“La nostra terra”, il nuovo film di Giulio Manfredonia: coltivare il futuro nella legalità

Giulio Manfredonia scrive con Fabio Bonifacci “La nostra terra, un film con i toni della commedia umoristica di cui firma anche la regia.

Dalla trilogia inarrivabile di Coppola al recentissimo Gomorra di Garrone, la letteratura cinematografica ha già discusso e messo in scena mafia e derivati. Risulta pertanto difficile continuare a parlarne ed essere immediati, adeguati ed originali senza il rischio di precipitare in intellettualismi e retorica edulcorata.

La nostra terra si propone come un film didascalico dove protagonista non è semplicemente la mafia, ma la risposta di chi sceglie di difendere la propria dignità e sa costruire reti di relazioni.

Film corale, con un tessuto narrativo immediatamente riconoscibile, affidato a dialoghi in cui si prediligono scelte linguistiche – fino all’uso della parlata dialettale – per oggettivare comportamenti e sentimenti,  stati di fatto e stati d’animo: per raggiungere anche il pubblico dei giovani il regista sembra avere costruito dei personaggi che inizialmente potrebbero apparire stereotipati, ma che nell’economia del film sono perfettamente calibrati.

La trama è molto lineare: una associazione antimafia di giovani pugliesi intende costituire una cooperativa per potere coltivare i terreni del boss locale secondo la legge 109 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle associazioni mafiose,  fortemente voluta da Pio La Torre, assassinato il 30 aprile del 1982.

Filippo (Stefano Accorsi) ha sempre combattuto la mafia restando al Nord dietro la sua ordinatissima scrivania: pauroso e impacciato raggiunge il Sud dove la burocrazia, l’ottusità dei politicucci locali e la stessa ed altrettanto colpevole inesperienza di Rossana (Maria Rosaria Russo) e Salvo (Silvio Laviano) impediscono l’avvio dei lavori nei terreni. Ma Filippo crede nella legge e la sa applicare e così riesce a sbloccare la situazione che sembra stagnare fra intoppi e lentezze.

Il carattere esasperatamente rigoroso che nasconde però una effettiva fragilità e la tendenza alla retorica del personaggio di Filippo sono bilanciati dall’esuberanza di Cosimo (Sergio Rubini) il fattore, amico del boss Nicola Sansone fino a poco tempo prima del suo arresto.

Così entrano nella vita di questo prototipo di società legale, che crescerà rispettosa delle diversità, anche il dolcissimo Frullo (Giovanni Esposito) psicotico non violento, la coppia omosessuale formata da Salvo (Silvio Laviano) e Piero (Massimo Cagnina), il forte e muscoloso Tore (Giovanni Calcagno) atleta olimpico diversamente abile sulla sedia a rotelle, l’immigrato Wuambua (Michel Leroy) che ha un esasperato bisogno dello stipendio per mantenere la famiglia rimasta in patria, il contadino Veleno (Nicola Rignanese) stanco di vedere morire la sua terra avvelenata dalle scorie tossiche che rifiuta l’idea di tornare a lavorare in Germania; e Azzurra (Iaia Forte) che interpreta con eleganza una donna dal passato doloroso, ma decisa – in un tentativo quasi disperato – a recuperare la parte più ancestrale e femminile di se stessa, quella di madre, proprio attraverso il contatto con la natura. Azzurra, a tratti vaneggiante e sognante, equilibra l’impulsività della volenterosa Rossana che è sempre stata costretta a “portare i pantaloni” per farsi rispettare.

Cosimo mette a servizio della piccola comunità le sue conoscenze e l’esperienza di lavoratore della terra: tutti si impegnano mettendo le proprie risorse a disposizione l’uno dell’altro.

Sergio Rubini dà forza ad un uomo che, seppure privato della terra che un tempo era stata sua di diritto, non si arrende, anzi, per continuare a prendersi cura della vigna e dei campi, rinuncia alla propria libertà mettendosi a servizio di Nicola Sansone. Con la sua enfasi spontanea e la gustosa parlata pugliese, necessaria per disegnare i tratti di un personaggio che altrimenti perderebbe tutta la sua immediatezza, Sergio Rubini coinvolge il pubblico.

La cooperativa – che riprende i progetti di Don Ciotti e di Libera – diviene così effettivamente il luogo, oltre che dell’incontro, della condivisione e della crescita di chi, abituato sempre a rispondere al sopruso e alla violenza dell’illegalità con l’illegalità stessa, deve imparare a rispettare le sostanziali differenze individuali e a farne tesoro per riuscire, coltivando la terra, nel comune obiettivo di creare lavoro e  con esso anche un modello di vita socialmente e quindi politicamente utile.

A Tommaso Ragno è affidato il ruolo scomodo del mafioso: Nicola Sansone è un uomo bello, colto e raffinato, pieno di vita, legato alla tradizione – usa volutamente la cadenza pugliese per ribadire l’importanza del linguaggio fatto di “parole che non si dicono”, quello stesso linguaggio che proprio Cosimo spiega a sua volta a Filippo -.

Sospeso nel tempo – difatti Sansone sembra a mezzo tra il “mafioso all’antica” la cui filosofia di vita è “studiare conta più di sparare, ma se non spari che studi a fare” e il “mafioso moderno” che manovra scorie radioattive o chimiche – il boss pare a tratti prendersi gioco di se stesso: in quel suo sorriso spigoloso acerbo e falsamente cortese in cui sembra insinuarsi una ironia sottile e ineffabile oppure quando, ormai sconfitto, nello sguardo vagamente velato dalle lacrime, accostiamo ai suoi gli occhi del Michael Corleone di Al Pacino che rinfaccia al fratello Fredo di averlo “tradito”. Certamente Nicola Sansone scardina il luogo comune del mafioso ignorante e sgradevole riprendendo la personalità elegante e posata dei padrini alla Coppola.

Nella fotografia pulita e lievemente tendente ai toni scuri in un Sud che non è geograficamente definito e nelle musiche di Mauro Pagani che riprendono i sapori e gli umori di un Salento luminoso e incapace di arrendersi, protagonista assoluta è la terra: Cosimo rinuncerà a piegare ancora la testa solo quando Sansone gli proporrà di fermare la cooperativa inquinando le falde per “fare venire il deserto”.

Bisogna rimanere uniti ed è necessario difendere la propria umana dignità “per” e “sulla” terra che si coltiva e quindi si vede ciclicamente rinascere. Questo è il modo per vivere ed essere liberi. Solo così l’uomo può davvero essere uomo: non fa riflettere soltanto il numero delle vittime delle mafie o il numero delle persone coinvolte in quei sistemi, ma anche il numero di coloro i quali, consapevoli del dolore e della distruzione che tutti i poteri ostruzionisti comportano – che agiscano alla luce del sole o dietro una facciata di rispettabilità poco importa – finalmente reagiscono. Perché la terra è di chi merita di coltivarla.

Una storia che intreccia le vicende umane dei personaggi con la lotta all’illegalità attraverso il rispetto e la salvaguardia della terra che è lavoro. Retorica a parte, con qualche sorriso ed amore per sconfiggere la solitudine, il deserto.

 

 Written by Irene Gianeselli

 

 

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