Considerazioni sul Rilke flâneur e breve rassegna storica sul passeggiatore solitario – parte prima
Tra le figure letterarie che tuttora non cessano di affascinare e di creare nuovi dibattiti sulla odierna realtà urbana, il flâneur è senza ombra di dubbio un personaggio di primaria importanza, protagonista di tutta una serie di romanzi, poesie, saggi che dalla fine dell’ottocento fino ad oggi non si è mai fermata.
Possiamo dire questo anche laddove la figura non viene esplicitamente citata, in tutte quelle opere che comunque ne hanno per così dire assorbito la sua posizione “obliqua”, attualizzandola in chiave post-moderna (basti pensare per esempio, nel caso di citazioni esplicite al cyberflâneur che si muove senza una meta precisa nella virtualità delle pagine web) fornendo così il ritratto di un personaggio altamente metamorfico e decisamente poco classificabile in una categoria sociale ben definita.
Prima di addentrarci nelle opere più significative, sarà doveroso ripercorrere la storia di questa ambigua parola francese che presenta delle origini molto incerte. Secondo alcuni deriverebbe dall’antico scandinavo flana che significa correre vertiginosamente qua e là, secondo altri ad una parola che corrisponde grosso modo al nostro libertino. L’unica notizia certa di cui disponiamo è che questo termine era utilizzato nel XIX secolo per definire un bighellone e un perdigiorno, una persona che trascorre il tempo passeggiando in città, facendo acquisti o guardando la folla.
Il termine lo si trova nell’Enciclopedia Larousse del XIX secolo che ci da conferma di questo significato in riferimento però agli spazi dilatati delle grandi città, identificando il flâneur come un perfetto perdigiorno. Per ciò che concerne la nostra lingua, è stata colta una corrispondenza tra la parola flâneur e il modo di dire “fare flanella”, espressione che significa bighellonare e trascorrere il proprio tempo oziando.
C’è da ricordare anche che il flâneur nasce in un contesto urbano ben preciso, ovvero la metropoli di Parigi, agli inizi del XIX secolo. Questa figura fa la sua comparsa nei feuilletons (i celebri romanzi d’appendice pubblicati sui giornali) e nelle physiologies, genere letterario nato per classificare i tipi umani riconducibili ad una classe sociale e professione. E’ curioso come una figura tanto vaga e dai contorni così poco definiti abbia destato fino ai nostri giorni un fascino così magnetico. Le varie definizioni che ricaviamo dalle fonti del tempo, concordano però tutte nel fatto che il flâneur rappresenti una figura solitaria che vaga tra la folla, osservandone in maniera critica i comportamenti.
Già da questo si può capire come il personaggio in questione non sia soltanto un modello artistico o letterario bensì una figura ibrida e versatile, imparentata con quella del sociologo, se non addirittura dell’antropologo o dello storico. Nello sguardo del flâneur infatti lo studio dei comportamenti umani nell’ambiente metropolitano va molto al di là del puro bighellonare. Quello che all’occhio comune appare come ozio è invece una vera e propria disciplina da imparare nel cuore pulsante delle metropoli, un costante allenamento dello sguardo per il raggiungimento di una vigile attenzione a tutto ciò che avviene nello spazio urbano; in un certo senso un lavoro, ma un lavoro del tutto estraneo al modello di produttività capitalistica dominante e ai suoi ritmi alienanti. La figura del flâneur è diventata celebre grazie al poeta moderno per eccellenza Charles Baudelaire: nascerà con lui un nuovo modello di artista in grado di incarnare, quasi come un archetipo, lo spirito errabondo, “moderno” e metropolitano del poeta, esule, nell’epoca della società borghese capitalistica.
Molti sono i testi in cui il poeta francese si fa cantore di una nuova epoca immersa nel dinamismo liquido delle nascenti metropoli, specialmente in una sezione dei Fiori del Male, intitolata I quadri di Parigi e nei poemetti in prosa dello Spleen di Parigi (Petits poèmes en prose) che nascono proprio in relazione allo spazio urbano parigino. Sarà lo stesso Baudelaire infatti a chiarire nell’introduzione allo Spleen di Parigi, le ragioni della forma dei suoi poemetti in prosa, pensati in virtù di un preciso ambiente, quello metropolitano, e proprio per questo capaci di restituire nel testo quei “soprassalti della coscienza” causati dalla frequentazioni delle grandi città.
