“Doppia negazione” di Ivan Vladislavić: bianchi e progressisti – un paradosso?

“Sulla facciata dell’edificio un murale: una fila di neri su sfondo bianco. Quella folla uguale ma separata attrasse la mia attenzione. Osservavano con aria solenne, anche se con gli occhi sbarrati. Le masse, pensai – la maggioranza silenziosa, che osserva l’ansia autoreferenziale europea con calma assira.”

Doppia negazione è una storia – una delle tante storie – sullo strano paradosso vissuto da chi si è trovato a essere un bianco progressista nel Sudafrica dell’Apartheid. Si può essere bianchi e progressisti, quando si è cittadini di un’entità geografica in cui la stragrande maggioranza della popolazione è istituzionalmente, politicamente, culturalmente sottomessa alla minoranza bianca?

Ci si ritrova – similmente a come accade al protagonista di questo romanzo – ad accusare i genitori di essere corresponsabili di un regime che sfrutta e degrada la maggioranza nera mentre la cameriera Xhosa serve la cena in silenzio. Ma è tale ipocrisia, a cui il protagonista non riesce a sfuggire se non sfuggendo dal Sudafrica, che permette all’autore di realizzare che:

“Senso di colpa e senso di responsabilità non erano la stessa cosa.”

Il romanzo inizia con un’auto-degradazione voluta. Il protagonista lascia l’università e cerca un lavoro. Non uno qualsiasi, perché il suo primo scopo non è – come quello della “maggioranza silenziosa” di cui tanto si parla nelle aule – guadagnare soldi. Eppure è proprio quello che ha in mente, quel voler vivere nel “mondo vero”, che lo porta a cercarsi un lavoro che non sia “borghese”: dipingere strisce e frecce nei parcheggi. Il paradosso è lì, fin dall’inizio: più si cerca di combattere il sistema, di essere progressisti, più ci si scopre incastrati in esso. Il protagonista, bianco e borghese, fa una scelta che denota un lusso che è prerogativa dei bianchi e dei borghesi: il lusso di mettersi nei panni di un nero.  La coscienza tace, nulla è cambiato.

È l’incontro con un fotografo, Saul Auerbach, a dargli una nuova prospettiva. Non una soluzione, perché Vladislavić di soluzioni non ne ha. Si limita a osservare, assieme al protagonista, le diverse forme di uno dei simboli centrali al segregazionista Apartheid: l’urbanistica. Entra nelle case, con l’occhio del fotografo, sentendo tutta la propria alienità. Più si avvicina a quel “mondo vero” che i giovani sudafricani progressisti dovrebbero cambiare, più l’azione viene demolita dal paradossale essere un bianco progressista in Sudafrica. Rimangono due cose: l’osservazione e la fuga. E così, dopo aver osservato, il protagonista fugge a Londra, dove diventa fotografo.

Tornerà in Sudafrica ad affare concluso, quando l’Apartheid è già stato smantellato da qualcun altro. Tornerà con una macchina fotografica, contribuendo a quel “raccontare storie” che è stato centrale nella costruzione della Rainbow Nation: non più la storia canonica, scritta dai bianchi, ma le mille, piccole-grandi storie, delle infinite diversità che compongono il Sudafrica. Ci sarà spazio per tutte?

Se leggerete questo libro inciamperete in un pacco di lettere che, a causa dell’illeggibilità del destinatario, non sono mai state ricevute. Sono storie perse, che forse l’umanità di un singolo – a differenza dell’anonimità di un ufficio postale – potrebbe salvare. Il loro destino sembra essere quello del Sudafrica. Sta al lettore scoprirlo.

Doppia negazione mette in scena una presa di consapevolezza che una certa generazione di bianchi sudafricani si è trovata a dover affrontare, incastrata tra le idee politiche della generazione precedente – ereditate direttamente dall’Europa – e le idee politiche dell’Occidente loro coevo – così forti in quella stessa Europa che aveva ispirato l’Apartheid.

L’Apartheid è stato uno scontrarsi di anacronismi – avanti e indietro nel tempo contemporaneamente. La retorica del nazionalismo, inizialmente forgiata come ideale soluzione per permettere a ogni etnia di creare la propria nazione senza essere annacquata da altre, del Primo Dopoguerra e quella, del Secondo Dopoguerra, dell’egualitarismo. In mezzo, in Occidente, c’è stata la Seconda Guerra Mondiale, un Olocausto e una revisione dei principi fondamentali che ha stemperato nazionalismo e progressismo rendendoli concetti vaghi abbastanza per coesistere, almeno in astratto, senza che l’ipocrisia implicita nella loro coesistenza nei discorsi politici sia palese agli occhi di chiunque. In Sudafrica no.

In Sudafrica il nazionalismo non ha ceduto, ed è sopravvissuto in tutto il suo vigore quando, nella seconda metà del Novecento, i moti post-coloniali sono entrati nelle sue università. Chi ha vinto?

Vladislavić non ha risposta. Il suo è, in fondo, un quadro intimistico, che si arrende al senso di impotenza di quei sudafricani bianchi e progressisti che, in questo scontro di ideologie, hanno scorto il paradosso. Come in una doppia negazione, le due ideologie si sono annullate a vicenda, creando individui politicamente nulli, immobilizzati dall’aver realizzato l’intrinseca ipocrisia della propria posizione. Ne è derivata un’apatia politica, uno smettere di credere nell’azione che – forse per motivi completamente diversi, forse no – non sono sconosciuti neanche all’Europa contemporanea.

 

Ivan Vladislavić (1957) è uno scrittore sudafricano vincitore di diversi premi letterari. Tra i suoi libri più famosi, oltre a Double Negative, ricordiamo The Folly (1993, romanzo) e Portrait with Keys (2006, raccolta di scritti). Ha lavorato anche come curatore di numerosi volumi d’arte e di architettura.

 

Written by Serena Bertogliatti

 

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