizzava sia i suoi abiti, sia i suoi comportamenti.

All’improvviso l’autobus si ferma: devo scendere. Attraverso la piazza che, come il solito, è gremita di gente: qua una mamma tiene per mano la figlia, là un mimo sta inscenando una breve parodia di Charlot. Arrivo davanti alla National Portrait Gallery che sono quasi le 12:00, poco male il museo chiude alle 18:00. Entro felice come una bambina: quante volte ho voluto visitare quei posti, ora è il momento giusto per farlo.

Cerco di orientarmi fra tutti quei ritratti esposti con orgoglio cittadino. Tutti così diversi, eppure ognuno trasmette qualcosa al suo spettatore. I miei occhi si posano sul ritratto dell’inconfondibile Oscar Wilde, realizzato da Napoleon Sarony. L’uomo tiene le mani dietro, in una posizione sicura; sembra che stia guardando qualcosa alla sua destra, con uno sguardo sereno, ma, al tempo stesso, fiero di sé.

Resto a guardarlo per qualche minuto quando, a un tratto, sento dei passi provenire da dietro. Istintivamente mi giro e osservo stupefatta la scena che si palesa davanti ai miei occhi.

«Signorina, so bene che le sarà difficile ma stia tranquilla».

«Ma…ma lei…»

«Già, immaginavo che avrei potuto farle questo effetto. Anzi, non mi stupisco per nulla».

«Lei è: Oscar Wilde?»

«Più morto che vivo, ma sì, sono io. Se mi lascia spiegare potrò raccontarle molte cose».

«Com’è possibile? Sicuramente sto sognando. Ecco, ora mi do un pizzico e mi sveglierò da questo torpore».

«Mi creda, non servirà a nulla. Il risultato è che si procurerà un bel livido ed io starò ancora qua», mi dice tutto convinto di sé.

«E quindi?» gli chiedo quasi esasperata. Devono capitare sempre tutte a me?

«Quindi le suggerisco di andare in un posto più tranquillo, cosicché potremo parlare un po’. Ci sta?», in quel momento mi fa l’occhiolino.

Che sfacciato!

«D’accordo, purché non mi accada nulla», riprendo un po’ della mia sicurezza.

«Le do la mia parola di gentleman. Andiamo su, altrimenti sa che confusione? Non ci penso nemmeno ad avere problemi».

Non vi racconto il modo in cui ci allontanammo dal museo, tralasciamo certe cose, vi racconterò invece che cosa ci siamo detti io e lo scrittore. Così nasce un’altra intervista per Life After Death.

 

M.D.T.: Intanto la ringrazio per avermi concesso di intervistarla, so che per i nostri lettori sarà difficile crederci, ma, insomma, eccoci qua. Può dirci qualcosa di lei?

Oscar Wilde: Grazie a lei per non aver urlato nel museo, altrimenti sa bene il casino – ehm, lasciamo questa parola lì dov’è – che avremmo fatto? Dovrei quindi dire qualcosa di me…mi faccia pensare un attimo. (Ride). Ecco, sì, ci sono, potrei parlarle di com’è nata la mia passione per la scrittura. Ci sta? Sono certo di sì, e sono certo che farà piacere anche ai lettori. Sono nato in una famiglia benestante: mio padre, Sir William, era un celebre oftalmologo irlandese, fondatore di un ospedale a Dublino; mia madre, invece, Jane Francesca Elgee era una poetessa irlandese di remote origini. Com’è facile immaginare, ho preso tutto da quest’ultima: la mia passione per la letteratura e per la mia eccentricità. Con mio padre, invece, pur avendo ben poco in comune, condividevo l’abilità oratoria e la scarsa considerazione per l’opinione pubblica. Un periodo che ricordo con affetto risale al 1874, quando frequentavo il Trinity College di Dublino. È lì che ho svolto i miei studi sui lirici greci, che mi fecero vincere la Berkeley Gold Medal, in altre parole il premio più alto della scuola. Ebbene sì, ero davvero un portento. Dopodiché studiai le materie classiche al Magdalen College di Oxford.

 

M.D.T.: Il suo impegno nell’ambito culturale è riconosciuto da più parti e non coinvolge solo la scrittura dei romanzi, bensì anche di poesie, di pezzi teatrali, giornalistici e la stesura di saggi. In che modo è riuscito a conciliare tutto ciò?

Oscar Wilde: Ogni cosa ha avuto il suo tempo. Allo scrittore André Gide dissi: «Ho messo il mio genio nella mia vita, e solo il talento nelle mie opere», un modo per sbalordire il piccolo puritano. Quello che intendo dire è che la mia personalità è sempre stata sfaccettata, ma soprattutto provocatoria. Ebbene sì, mi piaceva stupire la gente e l’opinione pubblica tutta della quale, come ho già detto, non mi curavo granché. Tant’è che il mio stesso stile è influenzato dalle mie opinioni in merito alla società: la mia scrittura è semplice, spontanea, incline alla ricerca del bon mot. Si arricchisce di aforismi e paradossi, e sa perché? Perché io voglio stupire la gente! Ho sempre voluto risvegliare l’attenzione del mio lettore: farlo riflettere. Tutto questo per dirle che il mio impegno nei confronti della cultura era doveroso, di qui il mio interesse per tutto ciò che è inerente alla stessa.

 

M.D.T.: Lei è il tipico esempio di un self-made man, di un uomo che ha costruito il suo personaggio di pari passo con le sue opere.