Un altro testo fondamentale di Baudelaire che illustra alcune delle principali caratteristiche del flâneur, è il saggio Il Pittore della vita moderna. Qui il poeta francese introduce l’elemento chiave della vita metropolitana, quello che lega migliaia di individui insieme in un unico corpo, pur mantenendo intatta, anzi accentuandone la loro solitudine: la folla. Per usare le stesse parole di Baudelaire la folla è il regno del flâneur, così “come l’aria è il regno dell’uccello, e l’acqua l’elemento del pesce”.
La suddetta visione del flâneur, immerso felicemente nella massa amorfa delle metropoli, ci rimanda ad un altro scrittore cui Baudelaire ha in parte preso spunto per definire il suo modello di artista moderno: questo autore è Edgard Allan Poe con il racconto “L’uomo della folla”. Nel racconto in questione, tra i più emblematici della letteratura sulla flânerie, troviamo all’inizio il protagonista (che è anche voce narrante) convalescente, seduto, presso la finestra di un caffè londinese, mentre scruta con minuziosa curiosità i passanti, cercando di indovinarne la personalità e l’occupazione sociale. Successivamente, il suddetto protagonista sarà letteralmente rapito dall’aspetto di un bizzarro personaggio – uno strano vecchio che sembra muoversi con disinvoltura e con un piacere morboso attraverso la folla – tanto da decidere di seguirlo per studiarne da vicino gli spostamenti.
A racconto concluso, il protagonista scoprirà come il vecchio sia attratto in maniera ipnotica dalla folla, la quale agisce su di lui, in modo simile ad una sostanza stupefacente, attirandolo in un vortice febbrile che non gli concede alcuna sosta: egli è infatti “l’uomo della folla”, colui che non vuole, anzi non può in alcun modo rimanere da solo. Esiste una letteratura critica sterminata sull’uomo della folla poeniano, ma molti di questi testi hanno portato a considerare erroneamente l’uomo della folla, la figura del vecchio che non vuole rimanere da solo, come l’esempio paradigmatico di un perfetto flâneur.
Se però ci soffermiamo ad indagare sui due personaggi che il racconto ci presenta, possiamo verificare che le cose non stanno esattamente così. Vi sono infatti nel racconto due figure distinte e due diverse reazioni nei confronti dello choc metropolitano: se da una parte troviamo l’osservatore curioso ma distaccato, dall’altra al contrario abbiamo invece un soggetto che si abbandona in maniera del tutto cieca al flusso della folla cittadina, annullando in questo modo la sua identità in una febbrile passeggiata che non conosce riposo. Entrambi passeggiano ma mentre l’uno rimane sempre vigile e sorvegliato nel suo atteggiamento e quindi distaccato rispetto alla folla, l’altro viene totalmente inghiottito dalla folla e anzi si direbbe proprio che egli cerchi volutamente un annullamento della sua individualità: si direbbe insomma che quest’ultimo non riesca in alcun modo ad accettare la compagnia di se stesso, oltre che la sua solitudine, cercando in maniera febbrile, come un tossicodipendente, questo oblio insito nella fantasmagoria della folla.
Ora, considerare l’uomo della folla come un flâneur, sarebbe per le ragioni esposte sopra un errore grossolano, poiché questa figura in un certo senso nasce in opposizione alla massa e deve mantenere comunque un certo margine di distacco per studiarne con piglio critico i dettagli. L’ipotesi più plausibile è che il flâneur sia piuttosto una sintesi tra queste due figure, l’osservatore attento e ozioso ma distaccato e l’uomo della folla che non vuole rimanere solo. Walter Benjamin, filosofo tra i più profetici del novecento, ha analizzato in moltissimi scritti la figura del flâneur di cui Baudelaire rappresenterebbe l’esempio più eclatante, un nuovo tipo di intellettuale in netto contrasto coi modelli di produzione capitalista della società borghese, un outsider che attraverso il suo vagabondaggio ozioso e senza una meta, manifesta il suo dissenso contro la produttività borghese: si tratterebbe secondo Benjamin di una risposta provocatoria alla corsa frenetica di un’inarrestabile industrializzazione, cui il flâneur opponeva il suo passo lento e svagato. Alla base della flânerie c’è quindi, per il pensatore berlinese, l’idea che il profitto dell’ozio abbia maggior valore di quello del lavoro, l’ozio del flâneur è “una dimostrazione contro la divisione del lavoro.”
