Alda Merini: la poetessa dei Navigli, la pazza della porta accanto
“Sono nata il ventuno a primavera,/ ma non sapevo che nascere folle,/ aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta./ Così Proserpina lieve/ vede piovere sulle erbe,/ sui grossi frumenti gentili/ e piange sempre la sera./ Forse è la sua preghiera.” – “Vuoto d’amore” – Alda Merini
Alda Merini è conosciuta ai più come la poetessa che cantò il dolore degli esclusi. Lei, donna dalla vita controversa ed emarginata dalla società, ha dedicato se stessa alla poesia e alla difesa della donna e dell’umanità.
«Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni. Un bel tradimento da parte dell’Inghilterra, perché noi eravamo tutti a tavola, chi faceva i compiti, chi mangiava, arrivano questi bombardieri, con il fiato pesante, e tutt’a un tratto, boom, la gente è impazzita. Abbiamo perso tutto», Alda Giuseppina Angela Merini, nota a tutti come Alda Merini, si racconta così in un testo autobiografico, scritto nell’autunno del 2004 in occasione di un’intervista condotta dalla giornalista Cristiana Ceci.
Fin da giovanissima conosce il dolore e la perdita: il dolore per le molte difficoltà di una condizione familiare modesta e la perdita per quel poco che aveva di cui vivere, spazzato via in una volta sola. Il padre, Nemo Merini, svolgeva il ruolo di dipendente presso le assicurazioni la Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza del Duomo; mentre la madre, Emilia Painelli, era casalinga. Seconda dei tre figli avuti dalla coppia, dedicherà al fratello Ezio alcuni dei suoi versi poetici, seppure con un certo distacco.
La passione, nutrita e viscerale, per la letteratura si manifesta fin da subito; tanto che, a soli quindici anni, esordisce come autrice e nel 1947, a sedici anni, conosce i primi momenti bui della mente e l’esperienza dell’internamento. Alda era una giovane fragile e sensibile, dal carattere che spesso la conduceva alla malinconia più assoluta, e perciò simile a un’altra donna celebre della letteratura: Virginia Woolf.
Vive il suo rapporto con i genitori con incomprensione, tuttavia eccelle in ambito scolastico. Non c’erano dubbi: Alda era una scrittrice dall’evidente talento, che la portò a vincere numerosi premi letterari come il Premio Librex Montale nel 1993, il Premio Viareggio per la Poesia nel 1996, il Premio Procida – Elsa Morante nel 1997, e il Premio Dessì per la Poesia nel 2002; e più volte candidata al Premio Nobel per la letteratura.
Alda trova nella poesia un luogo in cui riversare se stessa e i suoi sentimenti spesso taciuti e oppressi. La vita da «esclusa» è, infatti, il motivo ricorrente della sua produzione:
«Ieri ho sofferto il dolore, / non sapevo che avesse una faccia sanguigna, / le labbra di metallo dure, / una mancanza netta d’orizzonti. / Il dolore è senza domani, / è un muso di cavallo che blocca i garretti possenti, / ma ieri sono caduta in basso, / le mie labbra si sono chiuse / e lo spavento è entrato nel mio petto con un sibilo fondo / e le fontane hanno cessato di fiorire, / la loro tenera acqua/ era soltanto un mare di dolore / in cui naufragavo dormendo, / ma anche allora avevo paura degli angeli eterni. / Ma se sono così dolci e costanti, / perché l’immobilità mi fa terrore?» (da La terra santa, 1984).
La poetessa ritornerà più volte sui motivi della mortificazione, legati alla sua esperienza vissuta nel manicomio. Tuttavia, la violenza, la separazione dalle figlie, la sterilizzazione e gli elettroshock non scalfiscono la sua personalità, che si manifesta nella sua opera dai toni spontanei, quasi visionari e orifici. Il suo stile si avvicina a quello di Dino Campana, procedendo per accostamenti senza un apparente nesso logico.
“Anche la follia merita i suoi applausi”, recita uno degli aforismi più conosciuti della poetessa. La follia, infatti, diventa il tema principale in cui si rivolge nei suoi versi: intingendo la penna in quel «calamaio nel cielo», che la porta a essere una delle stelle più brillanti del firmamento poetico. Perfino la follia assume le sembianze di una cosa sacra, forse tra le più sacre che esistano sulla terra: è un dolore purificatore, che scandaglia l’anima, in grado di trasmettere tutta la realtà del cosmo.