Oscar Wilde: Certo, il mio aspetto fa parte di tutto il pacchetto: prendere, o lasciare. A parte gli scherzi, si sa che la mia carriera è stata breve. È durata, infatti, poco più di una decina d’anni, ma durante i quali ho fatto numerose esperienze e non le rinnego. Probabilmente sono stato uno dei primi uomini che ha pensato di non anteporre il prodotto – i miei scritti, dunque – alla mia personalità, alla mia immagine. Ho preferito proporre me stesso agli altri, ma un’immagine che fosse altrettanto irriverente quasi quanto il mio stile. Preferisco dunque il comportamento tipico del dandismo, che consiste in un’ostentazione di eleganza dei modi e nel vestire, caratterizzato dalle forme di un individualismo ricercato e quasi esasperato. L’ho scelto perché ho voluto distinguermi dalla massa, segnata dalle brutture della Rivoluzione Industriale. L’arte in qualche modo doveva salvarsi, non le pare?

 

M.D.T.: Parliamo delle sue opere, e in particolare del suo celebre capolavoro Il ritratto di Dorian Gray. Che cosa ci può dire in proposito?

Oscar Wilde: Ecco, lo sapevo, quando si tratta di me, bisogna parlare anche di quest’opera. Sa quante ne ho scritte? Va be’, comunque, giacché la domanda è rivolta a questo mio romanzo, cercherò di essere il più esaustivo possibile. Il ritratto di Dorian Gray fu pubblicato dapprima sulla rivista Lippincott’s Monthly Magazine, poi nel 1891 lo feci stampare in un volume, scrivendone una prefazione. Immagino che tutti conoscano la storia del protagonista, Dorian, perciò mi limiterò a indicare brevemente i contenuti. Il libro fu volutamente e ostentatamente immorale, tant’è che i miei contemporanei lo guardarono con sospetto. Sa quanto la cosa mi abbia sconvolto? Oserei dire che ho fatto di tutto affinché le polemiche si trasformassero in umorismo. Gli argomenti sono l’arte e il bello e la necessità di non inquinarli con il moralismo. Compio una vera e propria promozione della libertà individuale e l’orrore per ogni forma di oppressione. L’opera s’ispira alla leggenda del Faust: il destino di un sapiente che, per il suo desiderio smodato di conoscere sempre di più, riesce persino a vendere la sua anima al diavolo. Dorian, invece, è accecato dalla sua bellezza dalla quale non vuole separarsi, perciò vende la sua anima affinché il diavolo gli conceda l’eterna giovinezza. Di qui sapete come va a finire.

 

M.D.T.: Che cosa può dirci della sua produzione poetica?

Oscar Wilde: Come per i miei romanzi, anche le poesie che ho scritto risentono dell’Estetismo, che è poi la chiave di lettura delle mie composizioni e che mi accomuna ad altri letterati come Gabriele D’Annunzio e Joris-Karl Huysmans. La mia vita è di un esteta, vissuta alla ricerca della bellezza che conduce l’uomo a vivere le sue esperienze con le passioni più sfrenate ed estreme: dagli affetti alla vita intellettuale, dalla morale alla fisica. «L’arte è un simbolo perché un simbolo è l’uomo». Nelle poesie riporto i miei pensieri – dettati dalle molte esperienze vissute –, anche quelli più reconditi e intimi. Parlo della vita in tutte le sue diverse sfaccettature. «Dico sempre ciò che non dovrei dire, anzi sono solito dire ciò che penso veramente. Questo è il grande errore del nostro tempo: rende tanto frequente i malintesi».

 

M.D.T.: E delle sue opere teatrali?

Oscar Wilde: Fra le mie opere conoscerete senz’altro L’importanza di chiamarsi Ernesto, una commedia teatrale in tre atti che è stata rappresentata per la prima volta a Londra il 14 febbraio 1895. Al solito la mia opera si carica di un valore simbolico che, questa volta, analizza l’onestà. Infatti, nessuno dei personaggi è veramente onesto con se stesso e la società. Si tratta di un espediente con il quale rivelo la vera natura dell’alta società vittoriana, che è molto legata all’apparenza e alla forma. Tuttavia, i testi teatrali sono per me importanti, poiché mediante l’ironia e il burlesco, riesco a far emergere i lati che caratterizzano le personalità: «Vivo nel terrore di non essere frainteso», un mio noto paradosso che rivela quanto io sia il primo a non credere alle mie affermazioni, e che si ricollega al proverbiale «Posso resistere a tutto fuorché alle tentazioni». Così, le situazioni che descrivo sono quelle tipiche borghesi, con avventure, scandali repressi e felicità coniugali in pericolo.

 

M.D.T.: Sa bene quanto la stampa giornalistica sia interessata anche, ma non solo, al gossip. Tuttavia, per questa volta vorrei lasciare da parte la sua vita personale, giacché è stata ampiamente approfondita, perciò le chiedo di salutarci con qualcosa che le appartiene. Ci può declamare i versi che lei preferisce, con i quali salutare i nostri lettori?

Oscar Wilde: Guardi, si è detto di tutto, perciò non temo nulla per quanto riguarda la mia vita privata. Ormai fa parte del passato, che comunque non rinnego. Nonostante ciò, vedrò di esaudire questa sua richiesta. Quello che mi chiede non è semplice, poiché potrei riportarle centinaia di versi, ognuno dei quali fa parte di un preciso periodo della mia vita. Vediamo un po’…sì, potrei dirle che: «Se noi non avessimo amato| chi sa se quel narciso avrebbe attratto l’ape| nel suo grembo dorato| Se quella pianta di rose avrebbe ornato| di lampade rosse i suoi rami!| Io credo che non spunterebbe una foglia| in primavera, non fosse per le labbra degli amanti| che baciano. Non fosse per le labbra dei poeti| che cantano».


 Written by Maila Daniela Tritto

 

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