Il flâneur nell’attraversamento incoerente degli spazi urbani rappresenterebbe, secondo Benjamin, un “botanico del marciapiede” che studia attentamente gli elementi che compongono il corpo labirintico della città, considerata alla stregua di una foresta, un luogo naturale quindi, con il piglio analitico proprio di chi giunge ad una classificazione scientifica delle cose. È una definizione che non può che far pensare ad un evidente paradosso: il massimo della libertà, garantita dal vagabondaggio senza una meta ben precisa, che riesce a produrre uno sguardo analitico e preciso, quasi scientifico nella sua impersonale oggettività.
Non si deve dimenticare che in questo ritratto del campo di indagine del flâneur, Benjamin pensa in qualche modo anche a se stesso e al suo operare. Lo stesso filosofo berlinese si considerava un flâneur sia in senso letterale che metaforico; in questo secondo caso un flâneur del pensiero che si muove con curiosità irrefrenabile di testo in testo, passeggiando senza un’apparente disegno: e qui ci riallacciamo al discorso accennato sopra, riguardo la natura ibrida di questo modello che non riguarda solo il campo artistico o letterario ma tutte le scienze umane. C’è senz’altro nel flâneur benjaminiano un disprezzo nei confronti della tradizione, intesa come insieme di regole prestabilite che debbano rendere un testo conforme ad una maniera di esposizione prestabilita. Nei testi benjaminiani tutto questo viene costantemente eluso da uno stile ellittico, sibillino e aforistico, che in virtù di queste caratteristiche, è un costante richiamo al percorso svagato e privo di una meta del flâneur. Dal piano fisico, la flânerie si trasferirebbe a quello virtuale del testo. Anche in Benjamin la figura del flâneur oscilla tra i due comportamenti antitetici, esemplificati dai personaggi del racconto di Poe, non essendo identificabile in toto né con il passeggiatore solitario né con l’uomo della folla. Leggiamo infatti:
“Baudelaire ha voluto equiparare l’uomo della folla, sulle cui orme il narratore di Poe percorre in tutti i sensi la Londra notturna, al tipo del flâneur. Qui non possiamo seguirlo. L’uomo della folla non è un flâneur. In lui l’abito tranquillo ha lasciato il posto a un tenore maniaco[…].”
Quindi nel flâneur si arriva ad una sintesi tra i due personaggi poeniani, anche se la propulsione conoscitiva e l’osservazione risultano decisamente predominanti rispetto a tutto il resto. È facile intuire le conseguenze: l’osservazione della realtà urbana, l’attenzione e lo studio della varietà delle tipologie umane implica necessariamente un certo distacco, giacché è proprio questa distanza che permette al flâneur di studiare al meglio il proprio oggetto di analisi senza subire distrazioni. Il flâneur è dunque fuori e nello stesso tempo dentro la folla, ma è soprattutto colui che si contrappone ad essa, proponendosi come una risposta inedita alla frenesia e agli automatismi della vita moderna, mostrando il suo dissenso per il sistema produttivo capitalistico attraverso il percorso discontinuo e incoerente della sua promenade. Non si dovrebbe, a mio avviso, limitare il flâneur alle sole caratteristiche sopra citate, in quanto questa stessa figura, codificata in parte da Benjamin, Baudelaire e Poe, non ha mai avuto un quadro ben definito dove collocarsi. Cercare di relegare il flâneur a certi stereotipi è un errore, se si pensa a come questa stessa figura si ponga fuori da ogni tipologia sociale ben definita. Infatti, la schiera dei numerosi flâneur che si sono susseguiti da Baudelaire in poi, costituisce un insieme piuttosto vario e eterogeneo. Giampiero Nuvolati afferma infatti:
“Naturalmente oggi come in passato, definire con precisione cosa si intende per flâneur è assai complicato. Soprattutto perché l’originalità, la molteplicità e la vaghezza dei suoi comportamenti non si prestano facilmente all’individuazione di un profilo preciso. […] Lo stesso Benjamin non definisce mai chiaramente questa figura, ma si limita ad associarla ad una serie di situazioni e comportamenti. […] Siano essi viaggiatori danarosi o devianti ai margini della società, ciò che caratterizza i flâneur è lo spirito provocatorio finalizzato a mettere in crisi la territorialità come elemento fisicamente e culturalmente vincolante […] Da queste riflessioni emerge con chiarezza che probabilmente non esiste neppure la figura del flâneur: è solo un archetipo cui corrispondono diversi livelli di propensione alla flânerie in ciascun individuo.”