Infatti, è rilevante la raccolta La terra santa, scritta nel 1979 dopo l’esperienza di un altro internamento. L’opera diventa “il suo capolavoro” − come ha sostenuto la critica letteraria, filologa semiologia e scrittrice, Maria Corti −, con la quale vincerà il Premio Librex Montale. «Mi sento cattolica e profondamente moralista, nel senso che sono una persona seria allevata da genitori serissimi, pesanti e pedanti in fatto di morale. Non lo so se credo in Dio, credo in qualcosa che…credo in un Dio crudele che mi ha creato, non è essere cattolici questo?»
L’elemento sacrale, e il suo accostamento alla follia e alla sua vita quotidiana, diventa un punto nodale della sua produzione. A tal proposito complesso e talvolta inspiegabile è il suo rapporto con la fede. Sebbene questa sia incrollabile, tuttavia è vissuta in modi molto diversi. Eppure come lei stessa sostiene, l’amore non è sola gioia. Pertanto anche il Dio che l’ha creata, lo stesso che ha creato montagne, fiumi e foreste lo immagina “solo, con la barba, vecchio, un po’ cattivo, un Dio crudele che ha creato persone deformi, senza fortuna”. Infatti, Alda conduce la sua esistenza “svegliandosi sempre in forma, e deformandosi attraverso gli altri”.
Altro tema ricorrente della sua opera è il ruolo che lei attribuisce al poeta: «Il poeta deve parlare, deve prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni, e farne oro colato. Ora la poesia dovrebbe essere un fenomeno un po’ più extraconiugale, diciamo un fenomeno collettivo. Per carità, non tutti hanno voglia quando tornano dal lavoro, di leggersi i poeti, che Dio ce ne guardi. Però la poesia educa il cuore, la poesia fa la vita, riempie magari certe brutte lacune, alle volte anche la fame, la sete, il sonno. Magari la ferita di un grande amore, un amore che è finito, oppure un amore che potrebbe nascere».
In Clinica dell’abbandono − opera suddivisa in due parti Poemi omerici, e Clinica dell’abbandono, appunto − pubblicata da Einaudi nel 2003 e 2004 con l’introduzione di Ambrogio Borsani e con uno scritto di Vincenzo Mollica, procede verso il riepilogo della sua vita e della sua carriera. La sua poesia si rinnova continuamente, ed è espressione di un amore in parte appagato. È la riflessione sull’esistenza, che diventa più naturale portando la sua lirica ad aprirsi con il mondo intero.
Un’esistenza dedicata alla difesa e alla dignità della donna, protagonista di alcune delle sue opere più celebri quali A tutte le donne, L’inno alle donne e Il regno delle donne, donata alla fondazione Doppia Difesa, la cui prima finalità è di aiutare le vittime a uscire dal silenzio degli abusi e della violenza. Alda è tra le icone della seconda ondata del femminismo degli anni Settanta, come Giuliana Morandini, Leviana Gruber, Dacia Maraini, Oriana Fallaci. Fin dai suoi albori, il femminismo trova ampia espressione di sé in un tipo di letteratura che propugna l’emancipazione della donna.
Alda Merini è stata così controversa, da scatenare vere e proprie azioni recriminatorie sulla sua persona. Per gli abitanti del Naviglio era «la pazza della porta accanto», quasi a voler rilevare che non c’è posto per le diversità e per le imperfezioni, in una società attenta all’apparenza e alle convenzioni.
«Non ho bisogno di denaro. / Ho bisogno di sentimenti, / di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri / di rose dette presenze, / di sogni che abitino gli alberi, / di canzoni che facciano cantare le statue, / di stelle che mormorano all’orecchio degli amanti. / Ho bisogno di poesia, / questa magia che brucia la pesantezza delle parole, / che risveglia le emozioni e dà colori nuovi» (Incontro alla poesia).
Si rifugia nella poesia poiché è l’unica che può «ascoltarla» e alla quale fare affidamento. Inoltre, è l’unica strada percorribile per interrogarsi sulla condizione umana, un po’ come avviene anche in Eugenio Montale, che ha cercato di dare una spiegazione al suo “male di vivere”, o all’ermetismo di Salvatore Quasimodo, con i quali ha intessuto rapporti di amicizia e ha condiviso le idee che sono state alla base della loro carriera.
Alda Merini, come lei stessa ammette, è dunque una «piccola ape furibonda»: sensibile alle angherie subite, ma dal portentoso talento letterario.
Written by Maila Daniela Tritto
ALDA MERINI E’ STATA’ L’EMBLEMA VIVENTE DI COME LA LEGGEREZZA DELLE PAROLE CONTENUTE NELLA POESIA QUANDO ENTRANO NELLE VISCERE DELLO STATO EMOTIVO SUPERANO CERTE BARRIERE CHE LA FOLLIA DELIMITA.