È stato ipotizzato dunque che il flâneur piuttosto che una figura ben definita sia invece un modello ideale di relazionarsi allo spazio urbano, una metafora percettiva, una sorta di dispositivo narrativo. È quanto ritiene in proposito Chris Jenks quando dice:
“il flâneur non è solo Baudelaire, anche se indubbiamente lui passeggiava per i boulevards; non è una categoria descrittiva di quel gruppo della borghesia parigina che, come Baudelaire, aveva tempo, dato dal benessere materiale, di camminare, guardare e provare piacere e intrattenimento dagli spettacoli pubblici[…]. Il flâneur, pur radicato nella vita quotidiana, è una forma analitica, un dispositivo narrativo, un attitudine verso la conoscenza e i suoi contesti sociali. È l’immagine del movimento attraverso lo spazio sociale della modernità[…].”
Il flâneur strappa il velo dell’abitudine alle cose per vederle come se queste si mostrassero sempre per la prima volta: lo sguardo, privo di pregiudizi riacquisterà quella pienezza di senso che è propria dell’infanzia, in cui le cose si mostrano come eterna scoperta e nuovi significati emergeranno con facilità dopo che i meccanismi percettivi ordinari sono stati infranti. Gaspare Armato ha sintetizzato molto bene quell’apertura conoscitiva del flâneur nei confronti dell’esistenza, così da rendere questo strano passeggiatore solitario una figura ibrida, appassionato studioso delle più disparate discipline, esperto in ogni campo dello scibile umano:
“Salta alla vista un particolare, fra i tanti, che accomuna i “pedoni attenti” ovunque si trovino, a Parigi come a Baltimora, a Berlino come a Vienna: attingere alla vita succhiando linfa vitale, fino all’ultimo giorno, vivere il momento, l’attimo, il carpe diem, nella maggiore intensità possibile, a condizione, nello stesso tempo, di esserne distaccati per averne una visione più ampia e poter descrivere, per quanto possibile ex partis, la Storia che fluisce verso il mare magnum dell’eternità. […] E allora il flâneur è stato destinato, per dirla con Baudelaire, a passeggiare per prendere atto e contatto – utilizzando il senso analitico – con la materialità che si modifica, per trascrivere in un quaderno una realtà che sfugge agli occhi dei non attenti. “Pedone attento”, dunque, il nostro flâneur, attento alla storia, alla geografia, all’architettura, alla sociologia, vigile ai sentimenti, a tutto ciò che lo circonda e cresce con lui e dentro di lui, coscientemente aperto all’Esistenza, all’Esistenza con la E maiuscola.”
Uno dei flâneur più significativi della letteratura del novecento, anche se poco conosciuto in questa veste, è stato il poeta boemo di lingua tedesca Rainer Maria Rilke: oltre ad essere stato, con la sua indole nomade ed errabonda, un flâneur curiosissimo nel corso di tutta la vita, tanto da spingerlo a visitare l’intera Europa, la sua stessa opera può in parte essere studiata attraverso la metafora percettiva del flâneur. In particolar modo, il periodo più interessante della sua creazione artistica in relazione alla flânerie è quello del cosiddetto “dire oggettivo”, così chiamato da egli stesso per indicare un inedito sentire artistico che si proponeva di spodestare l’io lirico per riappropriarsi, tramite una attenta osservazione, della vera essenza delle cose. Questa fase artistica che vede impegnato Rilke nei primissimi anni del novecento segnerà una svolta estremamente significativa della sua poetica rispetto ai precedenti risultati, ancora dominati da un io lirico ingombrante e privo di rispetto per l’irriducibilità e l’alterità delle cose. Rilke, ad un punto cruciale del suo percorso artistico inizia a porsi il problema della visibilità delle cose, della loro evidenza nella pagina bianca del testo, rinunciando all’ingerenza dell’io. È un’apertura verso il mondo, dedizione verso la singolarità di ogni cosa, per “tradurre” nel testo quei significati reconditi che si nascondono, soffocati, da quegli abiti opachi e consunti che sono le abitudini e il pregiudizio. Per far questo, Rilke dovrà spezzare l’incantesimo della percezione ordinaria e ritrovare così quella pienezza di significato che solo l’infanzia riesce a dare all’esperienza, donando una luce inedita alle cose che saranno così restituite allo sguardo vergine e innocente della prima volta.
Il risultato di questo processo sarà la creazione delle Nuove Poesie (1907-1908) e le indimenticabili pagine del breve romanzo I Quaderni di Malte Laurids Brigge (1910). Già nelle Nuove Poesie è possibile ravvisare una certa varietà tematica che in qualche modo ci riconduce alla natura nomade ed eclettica del flâneur. Saranno soprattutto certi luoghi (chiese, piazze, fontane, città) e certi animali (si ricordi per esempio la poesia La pantera) ad ispirare in Rilke alcune tra le poesie più belle. L’insieme eterogeneo delle poesie infatti è senz’altro sintomo di una voglia irrefrenabile di scoperta, di una curiosità che non smette mai di passeggiare di luogo in luogo e di testo in testo: così come per Benjamin, la flânerie in Rilke si trasferisce nel metodo di studio, caratterizzato da un’esplorazione apparentemente casuale di argomenti, accostati nella propria scrittura in una maniera del tutto inconsueta e destabilizzante. Così, anche per le tematiche mitiche e religiose, è ravvisabile lo stesso atteggiamento, quando queste verranno riattualizzate e collocate in un contesto diverso da quello d’origine: di qui lo straniamento. Basti pensare ad una poesia come La partenza del figliuol prodigo che stravolge letteralmente il senso della parabola biblica: il protagonista nella poesia di Rilke sceglie di fuggire dalla propria famiglia per ritrovare la dimensione della sua interiorità. La solitudine è l’estremo atto di fedeltà verso se stessi. L’esilio è quindi una scelta deliberata per fuggire da tutto ciò che impedisce la realizzazione della propria interiorità, e anche l’amore o meglio un tipo di amore basato sul possesso dell’altro, è percepito come un ostacolo al perfezionamento del proprio essere. Proprio come un flâneur, il protagonista della poesia rilkiana cerca nel perseguimento del viaggio la vera essenza del proprio essere per la realizzazione di una nuova vita:
“Ora andar via da questo grumo torbido/ ch’è nostro e tuttavia non ci appartiene;/ che come acqua in antiche fonti trema/ specchiandoci e l’immagine sfigura;/ da tutte queste cose che ogni volta/ si riaggrappano a noi come spine -/ andarsene, e l’una o l’altra cosa/ che più non vedevamo tanto era/ quotidiana e abituale, all’improvviso,/ quasi fosse un principio, da vicino/ guardarla, concilianti e dolci, in viso;/ e comprendere come impersonale,/ come di là da tutti era la pena/ onde la nostra infanzia fino all’orlo era piena -;/ Pure, andar via, mano da mano, come/ riaprendo una piaga già guarita;/ andarsene; ma dove? Nell’incerto,/ a una calda, lontana, estranea plaga,/ come una quinta dietro ad ogni gesto/ indifferente: parete o giardino;/ e andarsene: perché? Per impulso o natura,/ per impazienza, per attesa oscura,/ per l’Incompreso e per l’Incomprensibile:// Prendere tutto questo su di sé e forse invano/ lasciar cadere il nostro dalle dita/ per morir soli e non saper perché –// Questo è l’ingresso di una nuova vita?”
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Written by Pietro Pisano
Il poter “vedere” ciò che tutti guardano non sempre, anzi quasi mai possibile.La vita caotica ce lo impedisce anche col suo ritmo frenetico che coinvolge tutto e tutti impedendoci di vivere godendo delle bellezze che ci circondano.Gaspre Armato è un “flaneur” che ammiro e che cerca di coinvolgere e, per fortuna riuscendoci spesso,a imitarlo.
Gentile Pisano
leggo solo oggi questo suo pezzo, a parte la grande utilità per me di un resoconto così ricco e informato sul tema mi piace farle i miei complimenti per un testo così preciso e di scrittura limpida e coerente. Grazie.
La ringrazio davvero molto per il suo commento di apprezzamento! Ho cercato nel mio lavoro di raccogliere più fonti possibili, a partire dal mio lavoro di tesi di laurea, per poi proseguire con un discorso più vasto e attuale.